5 
 
1.  La crisi dei sistemi pensionistici pubblici 
 
1.1  Lo sviluppo storico e demografico 
 
1.1.1.   Lo sviluppo storico dei sistemi pensionistici 
 
I primi tentativi di attenuare i rischi della vita si trovano già nel periodo imperiale 
romano in forma di casse generali per il caso morte, e più tardi, nel medioevo, nelle 
casse di morte e funerarie delle corporazioni e delle corrispondenti “Zünfte” in 
Germania e in diverse forme di legislazione a favore dei poveri. 
Una previa forma elementare di assicurazione sulla vita – e nello stesso tempo un mezzo 
di credito pubblico – sono i cosiddetti tontini, un sistema escogitato dal medico L. Tonti 
(1630-1695) di Napoli. Chi firmava i cosiddetti tontini dava diritto ai propri superstiti al 
patrimonio raccolto e/o alle relative rendite. Un importante presupposto per lo sviluppo 
delle assicurazioni sulla vita hanno costituito le tavole di morte (tabelle statistiche dei 
decessi, E. Halley, 1963) e i calcoli di probabilità. Le prime assicurazioni della vita 
provengono dall’Inghilterra e prendono piede in Austria, in Germania e nella Svizzera, 
soprattutto dopo il 1850. 
Da ormai oltre un secolo sono i sistemi previdenziali pubblici che garantiscono una 
vecchiaia serena alla popolazione anziana. Negli anni 1864 e 1865 l’allora Regno 
d’Italia recepisce la legislazione piemontese sulle pensioni ai dipendenti civili e militari 
dello Stato. Il 19 luglio 1889 viene costituita la “Cassa Nazionale di Previdenza”, per 
tutelare i lavoratori in caso di invalidità e di riduzione della capacità produttiva, che 
però non è obbligatoria. 
La prima organica legislazione di assicurazione sociale viene creata nella Germania 
imperiale dal Cancelliere Otto von Bismarck tra il 1883 e il 1889. Oltre alle 
assicurazioni per malattia, per infortunio ed invalidità, prevede anche una assicurazione 
per la vecchiaia, cioè per il caso di sopravvivenza oltre l’età lavorativa. L’assicurazione 
per la vecchiaia e di invalidità è stata introdotta in Germania quale terzo e ultimo 
“ramo” nell’ambito della normativa per la previdenza sociale. La legge del 22 giugno
6 
 
1889 (entrata in vigore il 1° gennaio 1891) prevedeva dapprima solo una pensione per 
gli operai; venne però in un secondo momento modificata ed allargata agli impiegati 
fino ad una determinata fascia di reddito, sulla base della legge del 19 luglio 1899. 
L’obiettivo era quello di evitare situazioni di povertà nella vecchiaia. Originariamente 
l’assicurazione sociale viene pianificata unicamente quale forma di previdenza statale, 
finanziata con i proventi del gettito tributario, ma venne in realtà realizzata e finanziata 
con i contributi di lavoratori e datori di lavoro, accanto al contributo dello Stato.  
Torniamo in Italia. Il 4 aprile 1912 il Parlamento italiano approva una legge che 
istituisce l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e il monopolio dello Stato nel 
settore assicurazioni vita. Fallisce invece il tentativo di introdurre l’assicurazione 
obbligatoria per la vecchiaia. Dopo la guerra finalmente, il 21 aprile 1919, un regio 
decreto riorganizza il sistema assicurativo italiano ed introduce l’obbligatorietà 
dell’assicurazione di invalidità e vecchiaia e di disoccupazione per tutti i lavoratori 
dipendenti privati, operai e impiegati (questi ultimi solo sotto una certa soglia di 
retribuzione mensile). Il sistema viene ulteriormente migliorato negli anni successivi. 
Nel 1933 viene istituito l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (INFPS) che 
sostituisce la Cassa Nazionale di Previdenza. Il 4 ottobre 1935 viene esteso l’obbligo 
d’iscrizione al INFPS anche ai lavoratori del settore privato. 
 
