II
integrazione nel tessuto sociale. Non concepiva quindi la carità come arida 
erogazione di sussidi, finalizzati a tacitare i poveri consentendo loro la 
sopravvivenza pur nella posizione di emarginati, ma impostava l'intervento 
assistenziale in un contesto di rispetto del bisognoso, aiutato con sollecitudine a 
superare le proprie difficoltà. Queste convinzioni, parte integrante della mentalità 
milanese, inducevano i cittadini a non delegare al potere politico la gestione 
dell'assistenza, attribuendone invece la responsabilità ai privati, che avvertivano 
l'esigenza morale di intervenire direttamente, in modo spontaneo, obbedendo ad una 
sollecitazione interiore e non ad un obbligo legale. 
Da questa tendenza connaturale alla tradizione milanese sono scaturite le iniziative 
di numerosi filantropi che hanno messo a disposizione dei poveri i loro beni 
materiali e la loro affettuosa sollecitudine, operando secondo criteri di intervento 
del tutto personali e non strutturati secondo un piano prestabilito. E' questa un'altra 
peculiarità della beneficenza milanese, non attuata sulla base di una 
programmazione precedente, ma effettuata in modo spontaneo quando se ne 
evidenziava l'urgenza. L'istituzione privata cercava di lenire la sofferenza del 
bisognoso, posticipando l'interazione col potere. Da queste modalità di intervento 
assistenziale conseguiva un'inevitabile pluralità di iniziative che sfociava a volte in 
un eccessivo individualismo. Il moltiplicarsi degli interventi caritatevoli 
autonomamente gestiti determinava l'aumento dei costi e, spesso, la dispersione 
delle risorse, frantumate in un numero eccessivo di opere di carità non sempre 
rispondenti a criteri di equità. 
Le famiglie più facoltose instauravano spesso una sorta di monopolio, arrogandosi il 
diritto-dovere di gestire gli interventi assistenziali. Nel XVIII e XIX secolo ne 
scaturiva un proliferare delle istituzioni assistenziali, che coinvolgevano poi gran 
parte della popolazione milanese nelle campagne di raccolta dei fondi finanziari.  
La consapevolezza della necessità di razionalizzare gli interventi determinò in 
seguito un progressivo allentarsi del senso di responsabilità dei ceti superiori nei 
riguardi dei bisognosi e il conseguente superamento della "civiltà della 
beneficenza".    
Il forte coinvolgimento emotivo rendeva i milanesi particolarmente sensibili ai 
problemi dei bambini esposti al torno, l'esistenza dei quali, già precaria per 
 III
l'instabilità economica del diciottesimo secolo, fu ulteriormente aggravata dai 
radicali cambiamenti economici e sociali intervenuti nel corso del secolo 
successivo.  
L'assistenza dell'infanzia abbandonata ha sempre costituito un problema sociale 
rilevante che coinvolgeva l'intera comunità, le forze politiche e le istituzioni 
caritatevoli. 
Nel corso dei secoli sia la carità privata sia quella pubblica hanno tentato di 
strutturare un modello di beneficenza soddisfacente, in grado di rispondere in modo 
adeguato ed esaustivo alle esigenze del neonato, della madre e, insieme, della 
collettività; le formule d'intervento approntate, tuttavia,  hanno spesso ignorato, o 
comunque trascurato, proprio le necessità di coloro che avrebbero dovuto essere i 
veri destinatari privilegiati dell'intervento, cioè i bambini, risultati spesso vittime 
anziché beneficiari delle iniziative intraprese dai vari governi.  
L'ignoranza delle fondamentali nozioni sanitarie e psicologiche ha spesso ostacolato 
l'individuazione di approcci assistenziali realmente proficui, indirizzando invece gli 
organismi preposti a scelte che soddisfacevano soprattutto l'esigenza collettiva di 
sistemare, in modo almeno apparentemente dignitoso, migliaia di neonati ritenuti 
"eccedenti" rispetto alle necessità demografiche.  
La popolazione era considerata ottimale quando il numero dei cittadini era 
proporzionato alle disponibilità alimentari e quando si dimostrava in grado di 
rispondere in modo adeguato alle richieste di contingenti militari da parte dello 
Stato. 
Carestie, epidemie e guerre, tuttavia, alteravano spesso il precario equilibrio 
demografico, aumentando il numero dei morti all'interno delle comunità, per cui si 
rivelava opportuno disporre di figli "di riserva", da riconoscere se e quando la 
famiglia ne avvertiva la necessità, come accadeva in seguito alla morte di altri figli 
allevati in famiglia o quando si rendeva utile il reddito di un'altra forza lavoro o era 
richiesta la disponibilità di altre braccia. 
