II
frammenti qui presi in considerazione, immagine e musica si nobilitano a vicenda e le canzoni 
non possono essere liquidate come strizzatine d’occhio a particolari fasce di pubblico. 
 
Certo pensare ad un rapporto così specifico tra il pop, il rock, il jazz e il cinema significa 
anche escludere automaticamente un determinato genere di film. 
Quando si pensa al cinema e alle canzoni vengono in mente Ich bin ein von Kopf bis Fuss auf 
Liebe eingestellt in Der Blaue Engel (Gemania, 1930) di Von Sternberg, Singing in the Rain 
nel film omonimo (USA, 1952) di Stanley Donen, Born to be Wild in Easy Rider (USA, 
1969) di Dennis Hopper. 
Questo vuol dire sostanzialmente che la canzone da una parte è considerata come la “canzone 
del film”
2
, nel caso in cui i “brani si “distaccano” dall’aneddoto per aderire al film, da cui 
diventano inseparabili nella memoria collettiva.”
3
. 
Dall’altra la canzone sembra essere un ingrediente obbligatorio per film generazionali, ribelli 
o nostalgici che siano. 
A mio modo di vedere queste sono entrambe categorie in qualche modo restrittive: la prima 
riguarda più il culto del film che il film stesso e sarebbe di utile applicazione in un ipotetico 
saggio sulle edizioni in cd delle colonne sonore
4
; la seconda, se vale per film come American 
Graffiti (USA, 1973) di George Lucas o The Big Chill (USA, 1984) di Lawrence Kasdan, mi 
pare in larga parte inadeguata per i film che prenderò in esame. 
Per un motivo simile ho preferito escludere dal discorso anche alcuni generi cinematografici 
                                                          
2
 Metz C., L’enunciazione impersonale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995, p.172. 
3
 Ibid., p.173. 
4
 La colonna sonora su cd è diventata una forma forte di riverberazione del film: un modo per riviverlo senza rivederlo. Forse 
questa è una delle tante conseguenze della disponibilità dei film su videocassetta. La possibilità di potere rivedere un film 
in qualsiasi momento paradossalmente spinge ad altre forme di consumo, che si staccano dalla visione per riscivolare nel 
ricordo. 
 III
la cui presenza sembrerebbe invece scontata, come la biografia filmata del cantante
5
 o il 
documentario rock
6
. 
La scelta è in parte dovuta alla convinzione che “la vera novità è l’uso di canzoni in film non 
prettamente musicali”
7
, dall’altra allo scarso interesse di chi scrive per questo tipo di film: 
credo francamente che la messa in scena della figura del musicista, e in genere dell’artista, 
serva spesso solo a produrre un altro po’ di kitsch cinematografico
8
. 
Anche i film in cui l’uso delle canzoni è prevalentemente nostalgico, sono il più delle volte di 
scarso interesse per quanto riguarda l’argomento di questo lavoro, perché sfruttano soprattutto 
la funzione più banale e gratuita del brano musicale, cioè arredare una storia con i successi da 
classifica di determinati anni o determinati ambienti. 
 
 
                                                          
5
 Vedi su questo punto Romney J. (A cura di), Celluloid jukebox, British Film Institute, London, 1995, pp.20-31. 
6
 Ibid., pp.82-93. 
7
 Castaldo G., Cinema e canzoni, in Sapore di sala, La casa Usher, Firenze, 1990, p.85. 
8
 Sull’argomento vedi Eisner L.H., Il kitsch cinematografico, in Dorfles G., Il Kitsch, Mazzotta, Milano, [5° edizione] 1990, 
pp.197-215. 
 IV
2.  L’Anno dello Scorpione: (Quasi) un Film all’Anno. 
 
