5 
 
INTRODUZIONE 
 
 
«Viaggiatore, non esiste un sentiero, 
la strada la fai tu andando» 
(ANTONIO MACHADO, Caminante) 
 
C’è una scena in Easy Rider (1969), il film di Denis Hopper divenuto manifesto della 
voglia di libertà espressa da un’intera generazione, che resta a suo modo indelebile e 
può essere pertanto assunta quale simbolo di una ben determinata idea del viaggio: si 
tratta del momento in cui Wyatt (il protagonista della vicenda interpretato da Peter 
Fonda), poco prima di partire, lascia cadere il suo orologio sulla sabbia. Spogliandosi 
del tempo che scorre inesorabile, identificato dunque come la prima delle costrizioni da 
cui dover liberare la propria esistenza, egli entra all’interno di una dimensione vissuta 
secondo nuove regole: quella del viaggiatore, del nomade, del ribelle, di colui che 
veramente decide di compiere quel gesto «folle e sconsiderato» rappresentato dalla 
partenza. 
Certo, fin dall’inizio di questo viaggio esiste una meta da raggiungere, ma 
l’impressione è che essa non abbia in realtà alcuna importanza, che sia solo un pretesto 
per poter intraprendere quella «particolarissima poetica che è il canto della strada», 
un’avventura che non smette di affascinare «anche ora che si preferisce viaggiare 
anestetizzati dal ronzio dell’aereo, anche ora che lo spostamento sembra solo un 
intralcio tra una meta e un’altra»
1
. Il fascino di questa pellicola sta, in fondo, proprio 
qui: nel tempo rappresentato «non più come una retta, ma come gli infiniti punti che 
costituiscono una retta»; nel fatto che ciò che importa davvero è solamente 
«quell’aprirsi dell’andatura del mezzo di trasporto alle occasioni che si presentano»; nel 
proposito di non retrocedere di fronte alle infinite possibilità del reale e alla 
straordinarietà degli incontri, emblemi del desiderio di far parte della strada, quasi di 
«confondersi con essa», invece di farsi trascinare dalla voglia prorompente e 
tipicamente post-moderna di cancellare il percorso sotto i colpi della velocità. 
                                                 
1
 G. DE PASCALE, Slow travel. Alla ricerca del lusso di perdere tempo, Milano, Ponte Alle Grazie 
2008, pp. 26-27.
6 
 
 
Figura 1: Dimenticare il tempo 
 
«Non c’è un giorno che non porti una sorpresa, che non sia, controluce, una rete di 
minime sorprese»
2
, scrive Jorge Luis Borges nel racconto L’attesa. Eppure, nella 
quotidianità della routine che ha ormai inquadrato le esistenze della maggior parte degli 
uomini, «le cose che si conoscono (o che si crede di conoscere) bene non si vedono 
più», cancellate dalla prospettiva limitata di uno sguardo imposto da una condizione 
generale di fretta che ci impedisce, per l’appunto, di vedere in “controluce”. Quando si è 
fuori di casa e tutto dovrebbe dischiudersi con la forza dirompente dell’inaspettato, 
infatti, il timore di rimanere spiazzati dall’imprevisto porta a catalogare e classificare 
ogni minimo evento o incontro in una catena di tipi e stereotipi che è poi la dimensione 
della noia e della monotonia del vivere oggi nel mare magnum della modernità, salvo 
poi lamentarsi del fatto che, «costretti a galleggiare, il fondo non si vede e la superficie 
sembra avere da tutte le parti la stessa tonalità di blu»
3
. 
A tal proposito Charles Baudelaire, nella poesia Le Voyage
4
, identifica nel «ragazzo 
amante delle mappe e delle stampe» il viaggiatore ideale, colui che non ha ancora messo 
in atto le difese proprie dell’età adulta e può quindi veleggiare, incurante di qualsiasi 
ostacolo o frontiera, verso un mondo che si espande nella magia dell’«adesso» e che 
non conosce le barriere e le limitazioni del «poi». 
                                                 