Anche lo Stato, in occasione di guerre particolarmente cruente, incrementava le 
pretese e il consueto prelievo militare subiva un'impennata. Era quindi anche nel 
suo interesse disporre di futuri coscritti, dei quali l'Ospizio provinciale costituiva 
una fonte inesauribile. Salvare la vita dei neonati rifiutati dalla famiglia rispondeva 
 IV
dunque ad una logica politica concreta ed opportunistica, oltre che ottemperare al 
rispetto dei valori morali e religiosi. 
I brefotrofi, nati generalmente da iniziative umanitarie private, ottennero presto 
sovvenzioni governative, anche se, dopo l'Unità, lo Stato si rivelò incapace di 
sostenere l'onere finanziario, derivante dall'esigenza di provvedere al mantenimento 
di un numero esorbitante di bambini reietti. 
Il dovere di salvaguardare il diritto alla riservatezza della madre indusse gli istituti 
di carità ad ideare la ruota, strumento che garantiva la salute fisica del bambino e 
l'anonimato della madre, e  l'esposizione al torno divenne la modalità più consueta 
di abbandono dei neonati. 
A Milano la ruota fu aperta in San Celso nel 1594; il suo uso e, soprattutto, l'abuso 
progressivamente aumentato nel tempo, innescò una serie di problemi che 
nell'Ottocento ne rese discutibile l'efficacia. Ideato per le madri illegittime, divenne 
presto strumento improprio di pianificazione familiare, del quale si avvalevano 
illecitamente le madri legittime per liberarsi dei figli indesiderati.  
Il quadro statistico elaborato dal Consiglio Provinciale nel 1865 sulla base dei 
prospetti annuali redatti da Andrea Buffini e Angelo Leonesio -direttori del 
brefotrofio di Santa Caterina dal 1842 al 1866- dimostra che nel solo periodo 
compreso tra il 1845 e il 1864 furono accolti nel brefotrofio milanese 85.267 
bambini, con una media annuale di 4.263 abbandoni, corrispondenti a quasi un terzo 
di tutti i nati in città.  
Le dimensioni assunte a Milano nella seconda metà del XIX secolo dal fenomeno 
dell'esposizione ne esplicitarono la rilevanza sociale, innescando una lunga diatriba 
tra sociologi, economisti e politici sull'opportunità di lasciare aperti i torni.  
Milano assunse un ruolo emblematico perché il problema dell'esposizione infantile 
s'intersecò e interagì coi mutamenti derivanti alla città dalla nascente 
industrializzazione.  
La produzione di fabbrica coesisteva con la preesistente manifattura e col lavoro a 
domicilio, mentre l'aumentata esigenza di manodopera incentivava l'immigrazione 
dalle zone rurali circostanti e sollecitava il coinvolgimento delle donne nel mondo 
del lavoro. Si rendeva necessario mettere a disposizione dei lavoratori nuove unità 
abitative e provvedere al recupero degli edifici fatiscenti situati nelle aree centrali. 
 V
Sorsero nel suburbio quartieri nuovi e Milano subì una profonda evoluzione che ne 
modificò non solo la topografia ma anche i tradizionali valori. L'immagine della 
città ricca, in rapida espansione economica, mal si conciliava con la miseria che, in 
realtà, prostrava gran parte della popolazione, costretta a vivere in stamberghe e a 
sottoporsi per buona parte della giornata a un lavoro logorante, i cui proventi 
tuttavia non consentivano di condurre un tenore di vita  dignitoso.  
Con l'avvento della nuova economia industriale mutò il ruolo tradizionalmente 
attribuito alle donne, forzatamente coinvolte nell'ingranaggio produttivo 
dall'esigenza degli imprenditori di avvalersi di una manodopera non qualificata e 
quindi pagata con un compenso inadeguato. 
Nella seconda metà del XIX secolo il reddito derivante al nucleo familiare dal 
lavoro maschile era insufficiente a causa dell'aumentato costo della vita. Il 
contributo femminile si rese dunque indispensabile per compensare l'incremento dei 
prezzi e consentire un modesto miglioramento del tenore di vita.  
I figli pagarono il prezzo dell'evoluzione sociale ed economica che non ne aveva 
previsto un'adeguata collocazione. Non furono preventivamente approntate strutture 
finalizzate ad accogliere i lattanti durante la giornata lavorativa dei genitori e i 
piccoli, abbandonati a se stessi, costituirono per i familiari soprattutto una fonte di 
preoccupazione. 
In questo contesto, per le famiglie incapaci di provvedere autonomamente al 
mantenimento della prole divenne ricorrente avvalersi dell'esposizione; mancavano 
adeguati sussidi sociali e istituzioni che prospettassero una concreta alternativa 
all'abbandono, che appariva una soluzione inevitabile.  
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo il quadro della realtà sociale era 
desolante e le strutture della carità pubblica erano al collasso. 