Il rapporto tra cinema e canzone in altri casi, può essere molto meno scontato: le colonne 
sonore di Casino (USA, 1995) e Natural Born Killers (USA, 1994), film emblematici per 
quel che riguarda l’idea di fondo di questa tesi, ad esempio rivelano una costruzione 
elaborata che si integra produttivamente e coerentemente con il progetto generale del film. 
Le opere di Stone e Scorsese sono quelle che più di altre prefigurano un nuovo modello di 
cinema audiovisivo, influenzato anche a livello macrostrutturale dall’onnipresenza delle 
canzoni e della musica. 
Sono inoltre le più “resistenti” a qualsiasi tentativo d’interpretazione stabile: è già un 
problema individuare, collocare e dare un nome ai vari interventi musicali (alcuni dei quali 
durano solo pochi secondi). 
Casino e Natural Born Killers sono dunque, a livello operativo, i film-guida di questo 
lavoro (anche se lo spazio ad essi dedicato è diseguale): la loro analisi è stata una vera e 
propria “palestra” che ha indicato il percorso d’indagine anche degli altri film protagonisti 
di questa tesi, tutti prodotti negli USA tra il 1986 e il 1996: Blue Velvet, Wild at Heart e 
Lost Highway di David Lynch, The Bad Lieutenant di Abel Ferrara, Reservoir Dogs di 
Quentin Tarantino, Heat di Michael Mann. Ad altri film mi riferisco sporadicamente (Pulp 
Fiction di Quentin Tarantino, Goodfellas di Martin Scorsese) ma sulla scorta delle 
riflessioni ricavate dall’analisi di questo gruppo principale. 
 
Oltre ad una sensibilità talvolta sorprendente per le canzoni, questi film hanno altri punti in 
comune che ne fanno un corpus compatto. 
Tutti tendono a rivisitare e a mischiare i generi cinematografici (noir, roadmovie, gangster 
movie, ecc.) in varie modalità; due di questi (Wild at Heart e NBK) rinverdiscono il mito 
 V
on the road della coppia fuorilegge di film come Bonnie & Clyde, Honeymoon killers e 
Badlands
9
; i film dei due italo-americani, Ferrara e Scorsese, hanno in più in comune un 
discorso etico-religioso che sia nell’uno che nell’altro si concretizza spesso in una sorta di 
discesa all’inferno dei personaggi messi in scena. 
 
Altri punti di contatto tra i film citati potrebbero essere ricercati nel cast (Robert DeNiro, 
Dennis Hopper e Harvey Keitel sono ad esempio presenti in due film ciascuno) o nella troupe 
(Tony Richardson, il direttore della fotografia di NBK, lo è anche di Casino), ma almeno per 
adesso conviene non insistere troppo su una omogeneità che potrà emergere in seguito, dati 
alla mano. 
 
Non mi rimane che impaginare la copertina ideale di questa tesi, il film che meriterebbe di 
essere incluso come capolista: Scorpio Rising (USA, 1963). 
Il film di Kenneth Anger è stato il primo di cui non si è potuto parlare senza prendere in 
considerazione le canzoni di accompagnamento
10
, inoltre è probabilmente molto amato dalla 
generazione di autori
11
 da me presi in esame. 
Non deve sorprendere il paragone tra un film underground e una serie di film dopotutto di 
cassetta: il cinema mainstream (e questa definizione non è del tutto esatta per i titoli qui presi 
in esame) spesso si rinnova inglobando al suo interno le intuizioni del cinema d’avanguardia. 
                                                          
9
 Vedi Kinder M., Il ritorno della coppia fuorilegge in Hollywood Cinema 1969-1979: cinema, cultura, società, Mostra 
internazionale del nuovo cinema di Pesaro, Marsilio, Bologna, 1979, pp.150-165. 
10
 Cfr. con Wees C., Light Moving in Time, Studies in the Visual Aesthetics of Avant-Garde Film, University of California 
Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, 1992, pp.111-113; Vedi anche Romney (A cura di), Celluloid jukebox, British Film 
Institute, London, 1995, pp.44-52. 
11
 Ad esempio Martin Scorsese ha più volte ricordato questa influenza. Vedi: Sans la musique, je serais perdu, “Cahiérs du 
Cinéma”, numero special musique, n.404, p.15. 
 VI
Nel nostro caso Scorsese, Lynch, Ferrara sono dei novelli Kenneth Anger, che associano 
canzoni dal suono familiare a situazioni del tutto impreviste. 
L’interesse di questa tesi consiste nel capire perché film come Casino, Natural Born Killers o 
Lost Highway devono parte del loro fascino a questo attrito semantico. 
 
