2
geografico e statistico. Il primo è appunto legato alla possibilità 
di intraprendere politiche che favoriscono territori con 
specifiche problematiche: se per esempio l’autorità governativa 
intende creare occupazione in una determinata zona è 
importante che sia un’area dove i posti di lavoro vengono 
assorbiti dai residenti, per evitare che vengano occupati da 
lavoratori, pendolari, provenienti da altre aree. La significatività 
statistica, invece, riguarda la capacità, delle ripartizioni 
territoriali, di essere idonei a formulare dati statistici, come, per 
esempio, indici di disoccupazione locale
3
. 
La procedura di classificazione può avvenire in diversi 
modi. S.Zani (1980) individua tre modalità principali: 
- le zone omogenee; 
- le zone nodali o polarizzate e quelle di gravitazione 
o di attrazione; 
- le zone integrate o polifunzionali
4
.   
 
Classificazione per zone omogenee 
Le aree identificate con questa procedura rappresentano 
aggregazioni di unità con caratteristiche simili, tali da 
necessitare gli stessi interventi. Classico esempio è la 
ripartizione che differenzia le aree urbane da quelle rurali. 
                                                 
3
 ISTAT-IRPET I mercati locali del lavoro (a cura di Fabio Sforzi). Franco Angeli. Milano. 1989 
Pag. 38 
4
 Si veda A. Merlini: problematiche di distrettualizzazione. Pag 350 Astac 
 3
Classificazione per zone nodali o polarizzate e di 
gravitazione o di attrazione 
La seconda modalità classificatrice sfrutta indicatori di 
movimento o spostamento (matrici di pendolarismo, origine-
destinazione) per individuare se esiste una particolare area che 
esercita un grado di attrazione sul territorio limitrofo e quindi 
assume la fisionomia di centro o nodo. La parola chiave è 
autocontenimento cioè la capacità del territorio di comprendere 
al proprio interno il massimo numero di interazioni che 
sussistono fra gli elementi che lo costituiscono, delineandone i 
confini
5
. I Sistemi Locali del Lavoro ne rappresentano l’esempio 
più attuale; l’ISTAT ha recentemente pubblicato i 686 SLL 
italiani identificati sulla base della configurazione geografica 
degli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro (Sforzi, 1997). 
Questi sono generati mediante l’utilizzo della matrice di 
pendolarità (di dimensione 8100 x 8100) fornita dai dati del 14° 
Censimento generale della popolazione (2001)
6
. 
 
Classificazione per zone integrate o polifunzionali   
Le zone integrate o polifunzionali rappresentano ulteriori 
aggregazioni di unità territoriali confinanti che presentano un 
certo grado di sviluppo industriale (distretti industriali) o di 
                                                 
5
 ISTAT-IRPET I mercati locali del lavoro (a cura di Fabio Sforzi). Franco Angeli. Milano. 1989 
Capitolo I, pag. 17. 
6
 ISTAT. I Sistemi locali del Lavoro Censimento 2001. Dati definitivi, 21 luglio 2005. Pag. 1 
consultabile presso il sito: http://censimenti.istat.it  
 4
interazione socio-culturale (aree metropolitane)
7
. Lo sviluppo 
del ‘made in italy’ in campo internazionale ha sollevato 
l’esigenza pratica di identificare quelle zone che presentano 
specificità produttive a livello locale
8
. Il problema si sposta, 
dunque, su come identificare i distretti industriali. L’ISTAT 
distingue alcuni SLL (definendoli appunto Sistemi Locali 
manifatturieri) sulla base dell’incidenza dell’occupazione in un 
particolare settore manifatturiero locale, rispetto il dato 
nazionale
9
. L’importanza assunta dai distretti industriali 
enfatizzata dalla globalizzazione, e la necessità di individuarli, 
ha anche spinto il legislatore a regolamentare queste realtà 
produttive (Merlini). In base all’articolo 36 della Legge 317/91 
sono Distretti industriali “le aree territoriali locali caratterizzate 
da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare 
riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la 
popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva 
dell’insieme delle imprese”. Successivamente il Decreto 21 
aprile 1993 ha diffuso i parametri e le soglie per determinare i 
                                                 
7
 Si veda A. Merlini: problematiche di distrettualizzazione. Pag 350 Astac 
8
 Fiorenzo Ferlaino; Spazi semantici, partizioni e reti: riflessioni sulla geografia amministrativa 
regionale. W.P. 140/2000. Ires 
 5
distretti industriali definiti dalla Legge 317/91. L’unità di 
riferimento, indicato dal decreto, non è più il comune ma il SLL 
identificati dall’ISTAT sulla base del Censimento del 1981. 
 