1.1.2.   Il crollo dei titoli obbligazionari e il passaggio al sistema a ripartizione 
 
I sistemi agli inizi si basano soprattutto sulla capitalizzazione dei contributi. Ciò 
significa, che i contributi sono investiti, si accumulano e al momento del pensionamento 
il capitale accumulato finanzia le rendite vitalizie.  
Purtroppo i mezzi accantonati ai fini previdenziali vengono investiti prevalentemente in 
titoli di Stato e di debito: ciò, addirittura, quasi esclusivamente nel mercato interno, 
senza tenere conto del principio basilare della diversificazione e senza investire 
debitamente nell’economia reale, e cioè in azioni. Sottolineando questo aspetto perché è 
un luogo comune ritenere che i titoli obbligazionari siano più sicuri di quelli azionari. 
Quest’opinione, che effettivamente si conferma nel breve periodo, non si avvera nel 
lungo periodo.
7 
 
Nel lungo periodo i titoli obbligazionari sono esposti al rischio inflazione mentre le 
azione – che nel breve periodo oscillano e possono anche subire forti crolli – crescono 
con lo sviluppo della economia reale, perché non rappresentano altro che partecipazioni 
in aziende. 
L’inflazione bellica infatti, e quella del dopoguerra, azzerano il valore della moneta e 
conseguentemente dei titoli monetari, facendo svanire il loro potere d’acquisto e la fonte 
finanziaria che avrebbe dovuto alimentare le rendite pensionistiche. Per salvare le 
pensioni si passa di seguito, dopo il 1945, dal sistema a capitalizzazione a quello a 
ripartizione. In pratica i contributi entranti dei lavoratori vengono usati per pagare le 
pensioni degli anziani, invece di essere accumulati. Questo sistema a ripartizione è 
costruito secondo una logica molto semplice: chi lavora oggi paga con i contributi la 
pensione a chi ha smesso di lavorare. 
Negli anni seguenti sono stati resi sempre più generosi e “bucherellati” da una serie di 
privilegi, spesso in seguito a promozioni elettorali. Nel marzo 1962 il governo Fanfani 
annuncia l’aumento delle pensioni d’invalidità e vecchiaia del 30%. Nel luglio del 1965 
viene estesa la pensione di anzianità di servizio anche al settore privato. Nel 1968 la 
riforma pensionistica garantisce ai lavoratori dipendenti una pensione nella misura 
dell’80% dell’ultimo stipendio. Nel 1969 viene introdotta la pensione sociale per meno 
abbienti. Nel 1973 nascono le cosiddette pensioni baby. Basta un periodo minimo di 
contribuzione per poter riscuotere la pensione: in genere 20 anni e per le donne sposate 
15 anni e 6 mesi ed un giorno. 
Il sistema funziona come una vasca da bagno. L’acqua che entra dal rubinetto è 
rappresentata dai contributi sociali pagati da imprese e lavoratori. Essa è tanto maggiore 
quanto più sono coloro che lavorano, quanto più elevati cono i redditi e l’aliquota del 
prelievo. Sul fondo della vasca lo “scarico” è rappresentato dalle pensioni che vengono 
pagate. Quanti più sono i pensionati e quanto maggiori sono i diritti a loro riconosciuti, 
tanto maggiore sarà la spesa. Il sistema è in equilibrio fino a quando l’acqua che entra è 
di più, o uguale a, quella che esce. E cosi è stato fino a pochi decenni fa, quando molti 
erano coloro che entravano nel mercato del lavoro, il reddito nazionale cresceva molto 
ed i pensionati erano ancora pochi. 
Oggi accade il contrario. A causa della scarso sviluppo economico, della ridotta crescita 
dei salari, del calo demografico e dell’aumento del numero e dell’aspettativa di vita
8 
 
degli anziani, i contributi non coprono più la spesa per pensioni, sia in Italia che in gran 
parte dei Paesi dell’Europa. Per questi motivi, i presupposti pensionistici di un tempo 
non si possono più mantenere e, soprattutto, non si potranno garantire a chi oggi lavora 
e sarà pensionato tra alcuni anni. 
 
