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dell’immigrazione nel nostro Paese tende a diventare un fenomeno stabile: 
lo scorso anno il 24,3% dei permessi di soggiorno accordati sono stati per 
ricongiungimento familiare. Secondo il rapporto della Caritas del 2004, il 
60% degli stranieri è ormai presente in Italia legalmente da almeno cinque 
anni e un terzo da almeno dieci. Già nel censimento 2001, del resto, la 
percentuale dei cittadini stranieri nati in Italia era del 12%. 
Genova, a causa delle sue caratteristiche demografiche, vive in modo 
particolare questa situazione. 
A differenza degli anni ‘80, quando si assisteva ad una immigrazione 
costituita per lo più da uomini adulti soli provenienti dall’Africa, oggi la città 
si trova di fronte ad una presenza stimata in oltre 40.000 immigrati 
rappresentati in larga parte da famiglie, con migliaia di minori che stanno 
ripopolando le scuole genovesi. 
La prima comunità nazionale a Genova, e quella che rappresenta 
meglio questo tipo di nuova immigrazione, è quella ecuadoriana, 
proveniente in gran parte dalla zona di Guayaquil. 
In queste pagine si è cercato di ricostruire le ragioni storiche di 
questo fenomeno, indagando i tradizionali rapporti tra Genova e Guayaquil, 
e di fotografare, con l’aiuto di un questionario effettuato a 300 ecuadoriani 
residenti a Genova, le caratteristiche di questa immigrazione. 
La rilevazione dei dati - anagrafici (età, genere, zona di provenienza), 
culturali (titoli di studio, frequenza universitaria), sociali (condizione di 
regolarità, tempi di permanenza in Italia, professione di provenienza e 
attuale situazione lavorativa in Italia) - mi ha permesso di tratteggiare una 
figura di immigrato che ha confermato quelle che erano le mie impressioni 
soggettive, derivanti da un lavoro di anni a contatto con lavoratori 
immigrati, e che ci ha suggerito le conclusioni che esponiamo nelle ultime 
pagine.  
Realizzando i questionari mi sono reso gradualmente conto che in 
molti ecuadoriani la scelta di Genova come destinazione non era casuale: 
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Genova era stata presente nell’immaginario di molti come qualcosa di 
familiare. Nella prima parte del primo capitolo spiego come la limitata 
presenza italiana in Ecuador sia stata quasi esclusivamente costituita da 
liguri e come questa impronta, al di là delle dimensioni numeriche, abbia 
lasciato un segno in ricordi familiari, attività di Associazioni, in una 
immagine di Genova come città portuale simile in qualche modo a 
Guayaquil. In seguito tratteggio l’evoluzione del rapporto Italia - Ecuador 
dal dopoguerra ad oggi e la crisi economica di fine anni ‘90 che ha dato vita 
all’ondata emigratoria diretta verso l’Europa, Spagna e Italia innanzitutto. 
Nel secondo capitolo l’attenzione è rivolta alle caratteristiche 
peculiari dell’immigrazione ecuadoriana nel contesto genovese e alle 
specificità dell’insediamento rispetto alla struttura demografica e 
socioeconomica della città. 
Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dei dati dei trecento questionari 
effettuati, mentre quello successivo affronta un approfondimento basandosi 
su una serie di interviste. 
Una ventina dei questionari realizzati si sono poi trasformati, infatti, 
in vere e proprie interviste in cui, a ruota libera, gli immigrati raccontavano 
la ragione, vera o presunta, della scelta di partire e di venire a Genova e le 
prime vicende dopo l’arrivo. 
Quattro in modo particolare ho scelto di riportarle per intero, perché 
mi sembrava che fossero emblematiche delle possibilità e delle difficoltà 
dell’inserimento. Tutti i quattro intervistati provengono dall’area di 
Guayaquil, ma i vissuti sono diversi.  
 