La differenza tra il primo e il secondo approccio è 
sensibile. Con l’analisi per aree omogenee dividiamo il territorio 
in zone che presentano caratteristiche (in termini di reddito o 
densità o livello d’istruzione…) simili, senza che queste abbiano 
interazioni particolari. Prendiamo per esempio due comuni, uno 
nel Nord Italia e uno nel Meridione, che sono entrambi urbani: 
questi possono ricevere stessi interventi pubblici, essere 
considerati omogenei ma non avere nessun rapporto economico-
sociale. Con la seconda metodologia interviene il concetto di 
contiguità cioè la presenza di relazioni tra aree limitrofe. 
Le fig.1 e 2 schematizzano le due differenti metodologie. 
 
                                                                                                                                     
9
 ISTAT. I Sistemi Locali del Lavoro Censimento 2001. Dati definitivi, 21 luglio 2005. I Sistemi 
Locali manifatturieri consultabile presso il sito: http://censimenti.istat.it 
 6
I capitoli successivi analizzano l’approccio classificatorio 
di primo tipo, sulla base dell’analisi condotta da Ornello Vitali 
per ripartire i comuni d’Italia nel secondo dopoguerra.
10
  
I capitoli 3 e 4 descrivono, brevemente, la metodologia 
utilizzata per la discriminazione del territorio, in particolare il 
capitolo 4 sintetizza il metodo usato da O. Vitali e i risultati da 
lui ottenuti.  
I capitoli 5, 6 e 7 sono dedicati alla rappresentazione della 
classificazione effettuata sulla regione Marche con i dati dei 
censimenti del 1991 e 2001. Nel capitolo finale si confrontano i 
risultati ottenuti con la metodologia di Vitali al fine di 
individuare una definizione valida per il contesto attuale. 
Al termine vengono mostrati i cartogrammi delle 
classificazioni, sulla regione Marche, dal 1951 al 2001 
(Appendice I), l’elenco dei comuni riclassificati (Appendice II) 
e il glossario ISTAT relativo alle definizioni utilizzate 
(Appendice III). 
                                                 
10
 Si veda O. Vitali Evoluzione rurale ed urbana in Italia, F.Angeli, Milano 1983 
 7
fig. .1 classificazione per aree omogenee 
 
 
fig. .2 classificazione per classi di integrazione 
 8
2 METODOLOGIA DI DISCRIMINAZIONE DEL 
TERRITORIO PER AREE OMOGENEE 
 
2.1 CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE 
 
L’esigenza di diffondere azioni e politiche di sviluppo 
regionale sul territorio pone in primo piano il problema della 
classificazione delle unità amministrative secondo un approccio 
di tipo omogeneo
11
. Gli organismi internazionali, come l’UE, 
l’OCSE, l’EUROSTAT, sottolineano come ancora più 
importante sia la necessità di individuare una tecnica 
discriminatoria identica per tutti i paesi. Questo significa porre 
attenzione alla ricerca delle unità territoriali di riferimento, delle 
variabili da utilizzare a della metodologia statistica. Per quel che 
riguarda il primo di questi punti, ampio è il dibattito a livello 
Comunitario sui cosiddetti NUTS (Nomenclatura delle Unità 
Territoriali Statistiche). In Italia è aperta la questione 
sull’interpretazione del livello NUTS 4, intermedio a NUTS 5 
(Comune) e NUTS 3 (Provincia). Alcuni trovano risposta nei 
Circondari (Ferlaino), altri nei comuni urbani (Bartaletti): 
partizione sub-provinciale delimitata da flussi in entrata e in 
uscita dei lavoratori, che vanno dal polo alla periferia o 
viceversa, ma anche da fattori geografici e storico-culturali
12
. Si 
                                                 
