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Alla ricerca del giusto criterio per giudicare del valore della vita

Il saggio ha i caratteri di un piccolo trattato sul valore della vita con intento divulgativo che evita il linguaggio tecnico. Al tempo stesso la trattazione assume un carattere dialogico: anzitutto è un dialogo con se stesso, poi, durante tutto il ciclo della riflessione, vengono coinvolti anche vari interlocutori che rappresentano le controfigure del protagonista. È curiosa, qui, l’affinità che sussiste tra il testo schleiermacheriano e gli scritti etici di Aristotele: come Aristotele, per dire la sua opinione riguardo ad un determinato argomento, passa in rassegna gli endoxa (opinioni autorevoli) per dimostrare la loro inattendibilità, così Schleiermacher descrive delle modalità di apprezzamento della vita e le definisce inappropriate e illusorie. Alcuni (Hedion), nell’analizzare il proprio passato, rievocano solo quei momenti in cui hanno potuto godere delle bellezze del mondo, dimenticando, o meglio, negando di aver avuto anche delle contrarietà nella propria esistenza; altri ([G]ustav) considerano invece il passato come un peso che sono felici di deporre e gli oggetti, o i singoli eventi, che hanno avuto più consistenza nella loro vita sono considerati come dei guerrieri che li hanno stimolati a combattere e che hanno sconfitto; altri ancora ([D]ohna) guardano solo a quegli avvenimenti/oggetti che hanno fatto monumento della loro attività, considerando i restanti privi di significato anche se un tempo vi si dedicavano con impegno e devozione.
Tutti si illudono che le loro idee siano il frutto di un’accurata meditazione sulla propria vita, ma in realtà non si tratta altro che di opinioni sulla vita in generale, generate da una frettolosa sensazione. L’unico modo per stilare un bilancio della propria vita, secondo Schleiermacher, è quello di non lasciarsi mai sedurre dalle impressioni attuali dell’esistenza: «Il mio modo di sentire attuale non mi deve sedurre; – scrive – è questo che voglio ottenere. Lasciatemi, voi tutti cari impulsi della mia esistenza attuale!»
Ma non si può definire equamente e onestamente un periodo trascorso senza possedere un criterio per giudicare del valore e del fine della vita: infatti, seppur senza nessun influsso di sensazioni attuali, raccogliessimo insieme le impressioni e gli effetti di ciò che ci è capitato, avremmo solamente un aggregato di cose eterogenee tra loro. Ciò che ci occorre è, dunque, un principio che ponga queste cose eterogenee in rapporto tra loro e che ci metta in condizione di esprimere un giudizio sul valore della vita.
Ci sono sempre stati diversi indicatori per misurare il valore di una particolare esistenza. La vita, ad esempio, potrebbe avere gran valore per un uomo nelle cui mani si concentra un grande potere; entrando in quest’ottica, conferisce più valore alla sua vita colui che ha un potere maggiore, ma, procedendo in questa direzione, ci si imbatte in una forte aporia che si può esprimere con quel famoso paradosso che Diderot tradusse nel romanzo Jaques il fatalista e il suo padrone  e che poi Hegel riprese nella Fenomenologia dello Spirito: la dialettica servo – padrone. Tale potere crea una situazione alquanto bizzarra e pericolosa: il padrone, nonostante possa disporre di gruppi più o meno ampi di esseri umani, dipende sempre da quelli che gli obbediscono, per cui diventa a sua volta schiavo.
Dunque, non può certo essere il potere il criterio di fondo per giudicare del valore della vita! Allora quale può essere?

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