2
 J.L. BORGES, El aleph, Buenos Aires, Editorial Losada 1952 (qui dalla tr. it. di F. Tentori Montalto, 
L’aleph, Milano, Feltrinelli 1961, p. 138). 
3
 G. DE PASCALE, Slow travel, cit., p. 55. 
4
 C. BAUDELAIRE, Le Voyage, in Les Fleurs du Mal, 2
e
 édition, Paris, 1861 (tr. it. di G. Raboni, Il 
viaggio, in I fiori del male e altre poesie, Torino, Einaudi 1987).
7 
 
Lo spostamento, oggigiorno, è invece sempre più considerato come un’«esperienza 
cerebrale», qualcosa da organizzare fin nei minimi dettagli, razionalizzando ogni aspetto 
e riducendo tutto ciò che non è facilmente ‘etichettabile’ «a una figurina bidimensionale 
da guardare mentre schizza via veloce dai finestrini di un treno o dall’oblò di una 
nave»
5
. Gli stessi mezzi di trasporto sono da annoverare fra le cause principali di questa 
limitata prospettiva dello sguardo, poiché essi invogliano «a perpetuare la messinscena 
propria dell’epoca dello “spostamento immobile”», un rito all’interno del quale il 
passeggero non viene minimamente coinvolto nell’avvicinamento a un altrove, bensì 
rimane separato, confinato dietro un parabrezza che assume sempre più le funzioni di 
uno schermo, venendo in tal modo ridotto a essere un semplice “spettatore” dei luoghi 
che attraversa. 
Si afferma quindi sovente che quella in cui viviamo sia l’epoca della “fine dei 
viaggi”, poiché basta ormai una connessione a Internet per poter raggiungere gli 
antipodi nel breve istante di un ‘clic’. Eppure esiste qualcosa che al viaggio continua 
irresistibilmente a farci tendere, anche in quest’era di «continui déjà vu in cui ci sembra 
non ci sia più niente da sapere (o da voler sapere)», ovvero il fatto che esso rimane la 
sola possibilità di non «soffocare dentro a un bagaglio di certezze preconfezionate 
quell’anelito libertario che è al cuore di ogni partenza», superando in tal modo ciò che 
altro non è se non «appianare la strada per renderla più scorrevole, liscia, inutilmente 
lanciata verso la fine del viaggio» stesso. 
Afferrare una realtà che ci appare ormai sempre più sfuggente, farsi strumento della 
memoria e dei ritmi pacati del suo sedimentarsi, riscoprire il vero valore del viaggio e 
con esso la natura più intima dei luoghi in cui viviamo: è questo il passaggio che porta 
invece «dal vedere al guardare, dal guardare all’osservare, e infine al contemplare fino a 
farne parte», riducendo tutte le possibili linee di separazione tra il sé e il mondo. Ha 
ragione allora Franck Michel quando definisce l’altrove come il «settimo senso»
6
, 
identificandolo con una capacità ricettiva dell’individuo, un’attitudine e una 
predisposizione dello spirito verso la realtà delle cose, piuttosto che con un affastellarsi 
disordinato di mete da raggiungere e visite da compiere. 
                                                 
5
 G. DE PASCALE, Slow travel, cit., p. 77. 
6
 F. MICHEL, Désirs d’Ailleurs. Essai d’anthropologie des voyages, 3
e
 édition augmentée, Québec, 
Presses de l’Université Laval 2004 (1
ère
 édition, Armand Colin 2000; 2
e
 édition, Ed. Histoire & 
Anthropologie 2002; ed. it., Altrove, il settimo senso. Antropologia del viaggio, tr. it. di F. Checchia e G. 
Lagomarsino, Milano, MC 2001).
8 
 