11
 Per una visione generale dell’evoluzione degli studi, italiani e comunitari, si veda ISTAT, 
Gruppo di lavoro direttiva area urbane-rurali. Cap. 1 Evoluzione delle metodologie per la 
suddivisione del territorio in aree urbane e rurali. 
12
 ISTAT, Gruppo di lavoro direttiva area urbane-rurali. F.Bartaletti Ulteriori considerazioni sul 
tema: popolazione urbana/rurale, individuazione del livello territoriale NUTS 4. 
 9
accenna anche all’importanza delle località abitate
13
 come unità 
territoriale di riferimento, tuttavia è il comune la ripartizione 
ancora oggi più utilizzata nelle indagini statistiche. 
Per quel che riguarda, invece, la scelta delle variabili, i 
classici approcci di discriminazione fanno ricorso ad indicatori 
di ampiezza demografica, come la densità. Il loro limite è 
l’impossibilità di cogliere tutte le sfumature intermedie di un 
territorio, esaurendo le proprie conclusioni in una semplice 
ripartizione urbano o rurale. Questo ha creato, anche, forti 
distorsioni della realtà, per esempio in Italia ha enfatizzato un 
falso dualismo Nord-urbano, Sud-rurale. L’utilizzazione di 
indicatori economici - sociali - culturali (per esempio 
popolazione impiegata, livello d’istruzione, importanza della 
popolazione femminile, condizioni igienico-sanitarie) è 
ostacolata da vincoli applicativi (come trasformare variabili 
qualitative in indici quantitativi?) in più rendono più difficili le 
comparazioni extra-territoriali. 
 
 
 
                                                 
13
 Area più o meno vasta di territorio, conosciuta di norma con un nome proprio, sulla quale sono 
situate una o più case raggruppate o sparse. Si distinguono tre tipi di località abitate: centro abitato, 
nucleo abitato e case sparse. (dal Glossario ISTAT) 
 10
2.2 CENNI SULL’EVOLUZIONE DELLA METODOLOGIA 
IN ITALIA E IN EUROPA 
 
I primi tentativi italiani al problema della classificazione 
omogenea risalgono agli anni ’60 quando l’ISTAT adotta una 
metodologia che supera il semplice approccio basato sulla 
densità accogliendone uno che considera l’evoluzione e la 
formazione dell’insediamento umano
14
. 
 Negli anni ’80 lo studio condotto da Ornello Vitali 
introduce novità e correzioni sui lavori precedenti. Per primo il 
concetto di continuum rurale-urbano,  l’applicazione dell’analisi 
discriminante e l’individuazione di 4 aree classificatorie. Gli 
stessi principi sono stati poi ripresi dall’ISTAT nel 1986 che 
elabora un algoritmo con 13 indicatori e 9 gruppi, a loro volta 
raggruppabili in 4 macro aree
15
. Negli anni ’90 anche 
EUROSTAT e OCSE progettano metodi discriminatori, basati 
prevalentemente sul concetto di densità, con l’obiettivo di 
favorire un’armonizzazione statistica nei paesi europei. 
Importanti novità giungono con l’applicazione dell’algoritmo 
“grado di urbanizzazione”, elaborato durante l’indagine sulla 
forza lavoro (LFS), che adotta il concetto di grado di 
urbanizzazione e agglomerati urbani: gruppi di comuni che 
                                                 
14
 ISTAT, Classificazione dei Comuni Italiani secondo le caratteristiche urbane e rurale, Metodi e 
norme, serie C n.5 (1963). Studi precedenti risalgono a Somogy S. (1959) e Barberi B. (1960). 
15
 ISTAT, Classificazione dei Comuni Italiani secondo le caratteristiche urbane e rurale, Note e 
Relazioni, Roma (1986). 
 11
superano in complesso i 50000 abitanti con un’area centrale 
provvista di densità superiore ai 500 abitanti per Kmq
16
.  
Il metodo basato sulla densità ha il vantaggio di essere 
facilmente applicabile per definire il contesto urbano ma è 
inadeguato per descrivere il contesto rurale che finirebbe,  
erroneamente, per essere rappresentato da aree marginali (per 
esempio zone montane). Il disagio prodotto da una metodologia 
basata unicamente sulla densità spinge, nella prima metà dei ’90, 
a ricercare una definizione di ruralità caratterizzata da elementi 
di carattere demografico, economico e sociale. Così in Italia 
l’INEA (istituto nazionale dell’economia agraria) compie analisi 
utilizzando, come variabili, la densità e la percentuale di area 
protetta sull’area totale. Contemporaneamente l’OCSE e 
l’EUROSTAT si impegnano a definire un concetto armonizzato 
di ruralità (nel 1994 nasce il TDS: territorial development 
service) servendosi di variabili economiche, sociali, 
demografiche e ambientale. Viene anche diffuso lo schema 
territoriale OCSE sul quale applicare le statistiche e gli 
indicatori territoriali su due livelli geografici: uno locale e uno 
regionale. Queste vengono discriminate in 3 gruppi: 
essenzialmente rurali, relativamente rurali e essenzialmente 
urbani
17
. 
 
