2 
 
sociologiche sul significato di pena e di punizione, passando dalla concezione 
classica a quella positivista, per poi passare dalla concezione struttural-
funzionalista di Parsons e della Scuola di Chicago alla teoria dell’etichettamento 
degli anni settanta del Novecento, infine si discuterà sull’annoso problema del 
boom penitenziario e della crisi della teoria criminologica. Mi soffermerò 
sull’importanza che ha assunto il concetto di pena nell’evolversi delle varie teorie 
sociologiche che si sono succedute nel corso dei secoli; sarà evidente la difficoltà 
riscontrata dai vari studiosi, nel ricercare una nozione teorica assoluta del concetto 
di punizione, la quale, a mio avviso, la maggior parte delle volte è stata 
caratterizzata ed influenzata dagli orientamenti politici presenti di volta in volta. 
Nel secondo capitolo verrà fatta una breve ricognizione storica sulla nascita 
del carcere come pena detentiva e la sua evoluzione, si cercherà di rendere 
esplicite le linee guida che hanno traghettato il carcere dalle forme primordiali 
agli istituti di nuova concezione dei giorni nostri. Verrà poi considerato, 
nell’ultima parte del capitolo, il carcere come istituzione totale, affiancandolo alle 
altre istituzioni totali presenti nella nostra società; infine si farà un piccolo 
accenno al rapporto che intercorre tra il detenuto ed il carcere, con tutte le 
considerazioni positive o negative che ne discendono. 
Nel terzo e ultimo capitolo, il più significativo, se si vuole comprendere 
ancora meglio la situazione dei detenuti all’interno delle istituzioni penitenziarie, 
affronterò tutta la problematica della quotidianità della vita del recluso all’interno 
di una società molto diversa da quella di appartenenza del soggetto. 
Infine, per corroborare il mio lavoro di ricerca sul carcere, mi sono recato 
presso la Casa Circondariale di Melfi, in provincia di Potenza, con l’intento di 
attualizzare le nozioni di studio raccolte durante questo percorso e trovare punti di 
raffronto concreto con la realtà di un carcere di Alta Sicurezza come, appunto, 
quello di Melfi. 
La mia ricerca è stata condotta con l’aiuto del Gruppo di Osservazione 
Trattamentale presente nell’istituto, il quale mi ha permesso di allargare le mie 
conoscenze e sensibilizzarmi sul problema delle condizioni di detenzione e sul 
problema del sovraffollamento. 
 3 
 
Il mio obbiettivo è quello di portare alla ribalta, con questa ricerca, 
l’interpretazione di un mondo sociale, quello della detenzione, che tramite il suo 
racconto, il suo rivelarsi all’esterno dell’ambiente nel quale è sorto, contribuisca a 
destrutturare le credenze che nascono inevitabilmente dall’ignoranza: il racconto 
della sofferenza di queste realtà sarà condotto per cercare di restituire la dignità e 
la credibilità a tali soggetti, che una condanna alla detenzione tende ad annullare. 
 4 
 
 
 
CAPITOLO I 
TEORIE DELLA PENA: L’EVOLUZIONE STORICA E 
SOCIOLOGICA DELLA PENA 
SOMMARIO: 1.1. Fondamento e funzione della pena. 1.2. La criminologia positivista e la nascita 
del criminale. 1.3. La sociologia Durkheimiana: la pena come manifestazione della coscienza e la 
divisione anomica del lavoro. 1.4. Le teorie del Novecento: il confronto fra le teorie della Scuola 
di Chicago e lo struttural-funzionalismo parsoniano. 1.5. Gli anni cinquanta: le teorie 
retribuzionistiche. 1.6. Gli anni sessanta: la labelling theory. 1.7. La crisi della teoria 
criminologica: la globalizzazione e il boom penitenziario. 
1.1 Fondamento e funzione della pena: perché punire? 
Prima di approfondire l’argomento sulla questione del valore delle istituzioni 
punitive, vorrei analizzare il significato che assume la definizione di pena, e cosa 
rappresenti la punizione nella nostra società, che ruolo essa svolga e quali 
caratteristiche essa presenti. 
Ogni società è organizzata secondo schemi ben precisi e la sua attività, per 
così dire regolatoria, è finalizzata alla cura degli interessi pubblici, all’interno dei 
quali trova un posto privilegiato la cura della legalità. 
Legalità intesa, quindi, come insieme di norme che regolano l’agire comune 
dei consociati, e il cui mancato rispetto, comporta una reazione dell’ordinamento 
giuridico.   
La pena intesa in senso generale, giuridico e sociale è il mezzo di cui si serve 
l’autorità per reprimere l’attività svolta dall’individuo contraria alle norme sociali 
e consiste sostanzialmente nella privazione o diminuzione di un bene individuale 
(vita, libertà, patrimonio). 
 5 
 