La ricerca si propone di analizzare una delle iniziative scaturite dall'assistenza 
privata, nel tentativo di integrare e completare quella pubblica della quale erano 
evidenti i limiti e le difficoltà. Tra i vari interventi è stato particolarmente rilevante 
quello di Giuseppe Sacchi che, coadiuvato dai suoi collaboratori, non si è limitato a 
deplorare le carenze delle strutture assistenziali del suo tempo, ma ha offerto una 
reale alternativa alle madri, indotte a ricorrere all'esposizione dall'impossibilità di 
provvedere personalmente alla custodia dei figli. Proprio in questo è consistito il 
 VI
merito di Sacchi, che seppe realizzare un'iniziativa concreta, i ricoveri, strutturati 
sulla base di un'indagine economica e sociale della realtà milanese del suo tempo.  
Sacchi e Laura Solera Mantegazza reagirono al panorama desolante scaturito 
dall'inchiesta, dalla quale era emerso un quadro degradato della città; la crisi 
economica si dilatava in una crisi morale e di valori e si delineavano per i neonati 
abbandonati prospettive allarmanti, rese più funeste dalla precaria situazione 
sanitaria, caratterizzata da frequenti epidemie di colera, tifo, gastro-enteriti.  
L'intervento del filantropo milanese si estese sia alla sfera materiale che a quella 
morale. Scosso dai dati relativi alle percentuali di mortalità degli esposti affidati 
all'Ospizio Provinciale, Sacchi progettò una soluzione concreta, senza lasciarsi 
dissuadere dalla vastità dell'impresa. 
La sua determinazione incentivò analoghe iniziative a sostegno della maternità e 
indusse le Autorità ad affrontare il problema dell'esposizione. Gli interventi 
legislativi si articolarono in una serie di provvedimenti, primo fra i quali la chiusura 
del torno, seguito da altre disposizioni finalizzate ad ostacolare l'abbandono dei 
legittimi. Le leggi erano tuttavia accomunate dalla carenza di sussidi a sostegno 
della maternità, offerti invece proprio dal Pio Istituto della Maternità e dei Ricoveri, 
che svolse un ruolo fondamentale anche nel progressivo riconoscimento della 
dignità della donna, in particolare nella veste di madre.  
La peculiarità delle innovazioni introdotte nella società milanese dal Pio Istituto 
risulta ancora più evidente se queste sono rapportate alla realtà storica, economica e 
culturale del diciannovesimo secolo, caratterizzato dal rapido succedersi di 
avvenimenti, culminati nell'Unità d'Italia, che modificarono la struttura politica 
della città.  
Una valutazione del contributo sociale ed ideologico apportato dal Pio Istituto alla 
realtà milanese non può prescindere dalla riflessione sull'incisiva personalità di 
Giuseppe Sacchi, attivo protagonista delle vicende del suo tempo e per questo 
inquisito nell'ambito delle indagini sulla diffusione della Giovine Italia. Animato da 
spirito di riforme sociali e seguace delle idee di Gian Domenico Romagnosi, 
proiettò e concretizzò il movimento culturale in molteplici iniziative filantropiche, 
convinto che le ideologie filosofiche fossero legittimate proprio dalla concreta 
applicazione alla storia. 
 VII
Il Pio Istituto si configurò quindi come una creazione di Giuseppe Sacchi, che vi 
proiettò i problemi e le esigenze della società del suo tempo. L'analisi della nuova 
istituzione rivela le speranze, le conquiste e le delusioni dei nuovi protagonisti della 
storia di Milano, i lavoratori, che avevano appena intrapreso il lungo cammino per 
la conquista di un ruolo più incisivo nella realtà cittadina; una metamorfosi 
irreversibile stava modificando Milano, in procinto di diventare centro propulsore 
della vita industriale, commerciale e finanziaria del Regno.  
Vi era quindi un'interdipendenza tra la storia del Pio Istituto e quella di Milano. La 
nuova istituzione era la prova della determinazione di Sacchi a rispondere alle 
esigenze della popolazione operaia, ma era anche il mezzo mediante il quale il 
filantropo sollecitava indirettamente i lavoratori, in particolare le donne, ad 
acquistare maggiore coscienza di sé, ad affermare dei diritti, a pretendere, in 
particolare, la disponibilità di servizi finalizzati ad agevolare la partecipazione 
diretta delle lavoratrici alla produzione.  
Il Pio Istituto di Maternità e dei Ricoveri nacque perché Sacchi ne intuì la necessità 
a Milano e paradossalmente spettò al filantropo non solo idearlo, ma anche rendere 
le lavoratrici consapevoli della sua utilità. L'istituzione contribuì così a sconfiggere 
la rassegnazione, la passività disperata che affossava le iniziative degli appartenenti 
alle classi sociali svantaggiate, incapaci di reagire perché privi degli strumenti 
culturali e materiali che avrebbero reso possibile l'affrancamento.  