Perché dunque, a tutt’oggi, scegliere ancora di sperimentare il confronto, spesso 
traumatico, tra il noto e l’ignoto, mettendo in discussione il proprio io di fronte a un 
altrove? Una delle risposte suggerite da Eric J. Leed
7
 riguarda, per l’appunto, la 
«trasformazione del senso del tempo provocata dal movimento nello spazio» o, meglio 
ancora, la possibilità di «negare il tempo attraversando lo spazio», cessando così 
simbolicamente di invecchiare attraverso l’abbandono alla dimensione del viaggio. 
Questa condizione particolare di benessere data dal transito, tuttavia, è propria 
solamente di chi viaggia “per viaggiare”, senza scopo, anzi per sfuggire a qualsiasi 
scopo; colui che solo, secondo Baudelaire, può essere considerato viaggiatore
8
. 
Allo stesso modo però, come nota Felice Perussia, anche il resoconto di viaggio può 
essere considerato uno strumento in grado di opporsi alla tirannia del tempo, poiché in 
esso, «attraverso una metonimia percettiva certificata dalla tangibilità del supporto di 
carta su cui è stata depositata, l’esperienza viene fantasticamente isolata dalla decadenza 
del tempo»
9
. Il viaggiatore in fondo, scrive Gaia De Pascale, è forse solo il «custode di 
una scrittura crittografata: tutto un decifrare parole offuscate o rese troppo nitide da 
quegli schermi che ci dividono dalla realtà»
10
, un filtro che più ci ripara dal mondo, più 
irrimediabilmente ce ne allontana. È necessario quindi, prosegue la studiosa, prendersi 
ciascuno il proprio tempo, ritrovare il gusto di assaporare il reale con avidità e pazienza, 
poiché al di là dei nostri limiti si aprono le porte dell’incontro con l’altro e con l’altrove, 
e si spalancano gli usci che portano alla riscoperta dell’identità. 
‘Entrare’ è dunque, in conclusione, il vero movimento del viandante, farsi spazio in 
quegli interstizi in cui si possono ancora ricercare le possibilità di un esotico 
imprevedibile e perciò non preventivato, perché questo è il vero incontro e continuare a 
promuoverlo è allo stesso tempo «un lusso, un diritto e un dovere», nell’attesa che 
«qualcuno arrivi e si presenti: il volto dell’altro oppure quello finalmente messo a nudo 
del sé», ricordando sempre che non esiste un momento perfetto per il viaggio, poiché 
«c’è solo un momento, il nostro»: 
                                                 
7
 E.J. LEED, The Mind of the Traveller. From Gilgamesh to Global Tourism, New York, Basic 1991 
(qui dalla tr. it. di E.J. Mannucci, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il 
Mulino 1992, pp. 27, 102). 
8
 «Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent / pour partir» (C. BAUDELAIRE, Le Voyage, cit.). 
9
 F. PERUSSIA, Note sulla psicologia della testimonianza di viaggio, in E. BIANCHI (a cura di), 
Geografie private. Il documento di viaggio come strumento per la conoscenza del territorio, 
Torino/Milano/Ginevra, Cirvi Unicopli Slatkine 1985, p. 139. 
10
 G. DE PASCALE, Slow travel, cit., p. 56.
9 
 
Chi si sente a suo agio in casa, non va peregrinando lontano. I molti viaggi di 
scoperta nel mondo dimostrano l’insoddisfazione universale
11
. 
 
L’obiettivo di questa tesi, articolata in cinque capitoli, è quello di mostrare come la 
dimensione del viaggio sia stata, e possa tutt’oggi continuare a essere, una forma 
imprescindibile di esperienza, uno strumento irrinunciabile per la conoscenza del 
mondo, dell’altro e del sé, anche all’interno di una realtà in cui, per diversi motivi, lo 
spostamento nello spazio si è ormai ridotto a essere un mero transito tra un punto di 
partenza iniziale e una destinazione da raggiungere nel più breve tempo possibile. 
A tal proposito, la prospettiva adottata è quella di un’analisi critica incentrata sul 
cosiddetto travel writing contemporaneo, un genere letterario che si pone «da qualche 
parte tra il documento e la narrativa», attraverso il quale un certo numero di scrittori 
della seconda metà del Novecento ha provato a ridare voce ai luoghi, spostando il 
tradizionale approccio documentario (tipico dei resoconti di viaggio del passato) sul 
piano di una re-invenzione narrativa sviluppata attraverso differenti strategie. In 
particolar modo, sono state prese in considerazione le vicende bio/bibliografiche di tre 
diversi autori appartenenti a realtà spaziali, temporali e linguistiche differenti, in grado 
pertanto di fornire un esempio soddisfacente riguardo ai diversi approcci possibili alla 
dimensione del viaggio e del suo racconto, nonché di aprire uno spiraglio sulle 
potenzialità future di questa tipologia di esperienza e di scrittura. 
Il primo capitolo – La “società della fretta” – descrive l’evoluzione della civiltà 
umana attraverso i passaggi che l’hanno condotta da una condizione di «tirannia», 
derivata dal concetto di ‘eternità’, a un’altra, imposta dall’importanza tipicamente tardo-
moderna attribuita al ‘momento’. Successivamente, ci si concentra sul modo in cui una 
minoranza sempre più significativa di persone si oppone alla deriva di cui è protagonista 
la società odierna, riaffermando un generale bisogno di lentezza in grado, col tempo, di 
far aderire nuovamente l’uomo al mondo in cui egli si trova a vivere. 
Il secondo capitolo – “Slow travels”: viaggi all’insegna della lentezza – prende in 
esame il modo in cui i travel writers contemporanei, in un’epoca nella quale «tutti 
viaggiano ma non si viaggia più», hanno utilizzato la strategia della lentezza al fine di 
sovvertire le convenzioni tradizionali della letteratura di viaggio, proponendo una nuova 
                                                 