1.1.3.   L’aumento della vita media 
 
Nell’antichità greca e romana, la vita media dell’uomo raggiungeva al massimo i venti 
anni, anche a causa di un’altissima mortalità infantile. Ma anche nel Medioevo e 
nell’Evo moderno fino all’800 si moriva mediamente a 30-40 anni. Solo a partire dal 
ventesimo secolo le grandi scoperte e i progressi nel campo della medicina (p. es. la 
penicillina), della chirurgia, dei trapianti, della diagnostica strumentale, della 
prevenzione, dell’alimentazione e dell’igiene, ci hanno regalato, nei paesi 
industrializzati, un’aspettativa di vita di 77 anni per gli uomini e di 83 per le donne, 
destinata ulteriormente a crescere (fig. 1.1). Di conseguenza è in atto anche in Italia un 
progressivo invecchiamento della popolazione con un forte aumento della quota degli 
anziani sul totale della popolazione stessa. 
Le stime relative alla speranza di vita (vale a dire, al numero medio di anni di vita attesi 
alla nascita) confermano la tendenza all’allungamento della vita media, in atto ormai in 
virtù – come conferma l’Istat – dei progressi della scienza medica e della tecnologia 
sanitaria, oltre che dei miglioramenti nel livello di benessere della popolazione. Nel 
2001 la vita media si attesta a 76,7 anni per gli uomini e a 82,9 anni per le donne, con 
un incremento, rispetto all’ultima osservazione (1998), di oltre un anno per entrambi i 
sessi.
9 
 
 
Figura 1.1 – Crescita della vita media dell’uomo, inclusa la mortalità infantile  
 
In tutte le regioni le donne vivono mediamente più degli uomini (tab. 1.1). Le Marche 
appaiono la regione più longeva, con una vita media di 78 anni per gli uomini e di oltre 
84 per le donne; la Campania, invece, è la regione in cui l’indicatore presenta il valore 
minimo, pari a poco più di 75 anni per gli uomini e 81 per le donne. Il divario esistente 
tra Nord e Sud del Paese tuttavia è in progressiva riduzione dal momento che il ritmo 
d’incremento della vita media è relativamente più sostenuto nelle regioni meridionali. 
L’istituto nazionale di riposo e cura per anziani (Incra), basandosi sui dati disponibili 
allora solo fino al 1998, ha stimato le aspettative di vita fino al 2020, prospettando una 
crescita che porterebbe gli uomini a 78,3 anni di vita media e le donne a 84,6, senza 
tenere conto di possibili nuove scoperte rivoluzionarie nel campo della medicina e della 
scienza genetica, che già si preannunciano (fig. 1.3). 
La crescita della speranza di vita in Italia dal 1961 al 2001 – e cioè nell’arco di 40 anni 
– registra un aumento da 67,2 anni di età a 76,7 anni: cioè di più 9,5 anni per gli uomini. 
Nello stesso arco la speranza di vita delle donne è aumentata dal 1961, quando era pari a 
72,3 anni di età, agli 82,9 anni nell’anno 2001, con un aumento di più di 10,6 anni (fig. 
1.2). Viste queste progressioni, la previsione dell’Incra per il 2020 sembra addirittura 
modesta. 
0
10
20
30
40
50
60
70
80
500
400
300
200
100
0
100
200
300
400
500
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700
800
900
1000
1100
1200
1300
1400
1500
1600
1700
1800
1900
2000
Vita Media
Periodo dal 500 a.C. al 2000 d.C.
ETA' ANTICA ETA' MODERNA
Grecia
Roma
Germania
10 
 