La mancanza di risorse fungeva da deterrente a qualsiasi tentativo popolare di dare 
l'avvio a un cambiamento e la situazione rischiava di cristallizzarsi in una pericolosa 
impotenza delle classi operaie, insoddisfatte e disperate, ma rese momentaneamente 
inermi dalla mancanza di alternative e costrette a sottostare alle inesorabili leggi 
della miseria che imponevano loro di alleggerire alla ruota il fardello costituito dai 
figli. Il dramma dell'abbandono si ripeteva con la complice indifferenza delle 
Autorità, che camuffavano la colpevole mancanza d'interventi con l'apparente 
soccorso offerto dal brefotrofio. 
Il Pio Istituto fornì alle necessità delle lavoratrici una risposta concreta, i cui effetti 
trascendevano i servizi effettivamente offerti riuscendo ad attivare l'intervento delle 
Autorità. 
 VIII
Anche in seguito alle reiterate sollecitazioni del Pio Istituto, infatti, nel 1868 fu 
decretata a Milano la chiusura della ruota e furono adottate iniziative a sostegno 
delle madri legittime, incapaci di provvedere autonomamente all'allevamento dei 
figli; fino a quel momento aveva provveduto all'erogazione dei sussidi la sola carità 
privata.  
Il contesto sociale ed economico milanese fu aggravato anche dai rilevanti 
movimenti demografici. L'egemonia economica e finanziaria assunta da Milano 
nella seconda metà dell'Ottocento richiamò sempre più consistenti schiere di 
lavoratori, indotti ad abbandonare le campagne dalla prospettiva di un'occupazione 
adeguatamente remunerata negli stabilimenti industriali che stavano proliferando in 
città. Poiché i nuovi arrivati incrementavano la già consistente disponibilità di forza 
lavoro a basso costo, il trasferimento comportava disagi ed ostacoli non previsti, 
connessi alla difficoltà di trovare un alloggio, pagarne l'affitto e garantire alla 
famiglia un tenore di vita dignitoso. La consistente affluenza dei lavoratori provocò, 
infatti, una lievitazione del prezzo degli appartamenti, il numero dei quali fu presto 
insufficiente ad ospitare gli immigrati. Nonostante l'edificazione di case operaie 
nelle aree periferiche, i salari si rivelarono inadeguati e si rese necessario il 
contributo economico derivante dal lavoro di donne e ragazzi, anch'essi indotti ad 
integrare il reddito familiare col loro modesto salario.  
Crebbe la presenza femminile nei settori che non richiedevano una specializzazione 
specifica e nei quali era sufficiente l'utilizzo di una manodopera non qualificata. Ne 
risultò sovvertita la tradizionale struttura familiare contadina; alla donna, costretta 
ad assentarsi da casa durante la lunga giornata lavorativa, fu preclusa la possibilità 
di accudire i figli neonati e spettò alla beneficenza privata compensare le carenze di 
quella pubblica e rispondere alle nuove esigenze sociali. 
Il contributo del Pio Istituto deve quindi essere valutato nell'ambito del contesto 
sociale ed economico che caratterizzava Milano nella seconda metà dell'Ottocento, 
emerso dall'analisi di fonti d'archivio, fonti a stampa e periodici del diciannovesimo 
e ventesimo secolo. 
Il Pio Istituto di Maternità si configurò come uno dei primi strumenti, a Milano, di 
affrancamento femminile dai vincoli familiari, condizione irrinunciabile per la sua 
emancipazione e per l'acquisizione di una professionalità, ritenuta fino a quel 
 IX
momento appannaggio esclusivamente maschile. La ricerca si propone anche di 
focalizzare quali ostacoli abbiano rallentato l'affermarsi dei ricoveri e quali 
condizionamenti esterni e mentali possano essere ritenuti responsabili dell'iniziale 
diffidenza delle madri.  
L'ottimismo di Sacchi seppe vincere progressivamente le resistenze, col supporto di 
altri sussidi, finalizzati ad agevolare l'emancipazione femminile dai vincoli 
familiari; primo fra questi deve essere annoverato un latte artificiale di nuova 
formula, ben tollerato dal delicato organismo infantile. 
Il Pio Istituto di Maternità e dei Ricoveri si prospetta quindi come emblema di un 
intervento benefico che, proponendosi di favorire il benessere dei neonati 
agevolando le madri lavoratrici, seppe in realtà trascendere gli obiettivi immediati e, 
prescindendo dai pregi e dai difetti intrinseci all'istituzione, contribuì a sollecitare e 
promuovere l'affrancamento delle classi sociali svantaggiate e in particolare delle 
donne.      