La giustizia penale rappresenta, da sempre, il tentativo di combattere il male, 
che ha fondamento in una condotta dell’uomo contraria alle norme, punita 
attraverso il castigo, cioè contrapponendo al male un altro male in qualche misura 
simmetrica rispetto a quello cagionato dal delitto. Per molti secoli si è ritenuto che 
i comportamenti delittuosi non fossero definiti dall’uomo o dalle organizzazioni 
politiche, bensì dalla volontà divina o dalla natura, tale convincimento non è 
venuto meno neanche con l’affermarsi delle prime teorie liberali. Infatti, nelle 
moderne società liberali l’endiadi delitto-castigo è stata fatta proprio dal 
paradigma “consensualista”. Secondo questo paradigma gli individui, soggetti 
razionali, si accordano sul significato da dare al bene e al male, codificando tali 
accordi nelle regole giuridiche: quindi la volontà comune, il comune sentimento, 
vengono riflessi nelle leggi penali. 
In primo luogo bisogna sottolineare l’irrinunciabilità del principio 
sanzionatorio, non solo quale fondamentale strumento di controllo sociale, ma 
anche come mezzo per appagare in ognuno il sentimento e il bisogno di giustizia: 
il che comporta, appunto, di infliggere una pena più o meno grave a chi si è reso 
colpevole di un atto non riconosciuto dai valori della società. Da qui “la pena” 
(dal latino poena, sofferenza) che è appunto l’infliggere sofferenza per far pagare 
il male commesso. 
La pena fu nel passato rozzamente commisurata secondo lo ius talionis1, intesa 
quale mezzo per compensare l’offesa patita con l’infliggere al colpevole la stessa 
sofferenza causata alla vittima (“occhio per occhio, dente per dente”), così da 
appagare la sua sete di giustizia: legge che contro tutte le apparenze è arrivata fino 
ai giorni nostri sotto la diversa veste del “principio tariffario”2. 
Altra fondamentale finalità della pena3 fu quella della vendetta, intesa come il 
potere di infliggere un male al colpevole direttamente da chi ha subito il torto; 
                                                             
1
 Dal latino ius talionis che significa “legge del taglione”. 
2
 Secondo il “principio tariffario” la durata della reclusione, all’interno delle strutture penitenzia-
rie, viene commisurata alla gravità del reato. 
3
 Sull’evoluzione storica della funzione della pena cfr, tra gli altri: E. Santoro, Carcere e società 
liberale, Torino, 2004, p. 1 ss.; S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Funzione della 
pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 39 ss.; G. Ponti, Compendio di criminologia, 
Milano, 1999, p. 83 ss. 
 6 
 
