1 
 
Introduzione 
Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è 
una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera 
esistenza è condizionata dallo scrivere. 
SIMONE DE BEAUVOIR, La forza della cose 
Il ventesimo secolo vide la nascita di un nuovo termine nel mondo 
letterario giapponese, 女 流 作 家 joryū sakka: i critici, detentori del 
linguaggio e dunque del potere della cultura, sentirono il bisogno di creare 
una definizione per le donne che scrivevano che sottolineasse il loro essere 
non romanziere o saggiste, ma donne romanziere e saggiste. Scelsero un 
termine che, più che alludere, affermava con forza le differenze della 
scrittura femminile rispetto a quella maschile (che in quanto tale era da 
considerare la scrittura, e per la quale non erano necessario alcun 
aggettivo). In quello stesso periodo lo stato giapponese si impegnava nelle 
definizione del ruolo della donna all’interno della nuova società.  
Mai risultato causale del sesso, il genere, culturalmente costruito, è 
continuamente definito dalle strutture di potere
1
. Lo sforzo dello stato 
giapponese nella creazione di tale definizione, sforzo continuo e mai 
interrotto per il bisogno di riprodurre continuamente tale visione a livello 
macroscopico e microscopico all’interno della società, ricevette un 
eccezionale impulso dalla fine dell’Ottocento in poi, con tendenze 
differenti a seconda delle necessità e degli obiettivi dello stato. 
L’apporto dello stato alla definizione dell’essere “donna” e, 
contemporaneamente, i continui tentativi di disegnare i confini per la 
“scrittrice” “donna”, caratterizzano il mondo in cui Ōba Minako, Takahashi 
Takako e Kurayashi Yumiko hanno vissuto, e sono dunque elementi 
fondamentali per comprendere la loro scrittura. Pur non sperimentando di 
                                                             
1
 J. Butler, Gender Trouble, Routledge, New York 1990, p. 8.
2 
 
persona tutte le pratiche di produzione e riproduzione del dominio maschile 
del Giappone “moderno”, le tre scrittrici qui in esame poggiano sulle spalle 
di migliaia di “donne” e “scrittrici” e parlano per tutte loro. La voce, lo 
sguardo e il corpo delle donne da loro disegnate portano ancora le cicatrici 
di quel passato, cicatrici che si sommano al dolore e all’insofferenza del 
presente. 
Nel primo capitolo ho intenzione di disegnare sommariamente la 
storia delle donne in Giappone, sottolineando gli elementi fondamentali di 
permanenza e di cambiamento dall’epoca Tokugawa al dopoguerra: si tratta 
degli anni in cui lo stato si impegnò in maniera attiva nella costruzione 
della Donna
2
 e durante i quali nacquero diverse forme organizzate di 
opposizione al canone imposto. Uno spazio particolare sarà riservato alle 
nuove ideologie di genere sviluppate e diffuse dagli anni Cinquanta in poi: 
si tratta degli anni del boom economico, per il quale erano necessari nuovi 
modelli di mascolinità e femminilità che sostenessero il processo di crescita 
del paese, ma sono anche gli anni in cui il mondo letterario assistette alla 
nascita di un discorso controegemonico che pose “le basi teoriche di una 
filosofia femminista che sarebbe emersa successivamente come esplicito 
movimento politico”.
3
 
Mentre lo stato giapponese si impegnava nella definizione 
dell’onnarashisa, il canone di femminilità, anche il mondo letterario, nella 
forma dell’establishment letterario (bundan), contribuiva alla formazione di 
un modello astratto di donna scrittrice, lanciando violente critiche contro 
chi osava non assecondare le aspettative del lettore (maschio): una donna, 
anche se difficilmente presa sul serio da un punto di vista artistico e 
intellettuale, era autorizzata a scrivere nella misura in cui rispettava i 
canoni, mai realmente definiti, dello “stile femminile” (joryū). Joan Ericson 
                                                             