Regioni 
Speranza di vita alla nascita 
2000 2001 
Maschi Femmine Maschi Femmine 
Piemonte 76,0 82,1 76,4 82,6 
Valle d’Aosta 76,0 82,1 76,4 82,6 
Lombardia 75,9 82,7 76,3 83,1 
Trentino Alto-Adige 76,6 83,4 76,9 84,0 
Veneto 76,4 83,2 76,9 83,7 
Friuli-Venezia Giulia 76,2 82,6 76,6 83,2 
Liguria 76,3 82,4 76,5 82,7 
Emilia-Romagna 76,7 83,0 77,2 83,4 
Toscana 77,0 83,0 77,3 83,3 
Umbria 77,6 83,4 77,8 83,5 
Marche  77,4 83,5 78,0 84,3 
Lazio 76,5 82,3 76,9 82,7 
Abruzzo 76,9 82,9 77,7 83,8 
Molise 76,9 82,9 77,7 83,8 
Campania 74,8 80,7 75,3 81,2 
Puglia 76,8 82,3 77,6 83,2 
Basilicata 77,0 82,3 77,5 83,0 
Calabria 76,8 82,1 77,6 82,9 
Sicilia 75,9 81,3 76,6 81,9 
Sardegna 76,0 82,9 76,2 83,0 
Italia 76,3 82,4 76,7 82,9 
 
 
Figura 1.2 - La speranza di vita è costantemente cresciuta: in verde sono indicati i valori degli 
uomini e in blu quelli delle donne. 
 
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
1961 1961 1971 1971 1981 1981 1991 1991 1998 1998 1999 1999 2000 2000 2001 2001
67,2
72,3
69
74,9
71,1
77,8
73,6
80,2
75,6
81,8
75,8
82
76,2
82,6
76,7
82,9
11 
 
Sono in forte aumento anche le persone che superano i 100 anni di età: i centenari in 
Italia, nel 1993, erano più di 4.000 nell’intero Paese; cinque anni dopo, nel 1998, più di 
5.000 (secondo dati dell’Incra) (fig. 1.3). E solo due anni dopo, le persone di 100 anni di 
età e oltre risultano (secondo i dati Istat) cresciuti a 7.831. 
 
 
Figura 1.3 
 
1.1.4.    La diminuzione delle nascite 
 
Mentre cresce la vita media dell’uomo e le persone diventano sempre più vecchie, 
diminuiscono le nascite. Negli anni settanta, la donna italiana aveva mediamente due o 
tre figli (precisamente 2,42), mentre alla fine degli anni 90 il nostro Paese si annovera 
tra i Paesi con la più bassa natalità del mondo, con un figlio (precisamente 1,2) (fig. 
1.4). Ne consegue che una parte sempre più esigua di popolazione attiva deve 
alimentare la spesa crescente per il mantenimento di un numero sempre maggiore di 
persone anziane. 
I valori più elevati di fecondità si riscontrano nelle regioni del Mezzogiorno, fatta 
eccezione per la Sardegna, l’Abruzzo e il Molise che presentano, invece, comportamenti 
riproduttivi più vicini a quelli dell’Italia Centrale. Nel Centro e nel Nord del Paese la 
fecondità è più contenuta, fatta eccezione per le provincie autonome di Trento e 
Bolzano. La provincia di Bolzano, in particolare, dal 2001 detiene il primato in Italia del 
0
1000
2000
3000
4000
5000
6000
7000
8000
1993 1998 2000
4000
5000
7831
12 
 
più elevato numero di figli per donna (1,52), superando la Campania (1,49), 
storicamente la regione più prolifica del paese. I valori più bassi si osservano in Liguria 
e in Sardegna con valori appena superiori a un figlio per donna. 
 