 1
CAPITOLO I 
L'ESPOSIZIONE DEI NEONATI AL TORNO DI MILANO 
 
1. L'esposizione alla Pia Casa di Santa Caterina alla Ruota 
 
"Il nostro popolo usa esporre i suoi nati come si gitterebbe un rifiuto di famiglia" 
denunciava con orrore Federico Castiglioni
1
 nel 1857, fiducioso tuttavia che il 
previsto allestimento di un nuovo presepe a Porta Tosa avrebbe contribuito a 
reprimere il fenomeno, "e colla facile scusa della impotenza fisica ad allattare, o 
della impotenza economica di trovare una nutrice, si abbandonano le proprie 
creature alla carità pubblica dell'ospizio che non può fare il miracolo di preservare 
dalla morte in un anno una immensa legione di 4.400 e più bambini"
2
. Il medico 
rilevava che nel 1856 erano stati deposti alla ruota di Milano ben 4.436 neonati, 
deplorando che "cosiffatta esposizione di parvoli aveva luogo in un anno in cui non 
pesava sulla classe povera alcun grave infortunio".  
Il fenomeno dell'esposizione dei neonati, infatti, aveva assunto a Milano 
proporzioni tali da destare l'allarme delle istituzioni e delle persone più sensibili ai 
problemi sociali. Anche il Ministro dell'Interno, scrivendo al Prefetto di Milano nel 
giugno 1864, manifestava la propria preoccupazione, definendo lodevole l'obiettivo 
"di frenare l'esposizione dei legittimi […] a fronte del soverchiante aumento di 
quella piaga"
3
.  
La condanna espressa contro la scelta di esporre i figli incontrava tuttavia la pietosa 
comprensione di chi ne attribuiva la responsabilità alla disperazione e all'ignoranza 
delle masse popolari. "Il povero, stretto dal bisogno - asseriva Mosè Rizzi
4
 l'11 
luglio 1858 in occasione della settima riunione del Pio Consorzio dei benefattori del 
Pio Istituto di Maternità - imparò a far assegnamento sulla Ruota, abituandosi 
                                                 
1
 Federico Castiglioni, un medico di Santa Corona, fu tra i più attivi collaboratori del Pio Istituto per 
i lattanti di Milano.  
2
 F. Castiglioni, Su lo stato morale ed economico del Pio Istituto di Maternità e dei Ricoveri durante 
gli anni 1855-56, in «Annali Universali di Statistica, economia pubblica, geografia, storia, viaggi e 
commercio»  d'ora in poi «AUS»), vol. CXXXI, s. I, luglio, agosto, settembre 1857, Milano, pp. 65-
76, in particolare p. 66. 
3
 Archivio di Stato di Milano   d'ora in poi ASMi  , Prefettura, b. 366, fascicolo III, Lettera del 
Ministro dell'Interno al Prefetto di Milano, Torino, 3 giugno 1864. 
4
 Mosè Rizzi, medico, fu un attivo collaboratore di Giuseppe Sacchi che coadiuvò nella gestione del 
Pio Istituto dei lattanti.  
 2
all'idea che la pubblica beneficenza è tenuta ad allevare i suoi figli, di cui tanto più 
sente il peso se numerosa è la prole, scarso il guadagno e se, come in questi anni, 
concorre il caro dei viveri […] il povero tiensi giustificato di una colpa di cui non 
conosce la gravezza e le conseguenze"
5
. 
Il fenomeno dell'esposizione, comune a tutte le grandi città europee, nella seconda 
metà dell'Ottocento raggiunse infatti a Milano un rilievo particolare. La maggior 
parte degli abbandoni avveniva mediante la deposizione del neonato nel torno della 
Pia Casa di Santa Caterina o con l'esposizione "pubblicis locis".  
Nel capoluogo lombardo il problema dell'assistenza agli esposti era stato 
drammatico fin dal medioevo; "quando correvano tempi di barbarie ed era gloria il 
non avere pietà", come ricordava Giuseppe Sacchi nel corso della quarta riunione 
dei benefattori del Pio Istituto della Maternità e dei Presepi pei bambini lattanti in 
Milano, tenuta il 15 luglio 1855, "l'arciprete Dateo […] raccoglieva i bambini 
abbandonati sulla pubblica piazza e loro apriva un sano asilo in cui una solerte e 
affettuosa carità tentava sopperire al seno materno e alle materne tenerezze"
6
.  