infatti, per molti secoli, la vendetta non fu soltanto la motivazione principale della 
pena, ma un preciso diritto della vittima o dei suoi familiari: così lo era nel 
mondo greco, in quello romano durante la monarchia e la prima Repubblica, così 
lo era ancora nel IV-V secolo d.C. per il diritto germanico. 
Solo più tardi l’autorità (fosse essa identificata nello stato o nella persona del 
feudatario, del principe o del sovrano) ha avocato a se l’amministrazione della 
giustizia, essa viene pertanto inibita al singolo per divenire prerogativa statale. Si 
riconosceva, pertanto, allo stato (o di colui che lo impersonava) l’esclusivo 
privilegio di essere l’unico soggetto autorizzato a esercitare la giustizia: giustizia 
che ebbe tra l’altro per secoli un carattere sacrale, vuoi per l’identità fra delitto e 
peccato, vuoi per il carattere sacro dello stesso sovrano, nel cui nome la giustizia 
veniva esercitata. 
La moderna finalità retributiva era qualcosa di sconosciuto prima dell’epoca 
illuministica, mentre la finalità intimidativa (quella che oggi chiamiamo “funzione 
general-preventiva”) fu sempre insita nella pena, ed essa costituiva nel passato 
l’unica forma di prevenzione generale, difformemente da quelle che possiamo 
riscontrare nelle istituzioni preventive odierne. 
La prevenzione, nel passato, fu semplice deterrenza intimidativa che veniva 
per lo più attuata attraverso la pubblicità della pena, fosse essa la pena capitale o 
corporale, sulle pubbliche piazze dinanzi a tutto il popolo: consuetudine che solo 
dopo la rivoluzione francese abbandonò le piazze per essere svolta all’interno 
delle istituzioni penitenziarie. Si è assistito, pertanto, ad un capovolgimento della 
pubblicità delle due fasi fondamentali del processo penale: la fase del giudizio non 
è più segreta come avveniva nei tempi passati, di contro l’esecuzione della pena è 
divenuta nascosta, nel chiuso del carcere.  
A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo con l’avvento dell’Illuminismo, l’epoca 
dei lumi, lo scenario cambia profondamente e assistiamo alla nascita delle prime 
teorie sociologiche della pena e più specificatamente della devianza, intesa come 
lo sviamento dell’agire umano dalle linee guida della società. In precedenza diritto 
e procedura penali, come pure l’esecuzione delle pene, erano coerenti con la 
struttura politica e sociale dell’Ancien Régime, incentrata sull’autoritarismo 
 7 
 
dispotico, dove il potere era concentrato nelle mani di un’oligarchia delle classi 
dominanti, mentre dall’altro lato vi erano “i sudditi”, privi di capacità 
d’influenzamento sui fatti economici, politici e sociali, detentori di ben pochi 
diritti e privi di tutela giuridica nei confronti dei più potenti. 
Anche l’esercizio della giustizia era arbitrario così come la struttura sociale: 
mancanza di certezza del diritto, arbitrarietà nell’esecuzione della pena, assenza di 
diritti di difesa, grande abuso della pena capitale, erano tutti aspetti dell’ideologia 
assolutistica mirante a mantenere intatti i valori e i privilegi delle classi potenti, i 
quali risultavano in aperto contrasto con l’idea di rinnovamento che, nel XVIII 
secolo, andava sorgendo fra gli intellettuali, i borghesi e fra le classi lavoratrici. 
Proprio a questa situazione sociale – percepita ormai come storicamente 
sorpassata e non più tollerabile da quel movimento filosofico che portò alla 
nascita dell’Encyclopédie4 - si contrappose l’Illuminismo attraverso l’utilizzo 
della scienza e della conoscenza. 
La necessità di una nuova struttura giuridico – amministrativa del diritto 
pubblico, che desse corpo ai principi fondamentali dell’illuminismo (ragione, 
libertà ed eguaglianza) trovò in Cesare Beccaria5 il suo più famoso rappresentante 
e sostenitore. Il suo capolavoro, “Dei delitti e delle pene”, pubblicato anonimo nel 
1764 per timore della rigorosa censura, rappresenta infatti la più nota, lucida e 
sintetica esposizione della nuova concezione liberale del diritto penale, che segna 
l’inizio di una nuova filosofia della pena. 
Gli aspetti fondamentali della nuova concezione della pena possono essere 
così riassunti: 
   la funzione della pena è quella di rispondere alle esigenze di una determinata 
società e non a principi morali (separazione fra morale religiosa ed etica 
pubblica); 
                                                             