 
Figura 1.4 - Numero medio di figli per donna 
 
Il rapporto annuale dell’Istat 2001 sottolinea che il recupero, sia pur lievissimo, della 
fecondità è interamente attribuibile alle regioni del Nord e del Centro del Paese, che 
hanno più che compensato la contemporanea diminuzione delle regioni del 
Mezzogiorno. 
La ripresa delle nascite nel Centro e nel Nord d’Italia deve essere valutata con grande 
attenzione, perché dipende da vari fattori che ridimensionano la sua importanza, come 
giustamente commenta Gianpiero dalla Zuanna in un suo articolo
1
. In primo luogo la 
fecondità aumenta perché negli anni passati, molte coppie avevano rimandato il 
matrimonio e la nascita dei figli, che stanno ora recuperando. Infatti si presenta 
maggiore il reucpero nelle zone dove – nei primi anni ’90 – la fecondità è stata bassa. In 
secondo luogo, negli ultimi anni la fecondità delle donne straniere è aumentata 
rapidamente: nel 2000 è stata del 60% superiore rispetto a quella delle italiane, mentre 
nel 1994 i due gruppi avevano grosso modo la stessa propensione a fare i figli. Poiché 
nel frattempo le donne straniere in età feconda sono aumentate di numero, nel giro di 6 
                                                             
1
 Giampiero Dalla Zuanna, “La ripresa delle nascite”, Alto Adige 27.05.2002. 
0
0,5
1
1,5
2
2,5
1960 1970 1980 1990 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
13 
 
anni i nati da donne straniere sono passati dall’1% al 5% del totale. Questo significa che 
l’aumento delle nascite è da ricondurre in parte alle donne straniere.  
È importante ribadire che la fecondità italiana è ancora una delle più basse del mondo. Il 
numero di bambini era ed è largamente insufficiente per frenare l’invecchiamento della 
popolazione. 
Con una piramide demografica quasi capovolta, il contratto generazionale che sino ad 
ora ha sorretto il sistema pensionistico non è più in grado di sostenere la spesa 
previdenziale. Anche da ciò deriva la necessità di interventi sul sistema pensionistico. 
 
 
Figura 1.5 - La Spagna e l'Italia registrano il più basso tasso di natalità 
 
1.1.5.    L’invecchiamento della popolazione 
 
Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione si concentra per il momento nei 
paesi industrializzati. La tab. 1.2 evidenzia come (alla fine degli anni ’90) nei Paesi in 
via di sviluppo prevalga la popolazione giovane: in Africa i bambini (dagli zero ai 14 
anni) rappresentano il 44% della popolazione, in America Latina il 34%. Solo il 3%
14 
 
della popolazione africana ed il 5% della popolazione dell’America Latina supera i 65 
anni. 
Il contrario accade nell’Europa meridionale ed occidentale. I bambini (dagli 0 ai 14 
anni) costituiscono solamente il 17%-18% della popolazione (rispetto al 44% 
dell’Africa); le persone anziane (oltre 65enni) invece rappresentano il 15% della 
popolazione (rispetto al 3% dell’Africa). 
 
 
Tabella 1.1 – la struttura della popolazione mondiale per classi d’età 
 0-14 15-64 Oltre 65 
Tutti i Paesi 32% 62% 6% 
Africa 44% 53% 3% 
America Latina 34% 61% 5% 
America Settentrionale 22% 66% 13% 
Asia 32% 63% 5% 
Europa 19% 67% 14% 
Europa Orientale 21% 67% 14% 
Europa Settentrionale 20% 65% 15% 
Europa Meridionale 17% 68% 15% 
Europa Occidentale 18% 67% 15% 
Oceania 26% 64% 10% 
   
 
L’invecchiamento dei Paesi industrializzati sta rapidamente crescendo. Le stime 
prevedono un incremento degli ultra-65enni ad oltre il 20% della popolazione. La 
tabella 1.3 sottostante indica quale sarà l’invecchiamento della popolazione tra circa 11 
anni, ovvero nel 2020. Ad esempio gli ultra cinquantenni, che in Italia ed in Germania 
nel 1990 erano solo un terzo dell’intera popolazione (32,4% e 34,1%), saliranno nel 
2020 a circa il 47%, diventando quindi quasi la metà dell’intera popolazione. Ma anche 
negli altri Paesi raggiungeranno il 40%. Gli untra-sessantenni invece costituiranno fino 
al 2020 circa il 30% della popolazione in Italia e in Germania. In tutti i Paesi occidentali 
gli ultra ottantacinquenni passeranno dall’1% al 2-2,8%.
15 
 