2
 La lettera maiuscola indica qui la categoria monolitica, in cui sono inserite tutte le donne, intesa come 
sessualmente Altro (e implicitamente inferiore) rispetto all’Uomo. 
3
 J.C. Bullock., The Other Women’s Lib. Gender and Body in Japanese Women’s Fiction, University of 
Hawaii Press, Honolulu 2010, p. 152.
3 
 
sottolinea come il termine joryū bungaku venisse utilizzato per indicare una 
scuola letteraria, nonostante non si trattasse di un gruppo uniforme e 
omogeneo: 
“Letteratura femminile” non costituisce una scuola letteraria nel modo 
in cui lo erano il gruppo Kenyūsha (1885-1903) con la loro rivista 
Garakuta bunko, gli scrittori romantici, con la rivista Bungakkai, o la 
scuola Shirakaba (1910-1920), che pubblicava sull’omonima rivista. 
Le “donne” della “letteratura femminile” non formavano nemmeno un 
gruppo informale come la cricca di Natsume Sōseki, in cui aspiranti 
scrittori si riunivano attorno a un maestro affermato. Le scrittrici 
raggruppate dai critici non condividevano una tradizione, una scuola o 
una rivista unificata. Di conseguenza il termine non rende giustizia 
alla diversità delle prospettive e degli approcci delle scrittrici così 
etichettate. Definire qualcuno una “scrittrice donna” non diceva nulla 
a proposito del rapporto dell’autore con le altre tendenze letterarie, 
intellettuali, sociali e politiche. E l’apparente semplicità del termine 
facilitò la fusione tra il sesso dell’autore e il suo stile.
4
 
La costruzione del corpo attraverso l’iscrizione su di esso di valori e 
aspettative sociali è una pratica alla base delle dinamiche di dominio, ma è 
necessario sottolineare che si tratta di pratiche che riguardano il corpo 
femminile così come quello maschile: all’interno dell’ordine patriarcale gli 
uomini non sono disciplinati meno delle donne a conformarsi ai ruoli 
necessari per la sopravvivenza del sistema, sono semplicemente sottoposti 
a un controllo differente.
5
 Anche la pratica di costruzione del corpo 
femminile attraverso lo sguardo maschile rientra in questo processo 
disciplinatorio, per cui gli uomini, per interpretare il ruolo che è stato loro 
assegnato, devono esercitare il loro potere sui dominati, attraverso la 
                                                             
4
 J.E. Ericson, Be a Woman: Hayashi Fumiko and Modern Japanese Women's Literature, University of 
Hawaii Press, Honolulu 1997, p. 27. 
5
 Cfr. E. Grosz, Volatile Bodies. Toward a Corporeal Feminism, Indiana University Press, Bloomington 
1994, p. 144.
4 
 
costruzione di immagini sovrapposte ai corpi femminili e a cui le donne 
dovranno necessariamente adeguarsi. 
Obiettivo di questa tesi è analizzare le dinamiche che governano il 
mondo patriarcale attraverso la vita e le opere di Ōba Minako, Takahashi 
Takako e Kurayashi Yumiko da tre differenti punti di vista. Il secondo 
capitolo si concentra sulla vita delle tre autrici, cercando di sottolineare in 
particolare l’intrusione dell’ordine patriarcale all’interno della vita 
familiare, nel rapporto matrimoniale e nel mondo scolastico, anche 
attraverso l’analisi di alcuni dei numerosi saggi in cui le tre scrittrici 
descrivono dettagli delle loro vite private. L’analisi della vita delle tre 
autrici si propone di individuare eventi che possano avere influenzato scelte 
stilistiche e tematiche, se non la decisione vera e propria di diventare 
scrittrice. È tuttavia necessario sottolineare fin d’ora che, nonostante nella 
produzione narrativa di Ōba, Takahashi e Kurahashi sia a volte facile 
ritrovare riferimenti alle loro vite personali, le tre autrici hanno sempre 
sottolineato il carattere fittizio delle loro opere, rifiutando categoricamente 
la definizione di shishōsetsu
6
. 
Il terzo capitolo si propone di analizzare alcuni racconti brevi, 
concentrandosi sulle dinamiche che regolano il linguaggio all’interno del 
mondo patriarcale e ricercando eventuali strategie di contrapposizione al 
dominio linguistico, che costringe le donne ad assecondare le aspettative 
maschili o, in casi estremi, al silenzio. In particolare sarà evidenziato l’uso 
di differenti strategie, anche all’interno della produzione di una stessa 
autrice, che portino alla nascita di una lingua femminile, sottolineando il 
modo in cui l’ordine patriarcale tenta di ostacolare la relazionalità tra donne 
privandole di un linguaggio proprio. 
                                                             