4
 Possiamo ricordare tra i maggiori esponenti di questo movimento filosofico i vari Voltaire, 
Diderot, d’Alambert, Montesquieu.  
5
 Cesare Bonesana, marchese di Beccaria (1738-1794) è stato un giurista, filosofo, economista e 
letterato italiano, figura di spicco dell’Illuminismo. Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro ed 
Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a fondare l’Accademia dei Pugni nel 
1762. Proprio dalle discussioni con gli amici Verri che gli venne l’impulso a scrivere un libro che 
spingesse ad una riforma del sistema penale. 
 8 
 
   la pena deve avere un significato retributivo, anziché unicamente 
intimidatorio e vendicativo; 
   la pena deve colpire il delinquente unicamente per quanto d’illecito egli abbia 
compiuto, e non in funzione di ciò che egli è o possa diventare; 
   oltre alla proporzionalità della pena, deve essere mitigata la sua severità 
(eliminazione delle pene corporali, la pena di morte deve essere abolita o 
quanto meno limitata); 
   infine il criminale deve essere percepito come un individuo dotato di libero 
arbitrio, pienamente responsabile, che ha scelto la via del delinquere e che ne 
risponda nei modi stabiliti dalla legge. 
E’ da notare come tali fondamenti hanno mantenuto piena validità fino ai 
giorni nostri, almeno come principi, ancorché tuttora disattesi dai sistemi non 
democratici. 
In Italia i nuovi principi illuministici si articolarono, nel XIX secolo, in una 
summa dottrinale che prese il nome di Scuola Classica del diritto penale, che per 
quasi un secolo caratterizzò il pensiero penalistico in tutta l’Europa. 
La Scuola Classica, muovendo dal postulato del libero arbitrio, poneva a 
fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto, quale 
rimproverabilità per il male commesso. Conseguenzialmente, viene a prefigurarsi 
la concezione etico-retributiva della pena che si poggia su tre pilastri 
fondamentali: la volontà colpevole, l’imputabilità e il significato di retribuzione 
della pena. 
Il delitto veniva considerato quale entità di diritto e non di fatto: una 
definizione che prescindeva dalla realtà psicologica del reo, il quale comportava 
che il giudizio nei suoi confronti non fosse guidato dalle sue condizioni 
individuali e sociali interferenti con il suo agire. 
Concludendo sulla valutazione del sistema giuridico approntato dalla Scuola 
Classica, non possiamo non essere d’accordo con chi ritiene che tale scuola abbia 
posto le basi per un sistema normativo incentrato sul diritto di difesa e sulla 
 9 
 
garanzia delle libertà personali6. Basti pensare ai suoi principi fondamentali: il 
principio di legalità, secondo il quale nessun’azione può essere punita se non 
esplicitamente prevista dalla legge; il principio della non punibilità per analogia, 
il quale esclude la possibilità di punire un’azione non prevista dalla legge facendo 
riferimento ad azioni simili; il principio garantistico, con le norme a salvaguardia 
del diritto di difesa e della presunzione d’innocenza; e infine il principio della 
certezza del diritto, inteso come l’eliminazione di qualsiasi tipo di discrezionalità 
nell’irrogazione della pena7. Tali principi sono, ancora oggi, principi portanti del 
sistema penale degli stati democratici in tutto il mondo.  
1.2 La criminologia positivista e la nascita del criminale 
La concezione del reato quale astratta entità di diritto, tipica della Scuola 
Classica, incominciò ad essere messa in crisi, verso la metà del secolo XIX, dai 
primi studi statistici impiegati per l’approccio scientifico ai fenomeni criminosi: 
questi studi, che possiamo definire sociologici, presero in considerazione 
l’ambiente sociale all’interno del quale l’individuo agisce8. 
Primi precursori di tali studi sociologici furono J. Quételet9 e A.M. Guerry10, i 
quali furono i primi studiosi che utilizzarono i dati statistici e demografici in 
connessione con i dati sui reati commessi e sui loro autori. Fu allora che, per la 
prima volta, venne studiata l’incidenza dei reati in relazione all’età, al sesso, alle 
professioni, al grado d’istruzione, alle condizioni economiche, al ceto, alla razza. 
Tutto ciò consentì l’apertura della strada alla comprensione del delitto anche come 
fenomeno sociale; si affermava in sostanza, con la presenza di costanti e di 
                                                             
