2 
 
Introduzione 
 
Tra le molteplici voci che costellano la letteratura italiana 
contemporanea della migrazione, si staglia quella di Igiaba Scego, 
scrittrice italiana di origine somala “sospesa tra il fascino per le proprie 
radici e l’amore per la terra in cui è cresciuta”
1
.  
 “E’ attraverso voci come la sua, che si colgono varietà linguistiche 
nuove ed è per questo suo doppio patrimonio culturale che la Scego è in 
grado di declinare la complessità del nostro presente arricchendo, con 
la sua scrittura polifonica, il panorama della letteratura italiana 
odierna,”
2
 sottolinea Domenica Perrone. 
Sin dai primi interventi giornalistici su L’Unità, La Repubblica e Il 
Manifesto oltre che su riviste dedicate alla cultura migrante, tra cui El 
Ghibli, Internazionale, Migra, Nigrizia, emergono quelli che saranno i temi 
fondanti della sua scrittura, che ritornano più volte nelle sue narrazioni, 
declinati in maniera diversa.  Il desiderio e la ricerca d’integrazione, il 
ricordo e il legame con la terra d’origine, la complessa questione 
dell’identità, multipla, impura, in costruzione, rifluiscono variamente 
modulati nell’invenzione narrativa.  
Muovendo dalla centralità tematica e poetica che la memoria, 
individuale, generazionale, storica, antropologica, riveste nella sua 
scrittura, si è scelto di ripercorrere attraverso l’indagine testuale, il 
percorso evolutivo di Igiaba Scego, dal racconto lungo di atmosfera 
                                                           
1
 Risvolto di copertina di La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, 2010. 
2
 D. Perrone, Oltre Babilonia, su www.lospecchiodicarta.unipa.it, aprile 2012.
3 
 
fiabesca, La nomade che amava Alfred Hitchcock, (2003) fino all’ ultimo 
romanzo La mia casa è dove sono (2010).   
Attraverso la prospettiva interpretativa scelta ovvero, lo studio delle 
modalità attraverso cui l’impiego della memoria, del ricordo evolve in 
chiave narrativa, si è mostrato come nella nomade che amava Alfred 
Hitchcock, si prediliga un tipo di memoria ‘generazionale’, ‘ancestrale’. 
In questa sua prima opera si riscontra, infatti, una riconoscibilità 
autobiografica immediata e la narrazione scorre, interamente filtrata dal 
punto di vista della madre dell’autrice, Kadija. Procedendo si è rilevato 
come già in Rhoda, suo secondo romanzo, la dimensione autobiografica 
sia tradotta da un tasso d’inventività più alto, che tocca il suo apice nel 
testo successivo Oltre Babilonia, maturo ed esemplare, per la complessa 
e raffinata orchestrazione dell’impianto compositivo, del travestimento 
inventivo ma anche della contaminazione espressiva. 
Ne La mia casa è dove sono, invece il racconto autobiografico torna ad 
assestarsi su un riconoscibile flusso di ricordi riletti alla luce della 
consapevolezza del presente. La realtà biografica, viene, dunque, 
reinterpretata attraverso la rilettura del ricordo e il vissuto rappresenta 
la condizione fondamentale dell’invenzione letteraria.  
Da questo scavo autoanalitico si genera una sorta di diarismo inventivo 
da cui emergono le esperienze più funzionali ad illuminare a posteriori 
il suo percorso formativo. La scrittrice, come si vedrà, condensa sulla 
pagina le cicatrici accumulate nel corso degli anni: le vessazioni subite 
da piccola, discriminata dai compagni di scuola per via del colore della 
pelle, definito da lei un “macigno”, i problemi legati alla bulimia, il 
rapporto spesso conflittuale con le figure genitoriali.
4 
 