6
 Il termine shishōsetsu indica la forma letteraria predominante della narrativa giapponese moderna. 
Spesso tradotto come “romanzo dell’io”, è oggi definito come “una narrativa autobiografica in cui si 
ritiene che l’autore racconti fedelmente i dettagli della propria vita privata in una forma lievemente 
fittizia”. Cfr. L. Bienati e P. Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Marsilio, 
Venezia 2009, pp. 55-59.
5 
 
Il quarto capitolo è dedicato all’analisi della costruzione del corpo 
femminile da parte dello sguardo maschile: l’obiettivo è nuovamente 
l’individuazione di strategie di sovversione dell’ordine patriarcale nella 
produzione narrativa delle tre autrici prese qui in esame. L’analisi di alcuni 
racconti brevi rivelerà come lo sguardo e il corpo possano essere utilizzati 
come strumenti di dominio, subito dalle donne o, viceversa, imposto agli 
uomini, in un’alternanza di strategie che portino al collasso del sistema 
patriarcale.
6 
 
Capitolo 1: Introduzione storica 
Le nozioni giuridiche del potere sembrano regolare la vita 
politica esclusivamente in termini negativi – attraverso la 
limitazione, la proibizione, i regolamenti, il controllo, o 
addirittura la “protezione” degli individui legati a quella 
struttura politica […]. Ma i soggetti regolati da tali strutture 
sono, in quanto soggetti ad esse, definiti e riprodotti secondo 
i requisiti di quelle strutture. 
JUDITH BUTLER, Gender Trouble 
L’istituzione dello shogunato Tokugawa nel 1600 pose le basi per 
una pace assoluta, all’interno del Giappone e verso l’estero, destinata a 
durare per più di due secoli. Il sistema Tokugawa, ispirandosi alla morale 
neo-confuciana di Chu Hsi, accentuava la base morale dell’autorità politica 
e basava la propria stabilità sulla fedeltà assoluta; la società, divisa e 
organizzata in quattro classi, distingueva, da un punto di vista economico e 
giuridico, samurai, contadini, artigiani e mercanti
7
, una concezione 
gerarchizzata che si rifletteva anche nell’ordine familiare.  
Per preservare gli interessi del bakufu 幕 府 e quelli privati di 
ciascuna famiglia era necessario educare (o indottrinare) le donne, ponendo 
continuamente l’accento sulla loro inferiorità rispetto agli uomini: tale era 
il fine di testi come l’Onna daigaku ( 女大 学 “Il grande insegnamento per la 
donna”, 1672), attribuito al pensatore neo-confuciano Kaibara Ekiken 貝原
益軒, per il quale i genitali femminili erano associati a mancanza di ingegno, 
pigrizia, lascivia, irascibilità e capacità di portare rancore. Una tale 
                                                             
7
 Nella pratica non si cercò di impedire realmente mescolanze tra le tre classi inferiori; una rigida 
separazione sociale manteneva i samurai distinti dalle altre classi, ma nel tardo periodo Tokugawa alcuni 
samurai stabilirono legami matrimoniali con le famiglie dei mercanti per salvare la propria situazione 
economica. Cfr. J. Fairbank e E. Reischauer, Storia dell’Asia orientale. La grande tradizione, 
Einaudi,Torino 1974, pp. 694-695.
7 
 
inferiorità, determinata dalla natura stessa, giustificava la subordinazione 
delle donne, ritenuta essenziale per la stabilità sociale e nazionale.
8
 