                                                 
16
 Barbieri G. “Il progetto Ocse sugli indicatori rurali”, in: Tipologie di aree rurali in Italia, a cura 
di Daniela Storti, INEA (2000)  
17
 Per un’approfondimento dell’argomento si legga OCSE, Creating rural indicators for sharing 
territorial policies, OECD Publications, Parigi, 1994. 
 12
2.3 METODOLOGIA PER LA DIVISIONE DEL TERRITOIO 
DI ORNELLO VITALI (1983) 
 
Negli anni ’80 Ornello Vitali introduce un lavoro di 
classificazione che presenta novità rispetto i precedenti lavori 
compiuti dall’ISTAT e risulta di particolare utilità anche per 
ambiti odierni. In concreto l’autore: 
  1) inserisce il concetto di continuum rurale urbano 
individuando 4 classi: urbano, semi urbano, semi rurale e rurale 
(contro il dualismo urbano-rurale dei vecchi metodi); 
 2)   introduce 6 variabili quantitative; 
 3) utilizza l’analisi discriminante per classificare i 
Comuni, mediante una funzione riepilogativa delle variabili del 
tipo: 
Y = a
1
X
1
 + a
2
X
2
 + … + a
6
X
6
 
dove gli a
i
 sono i pesi da determinare per stabilire le classi di 
appartenenza delle singole unità territoriali.  
Il lavoro compiuto dall’autore si può riassumere in due 
fasi. Nella prima vi è la creazione di 4 campioni di comuni (uno 
per ogni classe); così, per esempio, il comune campione 
classificato come rurale presenta tutti gli a
i 
nella classe dei 
comuni rurali. Una volta ottenuti i valori campionari si passa 
alla seconda fase: creazione delle funzioni discriminanti e 
classificazione dei restanti comuni. 
La fonte dei dati è rappresentata dai censimenti del 1951, 
1961 e 1971 che forniscono all’autore una popolazione di circa 
24 mila comuni. Considerando contemporaneamente i dati di 
 13
tutti e tre i periodi O. Vitali conduce un’analisi dinamica 
evidenziando le variazioni intervenute nell’arco del trentennio 
considerato
18
. 
Nel capitolo 4 vengono commentati i risultati di quella 
classificazione insieme agli strumenti statistici utilizzati,  mentre 
nell’Appendice II sono mostrate le classi di appartenenza dei 
246 Comuni delle Marche. Nel capitolo 8 viene descritto, 
brevemente, il contenuto sociologico di quella discriminazione.  
 
                                                 
18
 O. Vitali Evoluzione rurale ed urbana in Italia, F.Angeli, Milano 1983. Cap.2: Il procedimento 
adottato per la classificazione dei comuni secondo il grado di urbanità e ruralità. 
 14
3 CENNI SULL’ANALISI DISCRIMINANTE 
 
3.1 INTRODUZIONE 
 
Questo capitolo descrive, in maniera sintetica, gli elementi 
di base dell’analisi discriminante utilizzati per la classificazione 
dei comuni delle Marche che verrà descritta nei capitoli 5.  
Il problema che si intende risolvere
19
 è quello di 
classificare un generico individuo x in una delle t aree. 
Dobbiamo pensare che il generico individuo X è descritto da q 
caratteri (q = 6): X = (x
1
,…,x
q
)’ e lo spazio campionario R
q
 è 
suddiviso in t regioni (A
1
,…,A
t
), che si escludono a vicenda e 
tali che 
∪
i
i
A  = R
q
.   
Per arrivare ad una soluzione è necessario introdurre una 
funzione discriminante D(x) che dipende dai p caratteri di X. 
Nelle ipotesi più semplici si possono utilizzare funzioni lineari 
in x (come quella mostrata precedentemente) tuttavia l’analisi di 
discriminazione del territorio utilizza funzioni discriminanti 
quadratiche in x, di più difficile applicazione. 
Esistono vari metodi per classificare un individuo: di sotto 
ne vengono descritti alcuni, per poi passare a descrivere nel 
capitolo successivo il lavoro teorico svolto da Vitali. 
                                                 
19
 La classificazione dei Comuni delle Marche descritta nei Cap. 5, 6, 7 riprende dagli studi 
condotti da Ornello Vitali nel 1983, dunque la metodologia che si sta descrivendo è significativa 
anche per quel lavoro.