Il percorso d’indagine, dopo una breve premessa sul metodo d’analisi, si occupa del rapporto 
tra canzone e struttura drammatica del film, da due punti di vista quasi opposti: nella prima 
parte del capitolo è presa in considerazione l’articolazione emotiva della sequenza tramite il 
montaggio delle canzoni, mentre nella seconda parte è esaminato l’uso dei brani musicali 
come frammenti informativi e discorsivi della narrazione. 
Nel terzo e nel quarto capitolo si parla di due funzioni quasi classiche della musica da film: la 
funzione di commento e l’uso della musica per esprimere l’interiorità del personaggio. 
Nell’ultimo capitolo infine, prima di concludere, si indicano altri percorsi d’indagine sulla 
canzone e la musica da film. 
Prima di iniziare la discussione, premetto ancora due cose. 
La prima premessa è di tipo operativo e riguarda la visione dei film in lingua originale: in 
questo lavoro è stata utile non tanto per esigenze “filologiche” (vista anche l’attualità dei film 
trattati) quanto per non sfalsare la percezione uditiva dei vari equilibri sonori. Nelle versioni 
doppiate infatti, la naturale attrazione verso la lingua madre (e quindi verso dialoghi e voci 
over dei personaggi) altera ingiustamente l’importanza delle voci cantanti. 
 
La seconda premessa riguarda la “posta in gioco”: il rapporto tra film e canzone è una 
interazione ad alto rischio: il rischio di fidarsi troppo del brano musicale e poco delle 
immagini
12
; il rischio di compilare antologie da edicola o al massimo da classifica (vedi film 
                                                          
12
 Si pensi ad esempio all’uso scriteriato che in troppi film si fa di una canzone stupenda come What a Wonderful World. 
 VII
come Forrest Gump o Batman Forever); il rischio di rivolgersi a target di pubblico troppo 
ristretti
13
; senza dimenticare il rischio che le canzoni possono semplicemente essere 
deprimenti e che un loro utilizzo in contrasto con le immagini o parodico non sempre è 
sufficiente a riscattarle. Da parte mia posso solo sperare di imbattermi il meno possibile in 
casi del genere. 
                                                          
13
 Un film fondamentale per l’avvento della canzone al cinema, Easy Rider di Dennis Hopper aveva sicuramente anche 
questo intento. 
  
 
 
 
 
UNA VOCE CHE NON VEDE 
 
 2
1. Orecchie Tagliate. 
 
Una banda di criminali ha in parte fallito una rapina: forse tra loro c’è un traditore. I sei componenti, 
ognuno dei quali ha come nome in codice un colore, si sono rifugiati in un magazzino. Con loro 
hanno un poliziotto come ostaggio. 
Mr. Blonde, rimasto solo nel rifugio, comincia a torturarlo (non senza aver prima sintonizzato la 
radio sul suo programma musicale preferito). Con un rasoio gli taglia un orecchio che usa come un 
telefono cellulare
1
 e mormora nell’improvvisata trasmittente: “Pronto, pronto, mi senti...Per te è 
stato bello come per me ?”, dopodiché getta via l’orecchio. 
 
Il giovane Jeffrey Beaumont passeggia su di un prato, vede qualcosa, lo prende in mano: è un 
orecchio umano mozzato, in decomposizione, già invaso da una colonia di formiche. 
 
I due frammenti, tratti rispettivamente da Reservoir Dogs (Usa, 1994) e Blue Velvet (USA, 
1986), così giustapposti sembrano mettere in scena una citazione deviante di Un chien 
andalou (Francia, 1926). 
Se in Buñuel era la vista ad essere profanata, in Lynch e Tarantino è invece l’udito ad essere 
aggredito. 
Le intenzioni certo sono diverse: il secondo ricerca un effetto di humour nero in una stasi 
narrativa e non sembra inseguire un senso programmatico o metacinematografico. 
Il ritrovamento dell’orecchio in Blue Velvet invece   senza avere la stessa forza 
scandalistica e rivoluzionaria del gesto irripetibile di Buñuel — esprime una vera e propria 
poetica lynchana del sonoro. 
Il regista americano ha spesso affermato di sentirsi più fonico che regista
2
 e a proposito del 
film in questione ha dichiarato che all’inizio doveva esserci un orecchio «perché è 
                                                          