Nel secolo successivo la nascita del movimento Shingaku ( 心 学 
“L’insegnamento del cuore”), fondato da Ishida Baigan 石田梅岩 nel 1729, 
contribuì ulteriormente all’indottrinamento della donna giapponese: 
ponendo come obiettivo la rettificazione del sistema sociale, destabilizzato 
dal rapido sviluppo economico, Baigan e il suo discepolo Tejima Toan 手島
堵庵 incoraggiavano i mercanti e gli artigiani (i chōnin 町人, che avevano 
determinato l’espansione del mercato giapponese) a coltivare un approccio 
morale e razionale al commercio, e costruivano un nuovo canone di 
“femminilità” finalizzato alla riabilitazione morale delle donne e 
all’allineamento dei ruoli legati al sesso e al genere. Scoprire la propria 
“natura originale” (honshin hatsumei 本心 発明) per una donna significava 
realizzare le sei virtù confuciane (obbedienza, purezza, buona volontà, 
frugalità, modestia e diligenza), e il matrimonio era considerato il contesto 
in cui più facilmente poteva essere ottenuto tale risultato: nell’essere 
moglie, dunque, si realizzava l’onnarashisa 女らしさ, il genere femminile, 
alla cui base doveva esserci una “moralità coniugale” opposta alla moralità 
in sé.
9
 All’interno della famiglia la donna doveva rispettare le “tre 
sottomissioni” (obbedienza al padre da ragazza, al marito da sposata, al 
figlio maggiore da vedova), ed era spesso considerata poco più che un 
“utero in prestito”
10
: in particolare le donne della classe dei samurai, 
sicuramente sottoposte a una pressione maggiore rispetto a quelle 
                                                             
8
 Cfr. G. Bernstein, Recreating Japanese Women, 1600-1945, University of California Press, Berkeley 
1991, p. 91. 
9
Il regime Tokugawa non dava spazio alla maternità come elemento necessario per la creazione del 
genere femminile, elemento che sarà invece particolarmente enfatizzato in epoca Meiji. Cfr. G. Bernstein, 
op. cit., pp. 94-97. 
10
 S. Sievers, Flowers in Salt: the Beginning of Feminist Consciousness in Modern Japan, Stanford 
University Press, Stanford 1983, p. 4.
8 
 
appartenenti agli altri ceti
11
, erano inserite in un sistema patrilineare che le 
obbligava a generare un erede maschio o ad accettare come eredi i figli 
delle concubine, che, pur non avendo i diritti riservati alla moglie legittima, 
dividevano con lei gli spazi della casa. Toan proponeva che nel caso delle 
donne sposate ci fosse una separazione dei ruoli sessuali (in particolare il 
parto) dalla sessualità (intesa come desiderio), riservando quest’ultima a 
concubine e cortigiane. In altre parole, una donna sposata doveva diventare 
come una persona morta, alienare totalmente se stessa per diventare una 
cosa sola con la volontà del marito. Non le era concessa alcuna autorità 
all’interno della casa e nell’educazione dei figli, poteva essere ripudiata dal 
marito per qualsiasi ragione, e condannata a morte in caso di adulterio 
(commesso o anche solo sospettato)
 
.
12
 
In generale il periodo Tokugawa era governato dal principio danson 
johi 男尊女卑 (“rispettare il maschio, disprezzare la femmina”), e le leggi 
spingevano a considerare le donne come una proprietà, un mezzo per 
garantire la preservazione della linea familiare con la nascita di un erede 
maschio. Tali principi, inizialmente radicati solo tra i ceti più alti, finirono 
col diffondersi in tutte le classi sociali: nel tentativo di emulare 
l’organizzazione sociale della classe dei samurai, contadini e mercanti si 
preoccuparono sempre più della primogenitura, supportata dal sistema del 
concubinato, e le donne finirono con l’avvicinarsi sempre più al modello 
della classe guerriera, con un crescente controllo sulla loro sessualità.
13
 
