Premessa 
2 
impalcatura estetica; i loro sforzi furono tutti rivolti al tentativo di 
inserire la nuova arte nel vecchio sistema, cercando di porsi il meno 
possibile in contrasto con la tradizione
3
. 
Per buona parte del secolo, dunque, la nuova corrente non rappresentò 
la preoccupazione principale dei difensori dell’ “antico”. Basti pensare  
all’accoglienza riservata a Parigi (capitale del Classicismo) ad un artista 
come Bernini
4
, o alla partecipazione attiva di un pittore come Pietro da 
Cortona alle decisioni dell’Accademia di San Luca
5
. Pur non mancando 
esempi di emarginazione e di condanna, come nei confronti della 
stravaganza di un Borromini
6
, la polemica antibarocca fu successiva. 
Erano altre le correnti che il Classicismo, nella sua tarda formulazione 
secentesca, percepiva come i veri nemici da combattere. Pervenuto ad un 
dominio incontrastato in campo teorico, e a sempre maggiore importanza 
nell’esercizio pratico dell’arte, esso impegnò tutte le sue forze contro due 
tendenze, ritenute capaci di sovvertire dalle fondamenta l’arte classica: 
Manierismo e Naturalismo. 
                                                 
3
 Su questo tema cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Torino, 1979, vol. III, cap. V, pp. 363–
370. 
4
 Cfr. P. Fréart de Chantelou, Journal du voyage du cavalier Bernin en France, Parigi, 1665, ed. a 
cura di L. Lalanne, Parigi, 1981. 
5
 Cfr. Intorno a Poussin. Ideale classico e epopea barocca tra Parigi e Roma, (catalogo della mostra, 
Roma, Accademia di Francia), a cura di O. Bonfait e J. C. Boyer, Roma, 2000, pp. 34–35. 
6
 Cfr. P. Portoghesi, op. cit., cap. VII, p. 162. 
Premessa 
3 
Come osserva lo stesso Panofsky
7
, la posizione dei teorici del 
Seicento, nei confronti del Manierismo, fu per certi aspetti simile a 
quella assunta dai primi esponenti del Rinascimento, nei riguardi 
dell’arte gotica. Come il Villani, l’Alberti, il Vasari avevano visto nel 
Medioevo il periodo in cui la perfezione dell’arte classica era stata 
soppiantata da forme barbare e decadenti, così, anche la storiografia del 
secolo XVII individuava nell’epoca che l’aveva preceduta un’età di 
tremendo declino. 
La critica mossa ad entrambi questi periodi di decadenza era 
sostanzialmente la stessa: l’aver privilegiato l’imitazione della “maniera” 
dei grandi maestri a discapito dello studio della natura, l’aver 
essenzialmente perso ogni contatto con il reale, dando vita a forme 
chimeriche
8
. 
Tuttavia c’era un aspetto per cui la posizione dei critici rinascimentali 
si distingueva da quella dei classicisti del Seicento. I primi infatti 
identificavano il bello con il vero: quanto più un’opera d’arte era una 
riproduzione fedele della realtà, tanto più era perfetta. E, sebbene un 
artista come Raffaello fosse giunto ad affermare che egli produceva i 
propri capolavori seguendo “una certa idea che alberga nell’animo 
                                                 
7
 Cfr. E. Panofsky, op. cit., pp. 77–85. 
8
 Ibidem. 
Premessa 
4 
umano”
9
, nessuno, neanche lui, poteva pensare che un’opera d’arte 
potesse prescindere dal rispecchiare fedelmente la realtà. 
La posizione degli autori del Seicento era sotto quest’aspetto 
differente: essi non mettevano in guardia gli artisti soltanto dal 
“dipingere di maniera”, ma condannavano, con non minore energia, la 
tendenza opposta, quella caravaggesca. Ai loro occhi appariva 
biasimevole un’imitazione della natura priva di ogni tipo di selezione; 
assoggettarsi a tutti gli aspetti della realtà senza operare una scelta, o 
senza cercare di nobilitare la realtà stessa, sembrava un atto puramente 
meccanico e privo di ogni inventiva. 
Se quindi gli uomini del Rinascimento avevano dovuto combattere un 
solo tipo di deviazione artistica, l’allontanamento dal vero naturale, per i 
critici del Seicento la battaglia aveva due fronti: opporsi tenacemente 
allo straniamento dalla realtà generato dal Manierismo, e allo stesso 
tempo guardarsi dal non cadere nell’esaltazione dell’estremo opposto,                   
un’imitazione troppo fedele della natura
10
. 
L’impresa risultava particolarmente difficile, in quanto ci si scontrava 
non solo con una forma d’arte ormai al suo tramonto, quella 
manieristica, ma perché si lottava anche contro una tendenza giovane e 
vitale come il Naturalismo. 
                                                 
9
 Ivi, p. XIII. 
10
 Cfr. E. Panofsky, op. cit., pp. 77-85.   
Premessa 
5 
La soluzione era una sola e la salvezza dell’arte stava nel giusto 
mezzo tra i due estremi. Di questo giusto mezzo l’arte dell’antichità 
appariva l’esempio più opportuno, in quanto, pur non essendo 
“naturalistica”, proprio perché si atteneva a quei canoni di selezione di 
una realtà nobilitata e purificata, risultava in un certo senso davvero 
“naturale”
11
. 
Su questo punto tutti i trattatisti del XVII secolo, dal Dufresnoy al 
Bellori, dal Félibien al de Chambray, sembrano esser stati d’accordo, pur 
nella diversità dei modi con cui hanno affrontato lo stesso tema. 
In tutti, ugualmente, è riscontrabile il carattere particolarmente 
polemico e normativo della concezione estetica classicistica, che nel 
Seicento, proprio attraverso  questa duplice lotta contro la “maniera” e 
contro il Naturalismo, giunse alla consapevolezza di sé. 
 