Si è insistito nello sviluppo del lavoro sulla centralità inquieta e 
controversa della dimensione identitaria, sempre al centro della sua 
scrittura, con tutta la sua ambivalenza, in bilico tra la riflessione sulle 
origini somale, dalla cultura dell’oralità ai drammi storici, alle scottanti 
piaghe sociali come l’infibulazione. 
Attraverso scelte espressive non di rado dissacranti, Igiaba Scego 
esorcizza i cliché più comuni, e predilige temi più ostici tra cui il 
rapporto tra genitori e figli nei risvolti più complessi, il rapporto con il 
corpo, ma anche la tragedia del colonialismo, e dello sradicamento dalla 
terra d’origine, intrecciando il ‘privato’ con la storia.  
Si è voluto in tal senso rilevare come tali scelte esitino in narrazioni 
sempre calibrate su una memoria, ‘generazionale’, storica, ancestrale 
ma anche privata, plurima, spesso, ‘dolorosa’, intrisa di sofferenze 
legate a momenti bui della storia o della vita che i personaggi attraverso 
la parola e l’esercizio della scrittura tentano di superare, anestetizzando 
le proprie ferite, come se questo fosse l’unico modo che hanno per 
riscattarsi dalla perdita e dall’oblio.  
Si è rilevato altresì come tale complessità tematica si espliciti spesso in 
uno spiccato ‘espressionismo narrativo’, in una scrittura di forte 
corporeità quasi che il dolore, le ferite ‘si facciano carne’, nella parola, 
deformandola e dilatandola come la realtà cui danno voce.
5 
 
Capitolo  I 
“Cosa saremo noi umani senza i nostri ricordi, la nostra memoria?” 
 
1.1   Profilo  intellettuale  
Io ho provato qui a raccontare brandelli della mia storia. Dei miei 
percorsi. Brandelli perché la memoria è selettiva. Brandelli perché 
la memoria è come uno specchio frantumato. Non possiamo (né 
dobbiamo) rincollare i pezzi. Non dobbiamo fare la bella copia, 
ordinarli, pulirli da ogni imperfezione. La memoria è uno 
scarabocchio.
3
 
 
Queste sono le parole usate da Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine 
somala, nel suo ultimo libro La mia casa è dove sono edito da Rizzoli 
(2010), premiato con il “Mondello” del 2011.  
Si tratta di un passo esemplare di come la memoria si configuri nella 
scrittura di Igiaba Scego come il canale elettivo per esprimere una 
nozione d’identità molto spesso multipla, individuale, culturale, storica. 
In queste pagine Igiaba Alì Omar Scego rievoca “brandelli” della sua 
storia personale e familiare, raccontando insieme anche l’Italia. 
Racconta le sue memorie di vita trascorsa in Italia, suo Paese natale, 
dove è cresciuta e ha frequentato le scuole, la “saudade”, la nostalgia, 
per la sua terra d’origine la Somalia, per Mogadiscio, meta estiva e 
residenza stabile per un anno e mezzo, vissuta tra i ricordi di una 
bambina di undici anni e le esperienze dei suoi genitori fuggiti dalla 
loro terra perché in disaccordo col potere dittatoriale di Siad Barre. 
                                                           
3
  I. Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli,  Bergamo, 2010, p.159.
6 
 
Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974 da genitori somali; per puro caso, 
lei precisa : il padre Alì Omar Scego, ex ministro degli Esteri somalo, e 
la madre Kadija fuggiti dalla Somalia dopo il colpo di stato di Siad 
Barre che il 21 ottobre del 1969 pone fine alla parentesi democratica in 
Somalia avevano trovato rifugio in Italia. A Roma, il padre, uomo 
politico impegnato nel primo governo democratico del suo paese, 
soggiorna nella sua giovinezza, negli anni ‘50-’60, “per frequentare la 
cosiddetta scuola politica, quella che tutti i quadri dirigenti somali, 
compreso Siad Barre (che una ventina di anni dopo sarebbe diventato il 
grande dittatore della Somalia), avevano frequentato.”
4
 