Nel 1854 il Giappone, minacciato dalle “navi nere” del commodoro 
Perry, si vide costretto a firmare il “trattato iniquo” impostogli dagli 
americani, dando inizio a un periodo di disordini e scontri che si concluse 
nel 1868 con la restaurazione del potere imperiale. Il Giappone, obbligato a 
                                                             
11
 Nell’area del Kamigata, in particolare a Osaka, le donne appartenenti alla classe mercantile godevano 
di diverse prerogative, in tema di matrimonio e divorzio, che erano totalmente negate alle donne del ceto 
guerriero di Edo. Cfr. G. Bernstein, op. cit., pp. 136-137. 
12
 Ivi, pp. 97-98. 
13
 Cfr. S. Sievers, op. cit., p. 6.
9 
 
riconoscere la propria inferiorità tecnologica rispetto alle potenze europee e 
americana, fin dai primi anni dell’epoca Meiji mise in atto una serie di 
provvedimenti per “far cessare i cattivi costumi del passato e perseguire la 
conoscenza in tutto il mondo”: si preparava ad attuare importanti 
cambiamenti, nel campo delle conoscenze e in ambito socio-politico, che 
potessero permettere al Giappone di essere riconosciuto come un paese 
moderno, premessa fondamentale per conquistare la sicurezza e la parità 
rispetto alle potenze straniere. Il paese, incitato dagli slogan fukoku kyōhei 
富 国強兵 (“paese ricco, esercito forte”) e bunmei kaika 文明開化 (“civiltà e 
illuminazione”), eliminava la divisione in classi sociali, privando i samurai 
dei loro antichi privilegi, stabiliva un sistema di tassazione ispirato alle 
potenze europee, e poneva le basi per lo sviluppo di una economia forte e 
competitiva.
14
 
Tra le varie iniziative proposte dai politici Meiji, un posto, sebbene 
ancora marginale, era riservato anche alle politiche relative alle donne: i 
nuovi governanti avevano dovuto riconoscere la necessità di migliorare lo 
status delle donne affinché la società giapponese potesse progredire sempre 
più velocemente verso la modernità. In questo senso va interpretato lo 
sforzo nell’ambito dell’istruzione compiuto nei primi anni Meiji: nel 1871 
fu istituito il Ministero dell’Istruzione, e l’anno seguente, anche grazie ai 
consigli di esperti stranieri che invitavano i leader Meiji a includere anche 
le donne nei piani di riforma del sistema dell’istruzione giapponese, il 
governo fondò la Scuola Femminile di Tokyo.
15
 Con il Codice 
fondamentale sull’istruzione le ragazze ottennero formalmente pari diritti 
rispetto ai loro coetanei di sesso maschile, ma in realtà nel 1882 il numero 
di ragazze iscritte agli istituti elementari era la metà del numero di ragazzi: 
continuava a dominare, invariata rispetto all’epoca Tokugawa, l’idea che 
                                                             
14
 Cfr. E. Reischauer, Storia del Giappone. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1994, pp.93-
98. 
15
 L’istituto, che proponeva alle studentesse un curriculum vario e impegnativo , fu chiuso 
improvvisamente nel 1877. Cfr. S. Sievers, op. cit., p. 11.
10 
 