1
 La metafora è di U.Mosca, Prima ballo poi ti ammazzo, “Garage”, N.6, febbraio 1996, p.119. 
2
 “People call me a director but I really think of myself as a soundman”. Frase riportata da Chion, David Lynch, 
Lindau, Torino, 1995, p.212. Affermazione quasi paradossale per un regista che ha iniziato la sua carriera artistica 
come pittore. D’altra parte da Kandinski in poi la storia delle immagini abbonda di riferimenti alla musica come 
ispirazione primaria. 
 3
un’apertura. Un orecchio è ampio e ci si può scivolare dentro»
3
. L’orecchio come ingresso e 
inabissamento nella finzione dunque, ma non solo. 
In questo caso l’orecchio è anche «un luogo di passaggio, il simbolo della comunicazione 
tra i mondi. Con esso viene trasmesso il dono di passare attraverso la superficie e di 
viaggiare tra i mondi»
4
. 
L’udito è cioè lo strumento d’iniziazione a realtà parallele, tema come si sa molto caro a 
Lynch. 
L’orecchio per il regista americano sembra un orifizio erotico e accogliente, quasi un 
contraltare dell’occhio buñueliano, tanto occluso e cieco alla morbosa verità del desiderio, 
da giustificare l’aggressione rivelatrice da parte del cineasta. 
È vero, anche all’inizio di Velluto Blu c’è un taglio: qualcun altro ha compiuto il gesto 
violento al posto di Jeffrey. Nonostante questo il destino simbolico dell’orecchio rimane 
diverso dal carattere di rivelazione insito nell’apertura forzata dell’occhio: «l’orecchio non 
ha palpebre. Quando andiamo a dormire, la percezione del suono è l’ultima porta a 
chiudersi ed è la prima ad aprirsi al nostro risveglio»
5
. 
In virtù di questa permanente disponibilità, non si dovrebbe essere timorosi nell’indagare 
l’ascolto, davanti a noi si spalanca una nuova avventura del senso. 
Stranamente questa soglia così attraente ha attirato poco gli studiosi di cinema: come ha 
giustamente osservato Michel Chion, il cinema è sonoro da più di sessant’anni eppure si 
stenta ad attribuire all’ascolto lo stesso valore della visione. 
Questa mancanza appare ancor più grave se si pensa a quanto sia diversa l’esperienza 
effettiva in sala: l’ascolto è già sullo stesso livello della visione perché i due sensi si 
integrano naturalmente: «non si “vede” la stessa cosa quando si sente; non si “sente” la 
                                                          
3
 Rodley C., Lynch su Lynch, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p.195. 
4
 Chion M., David Lynch, cit., 212. 
5
 Schafer R.M., Il paesaggio sonoro, Unicopli-Ricordi, Milano, 1985, p.24. 
 4
stessa cosa quando si vede»
6
; «gli elementi sonori del film (...) non sono presi in un blocco 
autonomo; tali elementi sonori vengono immediatamente analizzati e ripartiti nella 
percezione dello spettatore in base al rapporto che stabiliscono con le immagini viste via via 
dallo spettatore»
7
. 
 
Quest’assunto rappresenta il presupposto essenziale per la riuscita di questo lavoro che è 
dedicato ad una componente ben specifica che però, vedremo, tende ad annullare i confini 
con gli altri elementi sonori: la canzone, che è allo stesso tempo musica, parola e rumore. 
 
 
2.A Singer Must Die. 
 
I thank you , I thank you / For doing your duty / You keepers of truth 
/ You guardians of beauty / Your vision is right / My vision is wrong / 
I’m sorry for smudging / the air with my song
8
 
Quando alla conferenza stampa di un festival alcuni critici mi chiesero di 
che si trattasse in realtà il film, risposi: “è sulla canzone All along the 
watchtower, e il film è su ciò che succede o che cambia a seconda che la 
canzone sia cantata da Bob Dylan o da Jimi Hendrix.”
9
 
 
Nonostante il buon numero di studi dedicati alla musica da film, poco o nulla si è parlato 
                                                          