6
 Cfr. G. Ponti, op. cit., p. 83 ss. 
7
 V. G. Ponti, op. cit., p. 84. 
8
 Cfr. G. Ponti, op. cit, p.80 ss. 
9
 Lambert-Adolphe-Jaques Quételet (1796-1874) è stato un astronomo e statistico belga. Con la 
pubblicazione, nel 1835, del testo “Sur l’homme et le developpement de ses facultés, essai d’une 
physique sociale” cerca di studiare l’uomo con il calcolo probabilistico, cercando le meccaniche 
che regolano il comportamento fisico, intellettuale e morale dell’uomo medio.  
10
 André-Michel Guerry (1802-1866) giurista francese ed appassionato di statistica, insieme a 
Quételet può essere considerato il fondatore della morale statistique che ha portato allo sviluppo 
della criminologia, della sociologia e delle moderne scienze sociali. 
 10 
 
regolarità statistiche dei delitti, anche una loro qual prevedibilità e quindi si apriva 
la strada ad una percezione del crimine di tipo deterministico. 
Va subito chiarito che la prevedibilità dei delitti era un qualcosa di circoscritto 
nell’ambito di limitati spazi temporali e in condizioni macrosociali stabili: difatti 
in periodi più lunghi, con le radicali trasformazioni del contesto socio-economico 
e politico avutesi durante questi secoli, l’intervento delle mutate condizioni 
ambientali ha di molto ridotto la prevedibilità e la relativa stabilità dei delitti. 
Resta comunque il fatto che da allora il delitto cominciò ad essere inteso come 
fatto sociale, che secondo la concezione di Emile Durkheim “rappresentava 
qualunque sistema o fenomeno che fosse generale in tutte le società di un tipo 
particolare, a un particolare stadio del loro sviluppo. Un fenomeno che 
rispondesse a tali caratteristiche doveva essere considerato come scientificamente 
‘normale’: la normalità era uno stato di fatto, non un giudizio morale o filosofico; 
il fatto sociale non era soltanto un’idea soggettiva: era una cosa esistente di per 
sé, una parte inevitabile del tipo particolare di una struttura sociale”11. 
Anche se la costanza e la prevedibilità dei crimini dovevano successivamente 
essere ridimensionate, e divenire suscettibili di varie deroghe, questo nuovo 
approccio teneva fermo l’assunto che il comportamento criminoso non era più 
esclusivamente riconducibile alla volontà dell’uomo, ma che su di lui agivano 
fattori legati alla società. 
Si andava così delineando un primo importante mutamento nel modo di 
intendere le relazioni causali da porsi alla base del comportamento criminoso, e 
per quanto questi primi indirizzi non arrivarono mai a mettere completamente in 
dubbio il carattere volontaristico delle scelte criminali dell’individuo, veniva 
comunque ritenuto che, ammettendo ancora il principio del libero arbitrio, esso 
non aveva apprezzabili effetti relativamente alla globalità: dove se pur potevano 
essere presenti delle variabili individuali, il fenomeno delittuoso era ritenuto la 
diretta conseguenza di fattori legati all’ambiente, o per meglio dire alla società. 
                                                             
11
 Cfr. E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Paris, Alcan, 1893, tr. It.  Milano, 
Comunità, 1979.