per le donne non fosse necessario ottenere un’istruzione, e che la cura della 
famiglia fosse l’unica attività adatta al loro sesso.
16
 Nel 1880 la legge 
sull’istruzione abolì la coeducazione oltre la scuola elementare, escludendo 
formalmente le donne dall’istruzione media. L’attività dei missionari 
sopperiva in parte alle mancanze dello Stato, con la creazione di istituti 
superiori per ragazze in varie parti del Giappone, ma solo nel 1900 le 
trasformazioni socio-politiche del paese, che richiedevano una presenza 
crescente delle donne nel mondo del lavoro, portarono alla promulgazione 
della legge sulle scuole superiori per ragazze, con la creazione di almeno 
un istituto femminile in ciascuna prefettura.
17
 Alle donne era ancora negato 
l’accesso alle università, ma proprio nel 1900 fu fondato il Women’s 
English College da Tsuda Umeko 津田梅子
18
, una delle cinque ragazze che 
avevano partecipato alla missione Iwakura nel 1871: l’invio di studenti 
giapponesi negli Stati Uniti e in Europa era finalizzato all’acquisizione 
delle conoscenze necessarie al Giappone per diventare un paese moderno, 
ma mentre ai giovani uomini inviati all’estero erano stati assegnati compiti 
in specifici settori (legge, finanza, industria, etc.), ed erano 
presumibilmente destinati a lavorare per il governo al loro rientro in 
Giappone, le giovani ragazze dovevano studiare la “vita domestica 
americana” per un periodo di dieci anni, e il loro soggiorno all’estero 
avrebbe avuto un impatto più decisivo sull’immagine del Giappone, 
apprezzato dalle potenze straniere per le sue politiche progressiste, che non 
sullo stato dell’istruzione delle donne giapponesi.
19
 
Il nuovo governo giapponese portava dunque avanti politiche 
contraddittorie in relazione alle donne del paese: nel 1872 si pronunciò 
                                                             
16
 Cfr. K. Fujimura-Fanselow e A. Kameda, Japanese Women: New Feminist Perspectives on the Past, 
Present, and Future, The Feminist Press, New York 1995, p. 96. 
17
 Ivi, pp. 98-99. Compito di tali istituti era preparare le ragazze ad essere “buone mogli e sagge madri”, e 
in alcun modo i loro studi potevano essere equiparati ai curriculum accademici dei loro coetanei maschi. 
18
 L’istituto Joshi Eigaku Juku divenne Tsuda Eigaku Juku nel 1933, e assunse il nome definitivo Tsuda 
College dopo la Seconda guerra mondiale. 
19
 Cfr. S. Sievers, op. cit., pp. 12-13.
11 
 
contro la schiavitù in tutte le sue forme, cancellando contratti e debiti delle 
prostitute, ma non rese illegale la prostituzione; due anni prima si era 
espresso sul ruolo delle concubine, equiparando i loro diritti a quelli delle 
mogli legittime; invitava gli uomini del paese a preferire i capelli corti 
nello stile occidentale, ma vietava il caschetto alle donne con una legge del 
1872.
20
 Le contraddizioni caratterizzavano anche il pensiero di molti 
intellettuali, che contribuirono alla creazione di un nuovo modello per la 
donna giapponese: sulle pagine di Meirokusha,
21
 Mori Arinori 森 有 礼 
(1847-1889) e Fukuzawa Yukichi 福 沢 諭 吉 (1835-1901) si scagliavano 
contro il concubinato e sostenevano la necessità di un rapporto paritario tra 
marito e moglie (fūfu dōken 夫婦同権), ma non di uguali diritti per uomini e 
donne (danjo dōken 男女同権). Lo stesso giornale pubblicava gli articoli di 
Nakamura Masanao 中村正 直 (1832-1891), il primo a usare l’espressione 
ryōsai kenbo 良 妻 賢 母 (“buona moglie, saggia madre”).
22
 Elemento 
fondamentale dell’educazione femminile, questo nuovo concetto divenne lo 
slogan del governo Meiji per l’indottrinamento delle donne, l’altra faccia 
della medaglia del fukoku kyōhei: gli uomini dovevano servire il paese 
lavorando sodo e combattendo con coraggio, mentre le donne dovevano 
servire i propri mariti e la famiglia, preservando la continuità del sistema 
patriarcale giapponese.
23
 La nuova donna giapponese doveva dunque essere 
istruita adeguatamente, in modo tale da insegnare ai propri figli la diligenza, 
la lealtà e il patriottismo, per trasformarli in buoni sudditi dell’imperatore. 
La richiesta di una maggiore partecipazione alla vita politica da parte 
dei cittadini e i dissidi all’interno del gruppo dirigente del governo 
                                                             