6
 Chion M., L’audiovision, Nathan, Paris, 1994. [trad. it. L’audiovisione, Lindau, Torino, 1997, p.7]. 
7
 Chion M., La voix au cinéma, Cahiérs du Cinéma, Editions de l’Etoile, Paris, 1981. [trad.it. La voce al cinema, 
Pratiche, Parma, 1991,.p.13]. 
8
 Versi tratti da A Singer Must Die di Leonard Cohen: Vi ringrazio \ perché fate il vostro dovere \ voi, depositari della 
verità \ voi, guardiani della bellezza \ voi la vedete alla giusta maniera \ io in quella sbagliata \ mi dispiace solo di 
imbrattare \ l’aria con la mia canzone. 
9
 Wenders W., L’Idea di partenza, scritti di cinema e musica, Liberoscambio, Firenze, 1983, p.124. 
 5
delle canzoni
10
. 
Questa disattenzione verso le canzoni al cinema ha una motivazione doppia e paradossale: 
per anni la stessa musica da film è stata guardata con sospetto dai musicologi, poi quando 
finalmente qualcuno competente in materia ha cominciato ad occuparsene, ha accordato 
solo un ruolo secondario (o addirittura nullo) alla canzone
11
, assumendo in definitiva lo 
stesso atteggiamento dei suoi stessi detrattori. Da una parte la musica, dall’altra la popular 
music. Prima di approfondire i motivi di questo paradosso, conviene però precisare il senso 
di questi termini che possono sembrare vaghi. 
 
Cosa intendo per canzone, cosa intendo per popular music? 
La canzone è la forma canonica di una musica che con etichette ormai imbarazzanti si 
definisce “leggera”, “popolare”, “di consumo”; tutti questi termini hanno connotazioni 
dispregiative che non le rendono giustizia. 
A mio parere il rock e il jazz (anch’esso in origine liquidato come popolare dai benpensanti 
musicali) ha contribuito a colmare un vuoto evidente lasciato dalla musica colta nel 
dopoguerra: da Darmstadt
12
 in poi ha osservato Guy Scarpetta «le invenzioni di Schönberg 
o di Webern furono accentuate più sotto il profilo di quello che potevano proibire che di 
quello che suggerivano. Ma l’aspetto più inquietante (...) risiede nel fatto che la fuoriuscita 
da questo avanguardismo sembra suscitare (...) più un tentativo regressivo (il tentativo di 
dimenticare i viennesi, di “tornare a prima” o di “passare accanto”) che una ripresa 
dell’innovazione»
13
. Uno degli indizi più evidenti di questa crisi dell’invenzione musicale è 
                                                          
10
 Vedi la bibliografia alla voce apposita. 
11
 Vedi la bibliografia alla voce apposita. 
12
 Si intende qui riferirsi alla scuola che fa capo a Boulez, Stockhausen e Nono, carartterizzata (soprattutto per  
quanto riguarda Boulez) dall’applicazione del principio dodecafonico anche a timbro, ritmo e durata. 
13
 Scarpetta G., L’impuro, il Saggiatore, Milano, 1985, pp.53-58. 
 6
dato dal fatto che il dibattito più “rovente” che oggi agita l’ambiente musicale «verte più 
sull’interpretazione...che sulla creazione»
14
: si dedica più spazio alla filologia dello spartito 
che alla composizione di nuove opere. 
 
Certo la posizione di Scarpetta e di chi scrive è volutamente esagerata; non sono certo 
mancati i grandi maestri nella musica contemporanea: Berio, Penderecki, Ligeti e altri non 
sono certo artisti che si possono liquidare con quanto detto finora. Resta il fatto però che il 
pubblico e la critica tendono a frequentare più i compositori del periodo classico-romantico 
che le ricerche più attuali e vicine alla sensibilità artistica del ‘900: la maggior parte dei saggi 
e dei concerti sono operazioni “archeologiche” che sparirebbero senza il supporto 
economico dello stato, mentre i suoni che l’ascoltatore “vive” quotidianamente sono 
ingiustamente ignorati. 
 
Come avviene da tempo negli studi sul cinema, bisognerebbe anche nella musica, usare più 
cautela prima di decretare cos’è “autoriale” e cos’è invece un prodotto “di consumo”. 
Esiste un critico o un docente di cinema che si sognerebbe mai di fare due storie separate, 
una per i registi che hanno studiato cinema e una per chi semplicemente l’ha fatto? Bene 
nella storia e nella critica musicale questa è la prassi. 
 