 
 
Tabella 1.2 - Un confronto tra la popolazione anziana nel 1990 e quella del 2020 in alcuni Paesi 
europei (valori in percentuale sul totale della popolazione) 
  I D A E F NL EUR12 
1990 
50+ 32,4 34,1 31,5 29,6 29,7 27,4 31,3 
60+ 20,2 20,8 20,5 18,5 19,1 17,2 19,7 
65+ 14,4 15,3 15,2 13,2 14,0 12,8 14,4 
75+ 6,3 7,4 7,1 5,4 6,8 5,3 6,5 
85+ 1,1 1,4 1,4 1,0 1,5 1,1 1,3 
2020 
50+ 46,8 47,1 40,3 41,1 39,5 40,5 42,2 
60+ 29,9 29,9 24,8 24,9 26,1 25,2 26,7 
65+ 22,8 22,8 18,8 18,3 19,7 18,6 20,0 
75+ 10,7 10,6 7,9 7,9 8,2 7,4 8,9 
85+ 2,8 2,5 2,1 2,1 2,4 1,9 2,4 
 
 
1.1.6.    Il peso demografico 
 
Il peso demografico delle pensioni si esprime nel rapporto tra i pensionati e la 
popolazione attiva; oppure in altre parole: quanti sono in percentuale i pensionati in 
riferimento alle persone che lavorano? Secondo il sistema a ripartizione sono, infatti, 
questi ultimi che devono sostenere il peso delle pensioni. 
L’indice di dipendenza degli anziani aumenterà notevolmente nei prossimi 30-40 anni. 
Secondo le proiezioni demografiche a lungo termine di Eurostat, il numero delle 
persone in età lavorativa per ciascun pensionato si dimezzerà entro il 2050, passando da 
3,5 a 1,8 a livello europeo. L’espansione del numero delle persone anziane sarà – 
secondo il CNEL – tale che il progresso del loro indice di dipendenza demografica non 
potrà essere rallentato da un improvviso aumento della fertilità o da un livello realistico 
d’immigrazione. Un incremento dei tassi di fertilità produce i primi effetti sul mercato 
del lavoro soltanto 20 anni dopo. Mentre, se l’immigrazione può contribuire ad 
aumentare il tasso di occupazione, il suo impatto positivo dipende dalla misura in cui gli 
immigrati possono essere adeguatamente inseriti nel mercato del lavoro.
16 
 
Le seguenti stime della Commissione Politiche del Lavoro e Politiche Sociali del 
Consiglio Nazionale dell’Economia del Lavoro (CNEL) dimostrano il crescente 
aggravio per poter sostenere il finanziamento delle pensioni. La tab. 1.4 in particolare 
indica come salirà il numero degli anziani (oltre i 64 anni) sino al 2050 in rapporto alla 
popolazione in età lavorativa. La proiezione (ipotesi troppo ottimistica) ipotizza che, in 
rapporto ad una popolazione attiva tra i 20 ed i 64 anni, nel 2050 gli ultra sessanta 
quarantenni in Europa saranno in media UE del 55,9%; in Italia addirittura del 69,7% 
della popolazione attiva (dai 20 ai 64 anni). 
Il grafico delle Nazioni Unite (fig. 1.6) conferma queste previsioni ed illustra 
graficamente come il peso demografico delle persone in quiescenza si sviluppi in 
progressivo aumento fino al 2050. L’Italia – secondo questa stima – raggiungerebbe una 
quota del 70% di pensionati in riferimento alle persone attive. 
La situazione sarà particolarmente critica (e la curva cioè in rapida ascesa) dopo il 2025 
quando le persone nate tra il 1960 e il 1970 (anni di natalità elevate), usciranno dal ciclo 
lavorativo e andranno in pensione. Poiché le annate successive non hanno registrato lo 
stesso alto numero di nascite, la quota di pensionati italiani dal 2045 aumenterà fino alla 
già menzionata percentuale del 70% della popolazione attiva. 
 