Attualmente Igiaba vive a Roma dove si è laureata in Lingue e 
Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, con una tesi di laurea 
sulla presenza araba nella letteratura castigliana e ha acquisito un 
dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università di Roma Tre. Si occupa 
di scrittura, giornalismo e di ricerca incentrati sul dialogo tra le culture 
in rapporto alla migrazione. Oltre a collaborare per la casa Editrice Fazi 
è una firma assidua di numerosi quotidiani come: La Repubblica, Il 
Manifesto, L’Unità, e riviste che si occupano di migrazioni, di culture e 
letterature africane tra cui il settimanale culturale Alias, Latinoamerica, 
Carta, El Ghibli, Migra, Lo Straniero, Nigrizia, Internazionale (dove cura la 
rubrica “Nuovi Italiani”). Su Nigrizia in particolare ha curato dal 2007 al 
2009 la rubrica d’attualità “I colori di Eva”.   
Nel 2003 pubblica per la casa editrice romana Sinnos, nella collana “I 
mappamondi” dedicata ai libri interculturali per ragazzi, il suo primo 
racconto La nomade che amava Alfred Hitchcock, ispirato alla vicenda reale 
della madre, al periodo di nomadismo che aveva preceduto la residenza 
                                                           
4
  Ivi, p. 40.
7 
 
stabile a Mogadiscio; un testo il cui intento principale è far conoscere 
meglio la Somalia ai bambini italiani e ai bambini immigrati in Italia, 
toccando temi, anche tragici tra cui l’infibulazione, il colonialismo, la 
guerra civile. Il testo è bilingue, cioè è scritto in italiano e poi tradotto in 
somalo dall’autrice stessa, che si è avvalsa dell’ aiuto di una cugina, ed 
è corredato da numerose illustrazioni di Claudia Borgioli. La prima 
parte del libro si incentra sulla storia di una bimba nomade, Kadija e 
delle sue prime esperienze nella grande capitale, emblematiche delle 
differenze fra la vita nomade e la nuova vita sedentaria come la scuola 
italiana, il cinema, i rapporti col padre e con la madre. La seconda parte 
del libro invece sembra una piccola guida turistica della Somalia, con 
una breve introduzione alla storia del paese, alla posizione geografica, 
alla religione, alla tradizione orale, con il corredo di alcune favole 
somale e riferimenti alla tradizione culinaria. Le ultimissime pagine 
indicano i luoghi, i punti di contatto tra la comunità somala e quella 
italiana. 
Sempre nello stesso anno (2003) vince il premio letterario Eks&Tra per 
la categoria scrittori emigranti con il racconto Salsicce a cui segue un 
altro racconto, Dismatria, in seguito inseriti in un’antologia a più mani: 
Pecore Nere
5
, pubblicata per la prima volta nel 2005 . La scelta di questo 
titolo ripropone un modo di dire, proprio della lingua italiana, che sta 
                                                           
5
 E’ un’antologia di racconti di Gabriella Kuruvilla, Igiaba Scego, Ingy Mubiayi Kakese e 
Laila Wadia, che raccoglie otto storie incentrate sui temi dell’identità. La raccolta, si 
compone di otto racconti, due per ognuna delle autrici: (Dismatria, Salsicce, di Igiaba Scego; 
Curry di pollo, Karnevale, di Laila Wadia; India, Ruben, di Gabriella Kuruvilla; Documenti, prego 
e Concorso, di Ingy Mubiayi Kakese). I racconti si ispirano ad esperienze di vita delle autrici e 
sono espressione di un’italianità diversa e divisa. Il volume è stato accolto favorevolmente 
dalla critica e dal pubblico, giungendo nel 2010 alla sesta edizione.
8 
 