La prima, Patricia C., è una donna di quaranta anni che vede 
dissolversi una situazione precedentemente stabile. La crisi del matrimonio 
e la crescita dei figli da una parte, e dall’altra le difficoltà su un lavoro da 
sempre precario - lavorava in un giornale, ma con contratti a termine - 
finiscono per convincerla della necessità di un cambiamento radicale.  
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La scelta di Genova deriva dalla presenza nella nostra città di 
un’amica da tempo emigrata e che dice di poter garantire un posto dove 
stare e un lavoro. È risaputo che i racconti degli emigrati spesso presentano 
situazioni che non corrispondono alla realtà: chi va lontano tende spesso a 
giustificare la propria scelta sottolineando gli aspetti positivi e tacendo quelli 
negativi. Quando questi racconti si rivolgono a persone che hanno bisogno 
di una spinta rispetto a decisioni che stanno prendendo, si possono creare 
equivoci e difficoltà. 
 
«Quando ho telefonato alla mia amica per avvisarla che ero in 
Italia, le è quasi venuto un colpo. Per i primi tempi sono stata da lei, ma la 
realtà era diversa da come mi aveva raccontato. Non lavorava in ospedale, 
ma con gli anziani in case private e abitava con un italiano, lui sì, 
infermiere. Era una brava persona, ma ho capito che non potevo stare lì per 
molto.» 
 
Trova subito lavoro come assistente di una anziana, ma le condizioni 
sono dure: a disposizione sempre, confinata in un paesino dell’entroterra, 
senza la possibilità di avere una qualunque vita sociale, addirittura economie 
sul cibo. 
 
«Sembra strano anche a me adesso aver accettato quelle condizioni, 
anche perché io ero una donna adulta e  che aveva esperienza del mondo, ma 
quando si cambia Paese è come girare per un po’ con gli occhi chiusi. Sei 
nella realtà, ma hai sempre l’impressione di non capire bene, che qua ci 
siano regole diverse da quelle che conosci e, per paura di sbagliare, subisci 
delle cose che a casa tua non accetteresti mai.» 
 
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Il susseguirsi di condizioni sempre più umilianti portano ad una 
reazione che causa la perdita del lavoro. È apparentemente il crollo di tutto 
il progetto emigratorio. 
 
«Mi sono fatta le mie ragioni. La signora si è offesa e mi ha proprio 
cacciata. Quando me ne sono andata ho avuto un momento di vera 
disperazione, ho pensato che ero venuta via dall’Ecuador proprio come una 
stupida e che mi ero comportata in modo impulsivo, non da me. Sarei 
ripartita subito se avessi potuto, ho pensato perfino di andare in Questura e 
di farmi espellere o di andare a Milano al Consolato e di farmi 
rimpatriare.» 
 
Gli strumenti culturali di cui Patricia dispone - e non è secondaria la 
discreta padronanza della lingua italiana - le permettono di superare la crisi, 
si rivolge ad una associazione che si occupa di immigrati, inizia una vertenza 
sindacale, riesce infine a regolarizzarsi con la “sanatoria” prevista dalla 
“Bossi-Fini”. Sono presenti tuttavia tutti gli elementi classici del percorso 
migratorio: la sensazione di non avere più possibilità nel proprio Paese a 
fronte anche di una situazione personale che  vedeva il chiudersi di un ciclo 
esistenziale, la speranza di essere sostenuta nelle prime fasi dell’inserimento, 
la delusione relativa, l’occupazione ai livelli più bassi nella gerarchia dei 
lavori a prescindere dalla propria professionalità, la reazione in nome della 
propria dignità. Il “lieto fine” non corrisponde alle iniziali aspettative (un 
contratto di domestica e un permesso di soggiorno di due anni, legato alla 
sussistenza del rapporto di lavoro), ma comunque garantisce il 
proseguimento dell’esperienza e quindi lascia aperte le porte per la speranza 
di un futuro miglioramento. 
 