11
 «Wer sich behaglich fühlt zu Haus, / Der rennt nicht in die Welt hinaus; / Weltunzufriedenheit 
beweisen / Die vielen Weltentdeckungsreisen» (F. RÜCKERT, Unbefriedigung).
10 
 
‘ecologia dello sguardo’ in grado di rendere nuovamente credibile la rappresentazione 
letteraria dei luoghi, rompendo l’automatismo dei nonluoghi e trovando così il modo di 
ripresentare lo spazio come altrove, ridando voce agli spazi ormai dimenticati della 
modernità. 
Il terzo capitolo – Nicolas Bouvier: ecrivain voy(ag)eur – è dedicato alle vicende 
dell’autore ginevrino che fu tra i primi, assieme a Bruce Chatwin, a rivoluzionare la 
scrittura di viaggio, evidenziando col proprio esempio l’esistenza di nuovi possibili 
percorsi narrativi in grado di riscattare la dimensione dello spostamento nello spazio e 
del suo racconto. Attraverso l’analisi delle sue opere, ci si concentra sul percorso che 
Bouvier ha compiuto muovendosi dalla natia Svizzera al Giappone, durante il quale egli 
ha saputo proporre la propria idea del viaggio come avventura esistenziale, nel doppio 
significato del fare esperienza (uso) e del consumarsi (usura), ponendosi quale maestro 
assoluto nella difficile arte del dépouillement. 
Il quarto capitolo – William Least Heat-Moon: nell’America delle strade blu – 
affronta le questioni legate alla produzione letteraria di uno degli ultimi wandering 
scholars, un autore che ha attraversato in lungo e in largo gli Stati Uniti svestendo gli 
abiti mentali imposti dalla vita di tutti i giorni, per inseguire nel movimento il miraggio 
di un ritmo diverso. L’andatura del suo girovagare coincide infatti con il festina lente di 
chi si sforza di ritrovare, passo dopo passo, la perduta appartenenza tra il sé e il mondo, 
condizione indispensabile per una scrittura di viaggio che si pone il compito 
testimoniale di collezionare le varianti meno note del palinsesto del mondo, sovvertendo 
in tal modo i processi che oggigiorno riducono lo spazio in uno stato di inerte 
anonimato. 
Il quinto e ultimo capitolo – Paolo Rumiz: professione ‘trasmigratore’ – si occupa 
dell’opera dello scrittore e giornalista triestino divenuto uno dei maggiori rappresentanti 
della letteratura italiana di viaggio degli ultimi anni. Attraverso i suoi scritti, egli si fa 
promotore di un nuovo ‘modello del possibile’, basato sulla condivisione e sul 
confronto, sulla crescita e sul dialogo, sulla consapevolezza e sulla partecipazione 
civile, teso a cogliere la dimensione complessiva e complessa della trasformazione della 
nostra società, con l’effetto di scardinare la visione più superficiale e immediata delle 
cose, scavando nelle storie di uomini e luoghi ai più sconosciuti e ritrovandovi un 
mondo che i lettori possano riscoprire come inestimabile tesoro da preservare.
11 
 