Sacchi faceva riferimento alla tradizione secondo la quale proprio a Milano ebbe 
origine il primo brefotrofio d'Europa, lo xenodochio fondato nel 787 dall'arciprete 
Dateo che "onde ovviare ai numerosi infanticidi che si commettevano esponendo i 
fanciulli per le vie e gettandoli financo nei letamai […], stabilì che in una casa posta 
vicino alla chiesa Maggiore e da lui comperata, si ricoverassero i bambini"
7
. Non vi 
sono tracce successive dell'istituzione di Dateo, tuttavia Andrea Buffini
8
, direttore 
della Pia Casa degli Esposti dal 1842 al 1849, citava Della Porta il quale aveva 
asserito che nell'815 Alberto, arcivescovo di Milano, donò molti beni proprio 
all'ospedale di Dateo. L'Arcivescovo Landolfo di Carcano avrebbe trasferito 
l'ospedale di Dateo presso San Celso.  
                                                 
5
 M. Rizzi, Intorno allo stato morale ed economico del Pio istituto della Maternità e dei Presepj pei 
bambini lattanti in Milano durante gli anni 1856 - 1857, in «AUS», vol. CXXXV s I, fasc. luglio, 
agosto, settembre 1858, pp. 7-22, in particolare p. 10.  
6
 G. Sacchi, Intorno allo stato morale ed economico del Pio Istituto della Maternità e dei Ricoveri 
pei bambini lattanti in Milano durante l'anno 1854. Memoria sesta, in «AUS», CXXIII, fasc. luglio, 
agosto, settembre 1855, pp. 117-137, in particolare p. 122. 
7
 L. A. Casati, Atti della Commissione nominata da S.E. il marchese di Villamarina prefetto di 
Milano per studiare l'organizzazione attuale della Pia Casa degli Esposti di Santa Caterina e 
proporre alla medesima le opportune riforme, Milano, Bernardoni, 1866, p. 94.  
8
 Andrea Buffini, medico, diresse prima la Casa dei trovatelli di Brescia e, dal 1842 al 1849, 
l'Ospizio di Santa Caterina di Milano. Redasse per primo uno studio veramente organico sul 
fenomeno dell'esposizione a Milano. 
 3
Notizia certa dell'esistenza di una struttura finalizzata alla cura dei trovatelli risale al 
1158 quando fu stipulata una convenzione fra l'ospedale di Santo Stefano alla Ruota 
e l'Ospedale di Santa Barbara in Brolo
9
, quest'ultimo con funzione di cura degli 
esposti fino agli inizi del XVI secolo.  
Dal 1465 provvide all'assistenza dell'infanzia abbandonata l'Ospedale di San Celso, 
aggregato all'Ospedale Maggiore: il numero degli esposti superava già il migliaio, 
come risulta dalla relazione di Gian Giacomo Gilino ai deputati dell'Ospedale 
Maggiore presentata il 4 novembre 1508
10
. L'elevato costo di mantenimento dei 
trovatelli indusse a stabilire criteri restrittivi nelle ammissioni, così da ostacolare 
l'abbandono dei legittimi; con questo obiettivo, fin da allora furono erogati sussidi 
in denaro alle madri bisognose e ai genitori di gemelli.  
Le funzioni dell'Ospedale del Brolo nell'assistenza all'infanzia abbandonata furono 
gradualmente assorbite dal San Celso che, inizialmente riservato agli esposti di età 
inferiore a un anno, dal 1528 accolse anche le partorienti.  
Il 15 gennaio 1529 l'Ordinatio pro expositis, in vigore fino al 1868, stabilì che 
potevano essere ricoverati solo gli illegittimi che rischiavano la morte abbandonati 
in luogo pubblico e i figli di madri povere che ricorrevano ai sussidi di baliatico.  
Il primo torno entrò in funzione in San Celso nel 1594; chiuso nel 1761, fu riaperto 
presso l'ospedale Maggiore e il numero degli esposti, lievemente diminuito, 
aumentò mentre cresceva in proporzione il numero degli esposti che morivano. "In 
un manoscritto, conservato negli archivi del nostro grande Spedale - ricordava 
Giuseppe Sacchi - è detto che il Cardinale Arcivescovo di Milano nel 1771" già 
rilevava che gli reietti erano in maggioranza legittimi e "faceva voti perché si 
trovasse mezzo di soccorrere efficacemente le povere puerpere nelle angustie della 
loro condizione, affinché non fossero spinte dalla miseria a separarsi dai loro parti e 
a gettarli nel vortice della esposizione"
11
.  
Una statistica promossa da Vienna tra il 1761 e il 1770 nel Brefotrofio evidenziò 
una mortalità del 43% della quale Kaunitz informò preoccupato il governatore di 
                                                 
9
 Cfr. La Ca' Granda. Cinque secoli di storia e d'arte dell'Ospedale Maggiore di Milano, Milano, 
Electa, marzo-agosto 1981, p. 72. 
10
 G. Albini, L'infanzia a Milano nel Quattrocento. Note sulla registrazione delle nascite e sugli 
esposti all'Ospedale Maggiore in «Nuova Rivista storica», LXVII, 1983, pp. 144-159, in particolare 
p. 154. 