                                                 
11
 Ivi, p.79. 
  
Capitolo I 
Charles Alphonse Dufresnoy 
Charles Alphonse Dufresnoy 
7 
Charles  Alphonse  Dufresnoy 
(Parigi, 1611 – Villiers-le-Bel, 1668) 
 
 
Cenni  biografici 
 
igura di spicco, all’interno del panorama artistico-culturale della 
prima metà del secolo, è quella di Charles Alphonse Dufresnoy, 
pittore e teorico a un tempo. 
Nato a Parigi nel 1611, fu destinato dal padre farmacista alla carriera 
di medico; imparò il latino e il greco, ma scelse di abbandonare gli studi 
all’età di vent’anni, per dedicarsi alla pittura. Ebbe come maestri 
Francois Perrier, famoso disegnatore, e Simon Vouet, a quei tempi primo 
pittore parigino e, in seguito, principale antagonista di Poussin. 
A bottega da Vouet, probabilmente conobbe Pierre Mignard, suo 
coetaneo, ed il giovanissimo Charles le Brun, successivo dominatore 
della scena artistica francese. 
Nel 1634, contro il parere dei genitori, decise di partire per Roma, 
dove, un anno dopo, lo raggiunse il suo inseparabile amico Mignard. 
Come molti giovani artisti francesi, Charles Alphonse vi si recò ansioso 
F 
Charles Alphonse Dufresnoy 
8 
di vedere di persona i capolavori antichi e moderni, di cui in Francia 
giungevano echi sempre più numerosi. 
Nulla sappiamo dei disegni di rovine o delle prospettive di edifici 
antichi che egli poté dipingere appena arrivato nella città eterna, né ci 
sono giunte le copie fatte a Palazzo Farnese per il cardinale di Lione, 
Alphonse Luis du Plessis, ambasciatore a Roma nel 1635 e fratello di 
Richelieu; fatto sta che  l’ “antico” e l’idea che di esso veniva fuori dalle 
opere dei maestri italiani dovettero esercitare sul giovane Dufresnoy un 
fascino senza paragoni
1
. 
Tuttavia le opere classiche non furono mai per il nostro autore oggetto 
di ammirazione assoluta e rigida, idolatra insomma, come sarebbe 
diventata un secolo dopo, ma percepite sempre come un modello di 
ritorno alla natura, una natura resa leggibile perché emendata da ogni 
imperfezione. In questo senso, la languida pittura manierista della Parigi 
di quegli anni, altro non poteva che invitare ad andarsene. 
Contropartita pratica di questa febbrile passione per l’ “antico” fu per 
Dufresnoy non solo la prassi pittorica, ma anche la sistematica 
elaborazione di un’estetica classicistica. Difatti egli accompagnò sempre 
il suo mestiere di pittore a quello di teorico, tanto da divenire una figura 
                                                 
1
 Per maggiori informazioni sulla vita di Charles Alphonse Dufresnoy cfr. Intorno a Poussin. Ideale 
classico e epopea barocca tra Parigi e Roma, (catalogo della mostra, Roma, Accademia di Francia), a 
cura di O. Bonfait e J. C. Boyer, Roma, 2000. 
Charles Alphonse Dufresnoy 
9 
di riferimento per la comunità di artisti francesi attivi a Roma negli stessi 
anni
2
. 
Così, grazie anche ad una formazione di tipo eclettico, che 
comprendeva la conoscenza dei classici latini, Dufresnoy diede avvio nel 
1640, all’età di ventinove anni, al suo trattato di pittura in versi, il De 
arte graphica. 
Fortemente ispirato all’Ars poetica di Orazio, l’opera era già in gran 
parte abbozzata in francese nel 1649, costituendo così il primo esempio 
di letteratura artistica in Francia (precede infatti sia gli Entretiens di 
Félibien, pubblicati nel 1660, sia l’Idée de la perfection de la peinture di 
Roland Fréart de Chambray, data alle stampe nel 1661). 
La stesura definitiva del piccolo poema in versi latini fu pubblicata nel 
1668, anno di morte dell’autore, grazie all’interessamento del suo amico 
Pierre Mignard, che la corredò di qualche nota esplicativa. L’anno 
successivo, per iniziativa del giovane Roger de Piles,  l’opera fu tradotta 
in francese e commentata passo per passo. Da allora in poi la fortuna del 
trattatello, presso il pubblico degli intenditori, ne permise le traduzioni in 
italiano, tedesco, olandese e inglese (famose restano le versioni del 
Dryden nel 1695 e del Reynolds nel 1783). 
                                                 
2
 Ivi, p. 12.