20
 Ivi, pp. 13-15. Sievers sottolinea come il divieto di portare i capelli corti per le donne, pur sembrando 
una questione superficiale, è in realtà un elemento importante della politica Meiji verso le donne: esso 
può essere visto come una negazione del loro diritto a partecipare attivamente al cambiamento del paese, 
oltre che un messaggio simbolico per le donne giapponesi affinché diventassero non pioniere del futuro, 
ma depositarie del passato.  
21
 Rivista legata all’omonimo gruppo di intellettuali, fondato nel 1873 (sesto anno dell’era Meiji), il cui 
scopo era guidare il Giappone verso la strada della “civiltà e illuminazione” attraverso l’introduzione di 
valori e conoscenze provenienti dall’Occidente. 
22
 Ivi, pp. 16-23. 
23
 Cfr. K. Fujimura-Fanselow e A. Kameda, op. cit., p. 97.
12 
 
portarono nel frattempo alla nascita del Jiyūtō 自由党 (il partito liberale) e 
del Jiyū minken undō 自由民権運動 (Movimento per la libertà e i diritti del 
popolo), attraverso i quali anche le donne cercavano di far sentire la propria 
voce. I samurai leader del movimento per i diritti del popolo erano in realtà 
ben poco interessati al dibattito sui diritti delle donne, ma la crescente 
partecipazione di mercanti e contadini diede una nuova spinta progressista 
al gruppo, e diverse figure carismatiche riuscirono finalmente a esprimere 
in tutto il Giappone le proprie idee, soprattutto sulla questione del diritto al 
voto per le donne. Kishida Toshiko 岸 田 俊 子
24
 (1863-1901), appena 
ventenne quando entrò in contatto con i leader del movimento per i diritti 
del popolo e del partito liberale, intraprese un tour di conferenze in diverse 
località del Sud del paese, attirando un gran numero di donne e 
influenzando alcune di quelle che sarebbero diventate le più agguerrite 
femministe dell’epoca.
25
 Kishida sottolineava la necessità per le donne di 
ottenere un’istruzione adeguata, che permettesse loro di uscire dalle 
“scatole” in cui la società (nella forma della famiglia) le teneva rinchiuse, e 
nei suoi interventi non mancava di sollecitare il paese a dare pari diritti a 
uomini e donne, cambiamento che avrebbe trasformato il Giappone in una 
nazione moderna e civilizzata. Nonostante il collasso del Jiyūtō nel 1884, 
Kishida e le altre donne, che avevano beneficiato degli spazi che il partito 
liberale aveva dato loro, trovarono nuove strade per far sentire la propria 
voce, ma le loro parole, che avevano eccitato folle di donne in tutto il paese, 
una volta scritte e stampate su giornali e riviste, non riuscirono ad avere 
l’eco e la forza delle arringhe del passato.
26
 
                                                             
24
 Cfr. S. Sievers, op. cit., pp. 32-34. Sievers non manca di sottolineare come la figura di Kishida fu usata 
dai leader del movimento per i diritti del popolo: giovane e bella quando iniziò la sua collaborazione con 
il movimento, portava con sé un’aura di rispettabilità, risultato dei due anni trascorsi a corte come dama 
di compagnia dell’imperatrice, caratteristiche che avrebbero dovuto attirare un gran numero di persone 
alle conferenze del movimento. 
25
 Ivi, p. 36. Fukuda Hideko nella sua autobiografia spiega che furono proprio le parole di Kishida durante 
la conferenza del 1882 a Okayama a spingerla all’attivismo femminista.  
26 
Ivi, pp. 42-48.