11
 G. Sacchi, Intorno allo stato morale ed economico del Pio Istituto della Maternità […] in Milano 
durante l'anno 1854, Memoria sesta, cit., in particolare p. 126. 
 4
Milano
12
, conte Firmian
13
. Inviato da Vienna per una ispezione, il dottor Bernardino 
Moscati
14
 nel maggio 1772 comunicò all'Imperatrice che "angustie di luogo assai 
nocive alla salute di questi poveri bambini trovasi nello spedal maggiore per 
maniera che è necessario condensare perfino cinquanta bambini in tre sole, altronde 
non molto grandi, stanze e tenerveli quattro per letto"
15
. Rilevando come 
l'addensamento favorisse la diffusione di malattie contagiose, il chirurgo constatava 
che i bambini erano "costretti a rimanere quasi tutto il giorno conficcati sopra una 
piccola segiola e a respirare la medesima non rinnovata aria corrotta". Poiché 
l'Ospedale Maggiore non era evidentemente un luogo idoneo alla custodia dei 
piccoli abbandonati, occorreva individuare un luogo più appropriato.  
L'Arcivescovo di Milano fu coinvolto nel piano di riorganizzazione dell'Ospedale 
Maggiore, del quale Kaunitz aveva persino prospettato la chiusura a causa delle 
difficoltà economiche
16
.  Il caso dell'Ospedale Maggiore era emblematico, come ha 
rilevato Edoardo Bressan, "dell'andamento dei rapporti fra la Chiesa milanese e il 
governo, rappresentando l'ultima opportunità di un compromesso che salvasse 
almeno in parte la giurisdizione episcopale"
17
. L'arcivescovo redasse i 
Provvedimenti, nei quali affrontava anche il problema dell'assistenza agli esposti, 
suggerendone il trasferimento in locali più idonei. Fu individuato il monastero di 
Santa Caterina alla Ruota, concesso solo dopo una lunga e complessa trattativa. In 
quegli anni, nell'ambito della beneficenza pubblica, "il controllo governativo 
appariva compatibile con una certa autonomia degli istituti"
18
; si trattava invece di 
un equivoco, dal momento che stava aumentando l'ingerenza del governo austriaco, 
                                                 
12
 Carlo conte di Firmian, nato a Mezzocorona nel 1718, nel 1753 fu nominato ministro 
plenipotenziario a Napoli, dove condusse e concluse favorevolmente le trattative per il matrimonio 
tra Ferdinando, figlio del re Carlo di Borbone, e l'arciduchessa Maria Carolina. Divenne governatore 
della Lombardia nel 1759 e restò in carica fino alla morte. Incentivò la politica di riforme già avviata 
da qualche anno e concretizzò le linee programmatiche fissate a Vienna da Kaunitz. Mecenate e 
amante delle arti, fondò l'Accademia di Belle Arti nel palazzo Brera, nel quale aprì la prima 
biblioteca pubblica di Milano. Morì nel 1782.  
13
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 389, fasc. I, Lettera di Kaunitz a Firmian, 2 maggio 1771. 
14
 Bernardino Moscati, nato nel 1707 e morto nel 1798, iniziò a prestare la sua opera come chirurgo 
presso l'Ospedale Maggiore nel 1735 e vi fondò nel 1759 una scuola di ostetricia. Tra le innovazioni 
introdotte, promosse l'adozione del forcipe di Levret ed incentivò le vaccinazioni contro il vaiolo. Fu 
ostetrico anche nell'Ospizio di Santa Caterina.  
15
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 389, fasc. I, Lettera di Bernardino Moscati all'Imperatrice d'Austria, 
maggio 1772. 
16
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 339, Lettera di Kaunitz a Pozzobonelli, 24 luglio 1760. 
17
 E. Bressan, Carità e riforme sociali nella Lombardia moderna e contemporanea. Storia e 
problemi, Milano, NED, 1998, p. 22. 
18
 Ibidem, p. 25. 
 5
in particolare proprio nel settore dell'assistenza agli orfani, mentre si accentuavano 
le pressioni di Vienna, finalizzate a sollecitare l'unificazione degli enti elemosinieri.  
Nel settembre 1780 il governatore di Milano trasmise la disposizione 
dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria di trasformare in brefotrofio, a spese dello 
Stato, il monastero soppresso di Santa Caterina alla Ruota, situato di fronte alla 
porta posteriore dell'Ospedale Maggiore, verso il Naviglio; la popolazione, con 
l'avviso del 26 dicembre 1780, fu informata che dal 1° gennaio 1781"nella nuova 
Casa di Santa Caterina alla Ruota lungo il naviglio dirimpetto all'Ospedale 
Maggiore […] sarà aperto il solito torno per ricevere ad ogni ora i figli, che 
verranno esposti come si è praticato sinora nell'Ospedale Grande"
19
. Fu modificato 
anche il regolamento che aveva disciplinato l'organizzazione del brefotrofio dal 
1558.  