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La seconda intervista è stata realizzata ad Eric R., 31 anni, 
proveniente da un piccolo centro del Guayas. Eric parte con delle 
aspettative precise. Ha una piccola ditta in Ecuador che gli consente di 
vivere, ma non dispone del capitale necessario per sviluppare l’attività come 
vorrebbe. La presenza a Genova di una sorella, arrivata nel 1999, 
“chiamata” da un’amica sposata ad un italiano, lo convince ad emigrare con 
l’intento dichiarato di mettere insieme un piccolo capitale da investire in 
seguito in Ecuador. A differenza dell’intervistata precedente, Eric pensa ad 
un periodo di emigrazione di tre, quattro anni con l’obiettivo di tornare. 
Parte con il padre e il suo futuro cognato, ma le cose sono più difficili del 
previsto, proprio a causa delle sue aspettative. 
 
«Tutti e tre siamo andati a lavorare in un’impresa edile, ma a me 
non piaceva, io avevo due dipendenti nella mia ditta in Ecuador ed ero 
abituato ad un altro tipo di lavoro.» 
 
Su questa situazione si innesta una disgrazia familiare. 
 
 «Poi mio padre è stato male, era abbastanza giovane, aveva 55 
anni, ma non ce la faceva a lavorare d’inverno sulle impalcature. A un certo 
punto è voluto tornare in Ecuador; è stato un errore perché, arrivati a 
Guayaquil, l’hanno ricoverato in ospedale e dopo due settimane è morto; io 
credo che in Italia l’avrebbero salvato, la sanità non funziona tanto bene in 
Ecuador, ma non si può dire.» 
 
Ricomincia comunque l’esperienza migratoria interrotta: Eric riparte, 
ma decide di andare in Spagna dove si occupa come bracciante agricolo ed 
in seguito come operaio. Anche lui sperimenta le dure condizioni di vita e 
di lavoro che sono spesso riservate agli immigrati: lunghi orari, nessuna 
tutela sindacale, precarietà. 
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Tornare a Genova per ricongiungersi con la sorella, unica parente 
prossima rimasta, lascia il senso dell’insoddisfazione e delle aspettative 
deluse. 
 
«Dopo essere stato in Spagna le mie pretese sono scese, ma non sono 
contento. Qua mi sono trovato bene con la gente, ma il lavoro mi pesa. Mia 
sorella ha la sua famiglia e non vado tanto d’accordo con mio cognato che mi 
tratta sempre come se io non mi adattassi e facessi storie per tutto. 
Ultimamente non sto più da loro perché non avevo alcuna libertà. Qualche 
volta capita di fare festa con gli amici, sabato e domenica, e una volta che 
sono tornato un po’ brillo mio cognato mi ha buttato fuori.  
Non so bene cosa fare: in Ecuador ho solo dei cugini e riaprire la 
ditta dopo qualche anno non sarebbe tanto facile; qua mi trovo abbastanza 
bene, ma vivere da solo facendo il muratore, per di più non in regola, è 
davvero difficile.» 
 
La delusione e la impossibilità di esaudire le aspettative si traducono 
in difficoltà di rapporti familiari e qualche abitudine negativa. C’è la 
sensazione dello smarrimento di un’identità - non riesce più a stare in 
Ecuador come prima, perché non c’è più il vecchio lavoro, sono scomparsi 
per motivi diversi i familiari – ma non riesce a figurarsi l’inserimento come 
definitivo a causa del senso di precarietà che lo accompagna.  
 
  «Mi sento come se non fossi né ecuadoriano né italiano. – termina    
  l’intervista - E non è una bella sensazione.» 
 