A questa paralisi della musica colta (che, come ho precisato, è dovuta più agli studiosi che ai 
compositori, i quali al contrario sono spesso interessati alla popular music
15
) ha risposto la 
dinamicità e la semplicità compositiva della musica popolare. Il blues e tutte le sue filiazioni 
hanno saputo rinnovarsi miracolosamente a partire sempre dalla stesse semplici strutture 
melodiche e ritmiche. 
                                                          
14
 Ibid., p.56. 
15
 Famosa ad esempio l’adozione da parte di Stravinskji di alcuni moduli della musica jazz. 
 7
La rivalutazione di queste forme d’espressione come tutte le rivalutazioni passa prima di 
tutto attraverso l’adozione di una nuova etichetta che faccia piazza pulita delle connotazioni 
di etnicità, oralità, semplicità che inficiano le definizioni correnti. 
A questo proposito la soluzione più sbrigativa è cambiare lingua. Nell’area anglosassone per 
POPULAR MUSIC si intende il rock, il pop, le sigle televisive, le colonne sonore, «dal punk e 
dalla musica leggera alle sonorità weberniane della musica degli assassini nei gialli 
televisivi»
16
. 
Philipp Tagg ha proposto uno schema (riportato a p.12) per delimitarne il campo 
socioculturale
17
. La popular music per lo studioso svedese è dunque un prodotto di massa, 
tipico delle società industriali, fatta principalmente da professionisti
18
, il cui oggetto di 
distribuzione è costituito da un supporto registrato. 
Quest’ultimo tratto costitutivo è il più importante: nella popular music il momento 
fondante della composizione è l’esecuzione, intendendo con questo termine non il semplice 
suonare ma un complesso di passaggi operativi. 
La copia originale non è uno spartito scritto da un compositore da solo al pianoforte ma 
una registrazione effettuata in studio, chiamata in gergo master, che è il risultato del 
confronto tra due personalità sonore: da una parte uno o più strumentisti e\o cantanti, 
dall’altra il produttore. 
Entrambi i soggetti in gioco sono alla ricerca del cosiddetto SOUND, «l’impatto sonoro di 
un brano, di un musicista, di uno stile (...) di solito riconoscibile immediatamente, (...) è il 
risultato di un processo manipolatorio sviluppato principalmente in sala di registrazione»
19
. 
                                                          
16
 Tagg P., Da Kojak al rave, CLUEB, Bologna, 1994, p.55. 
17
 Ibid., p.48. 
18
 Io avrei aggiunto che la popular music il più delle volte è suonata da band di pochi componenti, mentre la musica 
classica nella sua massima espressione è eseguita da orchestre di decine di elementi. 
19
 Tagg P., cit., p.49 (nota). 
 8
Questa ed altre dimensioni importanti della popular music non possono essere espresse 
dalla notazione tradizionale. 
Il testo della popular music deve essere considerato qualcosa che sta perennemente a metà 
tra l’esecuzione e la registrazione, gli LP live stanno lì a dimostrarlo: nonostante siano 
registrati durante uno o più concerti dal vivo, sono album che comunque assumono la 
forma definitiva in studio attraverso raffinate cernite e rimasterizzazioni delle versioni di un 
brano (nonché accurati dosaggi del volume del pubblico). 
Nella popular music, in pratica, il supporto registrato è l’originale e il concerto è la copia: in 
definitiva, il secondo serve a promuovere le vendite del primo. 
L’anima commerciale della popular music fa si che sia disprezzata per l’eccessiva 
recepibilità: visto che la maggior parte delle canzoni si rifà a schemi collaudati si 
presuppone che tutta la musica leggera sia una melodica banalità in 4\4 e che chiunque 
venga dalla vera musica sarebbe in grado di comporre Like a Rolling Stone in cinque minuti. 
Non voglio semplicemente affermare il contrario; chi disprezza il pop, il rock  non il jazz 
che nata come musica popolare da club è ormai materia di studio universitaria  potrebbe 
aver ragione: la sua percezione della popular music è probabilmente affollata da 
eserciti di Take That, Hanson e Backstreet Boys, Shirley Temple musicali con una carriera 
lunga quanto la vita dei moscerini. 
Ma aldilà di questa sorta di pedofilia da hit parade c’è tutto un universo eterogeneo e 
frammentato in generi e sottogeneri in cui è difficile orientarsi anche per un esperto. 
Questo per dire che la sottovalutazione della popular music dipende più spesso da cecità 
preventiva che da sordità dogmatica: se i benpensanti musicali aprissero gli occhi, oltre alle 
orecchie, scoprirebbero che Philip Glass, Michael Nyman, Meredith Monk, Laurie 
Anderson, Ute Lemper (e l’elenco di artisti, di solito considerati tutt’altro che popolari 
potrebbe continuare per pagine) fanno parte della popular music. Non vorremo per caso 
negarne le qualità solo perché nei negozi i loro cd stanno affianco di quelli di Madonna?