Nella nostra epoca tecnocratica e “iper-frettolosa”, nella quale molti sono coloro che 
riempiono i propri bagagli solamente di inganni e illusioni, vanificando in tal modo 
qualsiasi senso del partire e chiamando ‘viaggio’ una sorta di «immobilità itinerante» 
che non conduce di fatto in nessun luogo, muoversi lentamente significa dunque 
compiere un atto e una scelta «come minimo impertinente». Si corre infatti il rischio di 
essere «presi per ‘matti’» a camminare mentre tutti corrono chiassosamente all’interno 
di una società in cui ogni cosa è vendibile, persino la meraviglia di essere altrove. 
Nella fretta di andare sempre avanti, tuttavia, il rischio è quello di non conoscere più 
nulla di ciò che abbiamo attraversato; procedendo con lentezza, invece, può ancora 
accadere di «perdersi, scrivere la propria storia e costruirsi una personale linea narrativa, 
sfiorando i margini delle cose e accarezzandone l’essenza prima»
12
, poiché se il mondo 
è ormai chiuso dal punto di vista spaziale e ritenuto dai più “a portata di mouse”, 
immense sono ancora le pieghe che possono increspare la realtà più pura e più vera di 
tutto ciò che ci circonda, aspetti che è possibile assorbire solo attraverso uno sguardo 
che si muova al ritmo dolce della lentezza. 
Rallentare pur vivendo nella “società della fretta”: è questo, pertanto, l’obiettivo 
divenuto per molti il più degno di un’esistenza ben spesa nella nostra realtà quotidiana. 
Una prospettiva che molti viaggiatori e travel writers hanno fatto propria negli ultimi 
anni, optando per una scelta di lentezza che restituisse al viaggio e al suo racconto quel 
valore testimoniale in grado di porli, a buon diritto, quali strumenti privilegiati di 
conoscenza e interpretazione della realtà, poiché come scrive Franck Michel: 
 
Un voyage réussi et profitable exige un éloge à la patience et à la lenteur. Il est 
fait de lenteur, de souffrance, de ritualité, de transcendance, de rupture avec le 
quotidien, de quête intérieur de soi et de recherche de l’autre. Voir le monde, c’est 
prendre le temps de le contempler, découvrir ses richesses culturelles et naturelles, 
accepter de se laisser porter par lui. Ouvrir ses yeux et son cœur - encore faut-il en 
être capable! - permet au voyage d’être autre chose qu’un déplacement dans 
l’espace. Le voyage est un art de vivre mais aussi un besoin pour survivre. 
Voyager, c’est réapprendre l’art de la flânerie, s’immiscer dans l’espace-temps de 
l’autre. On voyage pour mieux se souvenir d’où l’on vient
13
. 
                                                 
12
 G. DE PASCALE, Slow travel, cit., p. 109. 
13
 F. MICHEL, Désirs d’Ailleurs. Essai d’anthropologie des voyages, cit., p. 23.
13 
 
CAPITOLO PRIMO 
LA “SOCIETÀ DELLA FRETTA” 
 
 
«Rien ne sert de courir; il faut partir à point» 
(JEAN DE LA FONTAINE, Le Lièvre et la Tortue) 
 