Tabella 1.3 - Proiezioni di base degli indici di dipendenza degli anziani negli Stati membri dell'UE 
(ultra-sessantacinquenni rispetto alla popolazione di età compresa tra 20 e 64 anni) 
% 2000 2010 2020 2030 2040 2050 
B 29,5 31,1 38,0 48,8 53,5 52,0 
DK 25,5 29,6 35,7 42,0 47,0 43,7 
EL 28,0 34,1 38,6 50,3 57,0 56,1 
E 30,2 33,6 38,0 44,4 54,7 61,6 
F 28,5 29,5 38,1 46,4 52,1 53,2 
IRL 20,3 20,5 26,2 32,1 38,4 46,6 
I 30,7 35,5 42,1 52,9 67,8 69,7 
L 24,8 27,6 33,0 42,5 47,2 43,5 
NL 23,1 26,2 34,7 44,2 50,1 46,9 
A 26,3 30,1 34,5 47,0 57,0 57,7 
P 26,7 28,5 32,2 37,2 46,3 50,9 
FIN 25,9 29,7 41,4 49,5 49,7 50,6 
S 30,9 33,8 39,8 45,4 48,9 48,5 
UK 27,8 28,5 33,9 43,1 49,1 48,5 
UE-15 28,3 31,4 37,3 46,8 55,0 55,9
17 
 
 
 
 
 
Figura 1.6 
 
1.1.7.   Presto più pensionati che lavoratori 
 
Le stime riportate da fonti internazionali rischiano di essere superate dalla realtà, che in 
Italia si presenta molto più drammatica. L’età del reale pensionamento è infatti molto 
più bassa di quella teoricamente prevista ed igiovani entrano sempre più tardi nel ciclo 
lavorativo, causa il prolungamento degli studi.  
il Sole 24 Ore nel 1997 prevedeva che già nel 2025 il numero dei pensionati sorpassasse 
quello dei lavoratori attivi. Nei prossimi anni il numero dei lavoratori salirebbe ancora 
leggermente grazie ai periodi passati in cui le nascite erano ancora numerose, ma poi 
diminuirà drasticamente. Il numero dei pensionati invece continuerà a crescere. Nel 
2025 vi saranno più pensionati che lavoratori (fig. 1.7). 
in verità la data del sorpasso si sta avvicinando. L’ISTAT, in un suo studio dedicato a “i 
beneficiari delle prestazioni pensionistiche”, ha elaborato, provincia per provincia, il 
rapporto tra il numero dei pensionati e quello degli occupati. Tale “rapporto di 
dipendenza” fa emergere che in ben cinque provincie italiane i primi hanno già superato
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i secondi e in altre due c’è perfetta parità. Dallo studio ogni mille occupati, ci sono 
anche 763 pensionati, che corrisponde ad un’incidenza percentuale del 76,3% su base 
nazionale. 
 
 
Figura 1.7 - Dal 2025 più pensionati che lavoratori. 
 
 
 
 
 
1.2  La spesa pensionistica e la crisi del sistema 
 
1.2.1.  La spesa pensionistica dal 1989 
 
La spesa per pensioni dell’insieme dei Fondi del sistema obbligatorio per il 2000 era 
pari a 157,13 miliardi (mld.) di €
2
. Rispetto al precedente anno 1999 la spesa 
pensionistica aumentò di 3,83 mld di € (più 2,50%). La somma dei contributi versati 
                                                             
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 La seguente analisi della spesa previdenziale in Italia si basa sul rapporto 2001 del Nucleo di 
Valutazione della Spesa Previdenziale (NVSP) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.  
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14
16
18
20
22
24
1990 2000 2010 2020 2030 2040 2050
Poli. (Occupati)
Poli. (Totale Pensioni)
Poli. (Pensioni dirette)