ad indicare “un trasgressivo”, “un diverso”, rispetto al resto della 
famiglia o della comunità e allude, al tempo stesso, al colore della pelle 
delle autrici. Queste otto storie di vita vissuta  hanno il merito di 
attirare l’attenzione sui temi del confronto e delle identità: migranti, 
ibride, travagliate. Soprattutto esternano il punto di vista privilegiato di 
chi stando al contempo in due o più mondi possiede un doppio o 
triplice sguardo.  
Il racconto della Scego Salsicce si inscrive nel solco di altre storie ebree o 
musulmane incentrate sul divieto per gli islamici di mangiare carne di 
maiale. In sostanza l’autrice mostra in questo racconto come si possa 
negare la propria identità attraverso il corpo inghiottendo del cibo 
proibito; è una specie di violenza che la protagonista si autoimpone e a 
cui il corpo reagisce con il vomito, per espellere un corpo estraneo.  La 
storia di questa ragazza musulmana sunnita che dice di compiere un 
peccato cioè di mangiare carne di maiale per omologarsi alla cultura del 
paese ospitante è una sorta di metafora: le salsicce rappresentano il 
peccato, l’allontanamento dalla cultura d’appartenenza; l’intero 
racconto s’incentra su questo “sentirsi” o “non sentirsi” parte di un 
luogo. D’altra parte  come l’autrice ha dichiarato più volte in varie 
interviste, il tema dell’identità, fondante nella sua scrittura, è centrale 
anche nella sua vita: nata in Italia, a Roma da genitori somali, sin da 
subito ha sperimentato la realtà della scissione: in quanto a casa viveva 
la cultura somala e la religione islamica, parlava il somalo, mangiava 
cibo somalo. Fuori entrava in contatto con la realtà italiana, con la 
scuola, la televisione, gli amici. Tuttora nel suo viaggio intellettuale e 
personale, Igiaba Scego cerca di dare le risposte al suo essere 
contemporaneamente somala e italiana, all’avere due lingue madri,
9 
 
“che mi amano in egual misura”
6
, faticosamente conquistate ma 
sicuramente fonte di impagabile arricchimento: “Grazie alla parola ora 
sono quella che sono”.
7
  
Nel 2004, ancora presso la casa editrice Sinnos esce il suo secondo 
romanzo Rhoda accolto favorevolmente sia dal pubblico che dalla 
critica. E’ un testo polifonico, a quattro voci, dove il rapporto complesso 
con l’Italia, paese colonizzatore un tempo e luogo di speranze e di sogni 
disillusi oggi, rivive nella storia e nei racconti di quattro donne somale. 
La trama del romanzo sembra riproporre sotto molti aspetti un clichè: 
una giovane di origine africana si prostituisce, si ammala di Aids sino 
all’epilogo fatale. In realtà  Rhoda, l’eponima protagonista del romanzo, 
non rafforza affatto lo stereotipo della prostituta africana in Italia; come 
afferma la Scego, “la [sua] prostituta è una studentessa che non lo fa per 
bisogno, ma perché vuole auto annullarsi” (Scego, El Ghibli, 2004) per 
mascherare il suo desiderio sessuale per una donna e diventando 
prostituta,(sharmuti) si auto esilia anche dalla famiglia e dalla 
comunità. Rhoda è la storia di un corpo che affascina, ama, che si umilia 
con la pratica della prostituzione e con la malattia, ma che infine trova 
pace e purificazione nella sua terra d’origine, la Somalia, dove 
volutamente si reca per trascorrere gli ultimi mesi di vita ed essere 
sepolta. E che decida di morire nella sua terra d’origine, rifiutando ogni 
possibile cura in Italia, e di ricongiungersi alla Somalia in un atto 
estremo d’amore, sentimento spesso comune ai somali della diaspora, è 
una decisione estrema, proprio mentre il paese è dilaniato dall’odio 
della guerra civile.  
                                                           
6
 I. Scego, La mia casa è dove sono, cit., p.156 
7
 Ibidem.