Viviamo l’epoca dell’accelerazione, convinti di essere sempre fuori tempo, in ritardo, 
in affanno. Il mito della velocità sembra ormai aver invaso l’intero spazio del 
quotidiano, lasciandoci consci solamente della nostra inadeguatezza e succubi della 
sgradevole sensazione di rimanere indietro, di non riuscire a tenere il passo mentre 
inseguiamo ritmi impossibili e vediamo il senso più vero delle cose sfuggirci di mano. 
Valori come la cura dei dettagli, l’attenzione ai particolari, il rispetto delle sfumature e il 
riconoscimento dei limiti richiedono infatti un certo impiego del tempo, straordinario 
tesoro che ciascuno di noi possiede e che sembra, tuttavia, venir dissipato nella ricerca 
di traguardi illusori che spesso si traducono in deludenti capolinea. Tutto questo in una 
vita che Zygmunt Bauman ha definito «di rapido apprendimento e fulmineo oblio»
1
, 
riannodando con ciò le fila tessute qualche tempo prima dallo scrittore Milán Kundera 
che, nel suo romanzo La lentezza, postulava l’esistenza di «un legame segreto fra 
lentezza e memoria, fra velocità e oblio»
2
. 
Nel 1982 il medico americano Larry Dossey coniò per primo l’espressione “malattia 
del tempo” per descrivere l’ossessiva convinzione che «il tempo fugga, che non ce ne 
sia abbastanza e che sia necessario pedalare sempre più lesti per non restare attardati»
3
. 
Al giorno d’oggi l’intera esistenza sembra ormai essere affetta da questo morbo, avvolta 
com’è all’interno di un sistema nel quale, come affermato di recente dall’economista 
Klaus Schwab, «siamo passati da un mondo in cui i grandi mangiano i piccoli a un altro 
in cui i veloci mangiano i lenti»
4
. 
                                                 
1
 Z. BAUMAN, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, tr. it. di D. Francesconi, 
Bologna, Il Mulino 2009, p. 8. 
2
 M. KUNDERA, La lenteur, Paris, Gallimard 1995 (qui dalla tr. it. di E. Marchi, La lentezza, Milano, 
Adelphi 1999). 
3
 L. DOSSEY, Space, Time and Medecine, Boston, Shambhala Publications 1982 (qui dalla tr. it. di F. 
Picchi, Spazio, tempo e medicina, Roma, Edizioni mediterranee 1983). 
4
 «We have moved from a world where the big eat the small to a world where the fast eat the slow» 
(K. SCHWAB, Davos World Economic Forum, 2000). Si segnala anche il libro di J. JENNINGS - L. 
HAUGHTON, It’s Not the Big that Eat the Small...It’s the Fast that Eat the Slow, Harper Business 2002.
14 
 
In una realtà fast nella quale troppo raro è il contrappunto slow, la velocità risulta 
essere la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo, in uno 
strano connubio che abbraccia la fredda impersonalità della tecnica con il fuoco 
bruciante dell’ebbrezza estatica. È difficile infatti non ammettere come in quest’epoca 
indaffarata e vertiginosa ogni azione, momento e pensiero non siano dettati, o 
quantomeno influenzati, da una costante e spasmodica corsa dell’uomo contro 
l’orologio, da una «psicologia interiore della velocità, del risparmio di tempo e della 
massimizzazione dell’efficienza»
5
 che pare rafforzarsi ogni giorno di più. Gli ultimi 
decenni, in particolar modo, hanno visto realizzarsi una crescita formidabile di svariate 
tecnologie in grado di farci risparmiare tempo (posta elettronica, telefoni cellulari, 
programmi di scrittura/ricerca/calcolo rapido, mass media, social network, ecc.); eppure, 
per molti di noi, la sensazione imperante è che i tempi si siano incredibilmente ristretti, 
compressi proprio da quegli strumenti che promettevano di espanderli a dismisura e a 
nostro uso e consumo, con tutte le perdite che questo processo ha progressivamente 
comportato. 
Il capitalismo moderno, ad esempio, ha saputo generare un benessere straordinario, 
ma al costo altissimo di divorare le risorse naturali del pianeta più rapidamente di 
quanto esso riesca a riprodurle; vi è poi il sacrificio umano al turbo-capitalismo, dato 
che al giorno d’oggi siamo noi a essere al servizio dell’economia e non più viceversa; 
oppure ancora, una quantità di informazioni impensabile per le generazioni che ci hanno 
preceduto
6
 non ha prodotto automaticamente una popolazione più informata, ma anche 
un insieme di persone estremamente più confuse, incapaci di tracciare una rotta ben 
determinata in un ‘mare magnum’ informativo nel quale sempre più spesso ci si affida a 
una superficiale navigazione a vista. Come ha scritto James Graham Ballard, infatti: 
 
Il paesaggio delle comunicazioni è attraversato dagli spettri di sinistre 
tecnologie e dai sogni che il denaro può comprare. Sistemi d’armi termonucleari e 
pubblicità televisive di bibite coesistono in un mondo sovrailluminato che 
                                                 