La terza intervista che ho deciso di riportare per intero è stata 
realizzata ad una donna di Guayaquil di 30 anni, Beth Z. 
Alle consuete motivazioni per la partenza – difficoltà economiche, 
disgregazione della famiglia d’origine – se ne aggiunge un’altra. La nascita di 
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un bambino Down non rappresenta solo un ulteriore onere in termini 
economici e di assistenza, ma - per la mentalità della comunità d’origine – 
rappresenta una vergogna da gestire con imbarazzo, addirittura un’ombra 
gettata sulla normalità del padre. Il fatto che poi sia proprio la presenza del 
bambino handicappato a garantire l’agognato permesso di soggiorno ai 
genitori lo riscatta e lo fa diventare «un po’ il salvatore della famiglia».  
Rispetto alle altre testimonianze abbiamo in evidenza anche il tema 
del viaggio. È evidente la differenza dell’attuale viaggio migratorio 
transoceanico, rispetto all’epopea dei viaggi in mare dei secoli scorsi. Anche 
il tragitto Guayaquil – Madrid – Genova può diventare tuttavia un incubo 
nella percezione di chi lo subisce. 
 
«Il viaggio con due bambini piccolissimi, di cui uno handicappato, è 
stato terribile. Io non solo non ero mai stata in aereo, ma si può dire che 
non mi ero mai mossa dal mio quartiere, mi sembrava tutto un sogno, anzi 
un incubo. A Madrid, dove dovevamo fare scalo c’è stato un problema e ci 
siamo fermati 24 ore. Ero nel panico, non capivo niente, neanche lo 
spagnolo.» 
 
L’inserimento è agevolato dalla presenza di una forte comunità 
nazionale che inizialmente supporta la famiglia – «Sono rimasta stupita da 
quanti ecuadoriani ci fossero; subito stavamo a Sampierdarena, in un palazzo dove erano 
tutti stranieri. Mi hanno aiutato all’inizio, io dovevo lavorare subito, e mi tenevano i 
bambini, un po’ uno un po’ l’altro» – e anche se Genova «con Guayaquil non c’entra 
niente» la nuova città è percepita come accogliente e «comprensiva». 
È l’immigrato, sebbene persona irreprensibile, a sentirsi in difetto:  
 
«Eravamo però senza permesso di soggiorno e questo mi angosciava. 
Mi vedevo espulsa, magari che mi toglievano i bambini, camminavo per 
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strada e se incontravo qualcuno in divisa volevo sprofondare, io non mi ero 
mai sentita così “non in regola” in tutta la mia vita.» 
 
La volontà è sicuramente quella di restare – «spero di riuscire a 
stabilizzare la situazione del tutto, anche perché è chiaro che resteremo qua per sempre» – 
anche se la via della regolarizzazione è ancora lunga. Il permesso di 
soggiorno per salute non prevede infatti la possibilità di lavorare e quindi, 
sebbene il nucleo familiare non sia più irregolare dal punto di vista della 
permanenza sul territorio italiano, è tuttavia destinato all’irregolarità dal 
punto di vista lavorativo. I due genitori non sono più espellibili, ma non 
possono avere un lavoro in regola: il datore di lavoro è passibile di 
procedimento penale; i due ecuadoriani dovrebbero comunque, in caso di 
richiesta esplicita, documentare un reddito che consenta alla famiglia di 
mantenersi in Italia. L’incongruenza della situazione non ha bisogno di 
commenti e sarà probabilmente risolta dalla prossima provvidenziale “ultima 
ed eccezionale sanatoria”. 
 
La quarta intervista è stata realizzata a Jorge M., un ragazzo di 
Guayaquil che è venuto a raggiungere la famiglia già inserita a Genova. 
L’intervista affronta molti temi relativi agli immigrati giovanissimi. 
Innanzitutto il rammarico di arrivare in una situazione in cui «i miei non 
c’erano mai, lavoravano fuori città e io mi chiedevo cosa ero venuto a fare». A casa c’era 
la presenza rassicurante della nonna che si occupava di tutto, mentre in 
Italia cominciano subito i problemi con la necessità di trovare velocemente 
un lavoro per avere il permesso di soggiorno. 
La prima esperienza lavorativa è frustrante e finisce quando la 
famiglia di Jorge interviene.   
 