Pochi anni dopo, tuttavia, Giuseppe II, pur consapevole della funzione insostituibile 
dell'istituzione, attribuiva proprio al torno la responsabilità del numero eccessivo di 
abbandoni e il 10 settembre 1784 ne decretò la chiusura: "L'Imperatore, […] per 
ovviare alcuni abusi osservati nel metodo di ricevere le creature esposte 
clandestinamente di notte nel torno, ha determinato" che "dal giorno 1 ottobre del 
corrente anno in avanti sarà omninamente chiuso, e murato, il torno ora esistente 
alla porta della Casa di Santa Caterina"
20
. Dopo la morte di Giuseppe II, il 6 
dicembre 1790 Leopoldo II riattivò la ruota di Milano "affine di prevenire il 
pericolo derivante in tale sistema alla salute dei bambini dal depositarli di soppiatto 
e fuggiascamente"
21
. Equivocando la clausola che consentiva il ricovero anche di 
"figli di genitori conosciuti", furono da quel momento di fatto ammessi 
all'allattamento gratuito per sedici mesi nella Pia Casa anche i legittimi, mentre 
decadeva la norma che imponeva alle famiglie il ritiro di questi ultimi, trascorso il 
periodo del baliatico.  
In questo modo la Pia Casa, voluta da Maria Teresa per offrire una possibilità di 
salvezza agli illegittimi, divenne invece il luogo delegato dai genitori ad allevare e 
educare i figli ai quali essi non potevano, o non volevano, provvedere, strumento di 
                                                 
19
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 389, fasc. I, Avviso di Giovanni Bovara, 26 dicembre 1780, Milano. 
20
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 389, fasc. I, Avviso della Regia Giunta delle Pie fondazioni intorno al 
metodo per l'accettazione e mantenimento degli esposti nell'Ospedale di Santa Caterina alla Ruota e 
sulle condizioni delle loro balie. 
21
 ASMi, Luoghi Pii, p. a., b. 389, fasc. I, Decreto di Leopoldo II per l'attivazione della Ruota. 
 6
controllo dell'estensione del nucleo familiare; furono così vanificati gli sforzi 
finalizzati a disciplinare gli ingressi, limitando con clausole restrittive l'accesso dei 
legittimi, già preoccupante nel 1643
22
.  
Il decreto del 15 dicembre 1839 confermò la possibilità di ammettere legalmente i 
legittimi alla Pia Casa e, sebbene ne subordinasse l'accettazione a precise 
condizioni, avallava di fatto la consuetudine di esporli; il provvedimento sanciva 
infatti che "nel caso di accertata impotenza della madre ad allattare, e della famiglia 
a supplirvi mediante una nutrice mercenaria"
23
,  spettava allo Stato provvedere alla 
sussistenza dei neonati legittimi; stabiliva inoltre che le spese occorrenti dovessero 
essere a carico della pubblica beneficenza e che fossero erogati sussidi, tanto in città 
che in campagna, alle madri miserabili incapaci di allevare i loro figli coi fondi dei 
LL. PP. Elemosinieri; il decreto ammetteva esplicitamente che "dove già esiste la 
consuetudine […] si continuino ad accettare i bambini legittimi per l'allattamento 
gratuito, non duraturo però oltre il primo anno".  
Così i provvedimenti legislativi finirono per conseguire un effetto contrario rispetto 
a quello che si erano proposti: varati per regolamentare e limitare l'esposizione dei 
neonati, suffragarono involontariamente l'abbandono anche dei legittimi. Infatti, già 
dopo la riapertura del torno, nel 1791, il numero dei reietti iniziò a decollare: mentre 
nel decennio 1781-1790 la media dei nuovi ingressi era stata di 978 unità, nel 
decennio seguente divenne di 1.590, con un incremento medio annuale di 612 
esposti rispetto al periodo precedente
24
; nei decenni successivi il numero continuò 
ad aumentare: già nel periodo 1811-1820 la media annua dei nuovi ingressi era di 
2.123, con un aumento di 395 unità rispetto al decennio trascorso.  
Il decreto del 15 dicembre 1839 aggravò ulteriormente la situazione del brefotrofio 
di Santa Caterina, rendendola incontrollabile e creando i presupposti per la chiusura 
del torno.  
 
 
 
                                                 
22
 Cfr. A. Buffini, Ragionamenti storici, economico-statistici e morali intorno all'Ospizio dei 
Trovatelli in Milano, Milano, Agnelli, 1844, vol. I, p.143. 
23
 L. A. Casati, Atti della Commissione…, cit., p. 130-131. 
24
 Cfr. Ibidem, p. 10.