5
 Passaggio tratto da un’intervista di Carl Honoré a Guy Claxton dal titolo La psicologia interiore 
della velocità (luglio 2002), riportato in C. HONORÉ, In Praise of Slow. How a Worldwide Movement is 
Challenging the Cult of Speed, London, Orion 2004 (qui dalla tr. it. di R. Zuppet, ...E vinse la tartaruga. 
Elogio della lentezza: rallentare per vivere meglio, Milano, Bur 2008, p. 12). 
6
 «Durante gli ultimi trent’anni si sono prodotte nel mondo più informazioni che nei precedenti 
cinquemila, mentre una sola copia del “New York Times” contiene più informazioni di quante ne potesse 
acquisire una persona colta nel XVIII secolo nel corso di tutta la sua vita» (I. RAMONET, La tirannia della 
comunicazione, Trieste, Asterios 1999, p. 131).
15 
 
ubbidisce alla pubblicità e agli pseudo eventi, alla scienza e alla pornografia. Alle 
nostre vite presiedono i due grandi leitmotiv gemelli del Ventesimo secolo: sesso e 
paranoia
7
. 
  
L’accelerazione caratteristica della società contemporanea incide dunque in modo 
sempre più netto in quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza e, tuttavia, appare 
impossibile applaudire all’attuale deriva in corso verso una realtà nella quale tutto si 
presenta alla massima velocità, poiché la fretta non risulta affatto essere sempre e 
comunque la politica, la scelta, l’opzione migliore. Si può dire infatti che l’era moderna 
sia iniziata propriamente con la proclamazione del diritto universale dell’uomo alla 
ricerca della felicità
8
 e con la promessa di rendere tale ricerca meno scomoda, ardua e al 
tempo stesso più efficace. Possiamo allora, a tal proposito, chiederci se non sia stata 
sbagliata la scelta dei mezzi e, tra questi, soprattutto la decisione prettamente tipica 
della nostra epoca di puntare tutte le proprie energie e potenzialità solamente sul 
secondo dei tre vertici del triangolo composto da ecologia, economia ed ecumene (intesi 
rispettivamente come “cura dell’ambiente”, “cura della casa” e “cura del pianeta”)
9
. 
Per quanto ci affanniamo, per quanto siamo abili nel programmare i nostri impegni, 
le ore della giornata sembrano infatti non bastare mai. Come descrive lucidamente 
Laura Potter, «viviamo in un’epoca in cui ‘attendere’ è diventata una parola oscena. 
Abbiamo gradualmente sradicato, per quanto possibile, la necessità dell’attesa; la parola 
che preferiamo è ormai l’aggettivo ‘istantaneo’»
10
. La possibilità di attendere sembra 
ormai diventata un lusso, una parentesi della nostra vita fittamente programmata, nella 
“cultura dell’adesso” fatta di computer e telefoni cellulari che ci mantengono sempre e 
comunque (e ovunque) costantemente raggiungibili e connessi. 
 
                                                 
7
 «Across the communications landscape move the spectres of sinister technologies and the dreams 
that money can buy. Thermo-nuclear weapons systems and soft-drink commercials coexist in an overlit 
realm ruled by advertising and pseudo-events, science and pornography. Over our lives preside the great 
twin leitmotifs of the 20th century: sex and paranoia» (J. G. BALLARD, Crash, London, Jonathan Cape 
Ltd. 1973; qui dalla tr. it. di G. Pilone Colombo, Crash, Milano, Feltrinelli 2004, p. 199). 
8
 «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; 
che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti e che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e 
la ricerca della Felicità» (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776). 
9
 La teorizzazione del triangolo ecologia-economia-ecumene è descritta nel libro di G. PAPAGNO, 
Altrove. Viaggi nel diverso, viaggi nella storia, Reggio Emilia, Diabasis 2003. 
10
 «We live in an era where ‘waiting’ has become a dirty word. We’ve gradually eradicated, as much 
as possible, the need to wait for anything, and our new, up-to-the-second adjective is ‘instant’» (L. 
POTTER, English patience, «The Observer», 21/10/2007).