«Certi giorni erano nove ore, certi dieci o dodici. A casa dormivo 
sempre, anche perché spesso si lavorava anche il fine settimana. Mi dava 
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cento euro alla settimana, con la promessa di farmi presto un contratto 
regolare. 
[…] ero proprio scoppiato; e così mio padre è andato a parlargli. 
Non so cosa si sono detti, ma il padrone mi ha trattato meglio per una 
settimana e poi mi ha detto che non aveva più bisogno, che chiudeva 
l’attività.» 
 
A questo punto Jorge si ritrova solo, i genitori sono assenti per il 
lavoro, e finisce per passare tutto il suo tempo con una compagnia di 
giovani della sua età. 
È una pandilla, una banda, che costituisce un cerchio chiuso per dei 
giovani che la famiglia non riesce a seguire e che la comunità ospite 
marginalizza. 
 
«Avendo più tempo ho cominciato a frequentare i ragazzi della 
piazza. […] Facevamo feste, andavamo in giro alla Fiumara, con pochi 
soldi ci divertivamo. […] tutti noi bevevamo abbastanza. Il sabato sera 
andavamo al supermercato e compravamo la birra e le cose da mangiare e 
poi andavamo a casa di uno di noi che viveva da solo con la sorella perché i 
genitori erano fuori Genova con degli anziani di Milano.» 
 
Ai ragazzi non sembra di fare niente di male, la droga è bandita 
(«droga no, eravamo - i maggiorenni - tutti irregolari, ci mancava mettersi nei guai con 
quella roba»), l’abuso di alcol invece fa parte della cultura d’origine e di per sé 
non è visto come pericoloso. È quando il gruppo si disgrega perché viene a 
mancare il luogo di ritrovo che i suoi componenti si ritrovano a correre i 
rischi maggiori. 
 
«Una ragazza è entrata in una compagnia di gente che si drogava e 
volevano che lei portasse soldi per stare con loro. Ad un certo punto è 
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intervenuta la sua famiglia e per toglierla dai guai, l’ha rispedita in 
Ecuador. 
Anche altri hanno avuto problemi, due li hanno fermati mentre 
uscivano da una gelateria e gli hanno dato l’espulsione, un altro l’hanno 
arrestato perché rubava.» 
 
La famiglia di Jorge cerca di fermare una deriva che alla lunga può 
diventare pericolosa, ma nonostante gli sforzi non ci riesce.  
 
«I miei mi hanno messo alle strette. Avevano paura che finissi 
male, è logico sono i miei genitori; però io continuavo a dire che non avevo 
chiesto io di venire qua, che mi avevano fatto venire a perdere del tempo, a 
sprecare la vita e che volevo tornare a casa.» 
 
Sarà una disgrazia, la morte improvvisa del nonno, e la decisione 
della nonna – «la nonna è giovane, ha quarantacinque anni ed è in gamba» - di 
raggiungere la famiglia in Italia, a salvare la situazione. 
 
«È arrivata e ha preso in mano la famiglia. Io ho cominciato a 
venire con lei alla scuola d’italiano, mi sembrava strano andare a scuola 
insieme a mia nonna, ma era divertente. Dopo un po’ ho trovato lavoro in 
un ristorante e tutto ha cominciato a girare meglio, adesso siamo tutti 
regolari.» 
 
Il ruolo della famiglia si conferma determinante, ribadendo che in 
una certa fascia d’età ci vuole poco (o moltissimo, secondo i punti di vista) 
per fare la differenza nei percorsi di vita. 
Sarebbe bastato che Jorge fosse stato fermato per un controllo, 
magari insieme a qualche suo amico della pandilla, per trovarsi una vita 
segnata in modo completamente diverso.