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INTRODUZIONE 
 
Fin da quando Bowlby (1969) ha proposto un modello descrittivo ed esplicativo 
della relazione che lega il bambino all’adulto che ricopre la funzione genitoriale, 
definendola come “relazione d’attaccamento
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”, gli interessi della maggior parte 
dei ricercatori si sono orientati sulle possibili implicazioni che tale relazione 
potesse avere per un’eventuale sviluppo di una psicopatologia. Secondo Bowlby 
(1973;1980), la strutturazione nel bambino dell’attaccamento alla figura di 
accudimento (caregiver) influenza non soltanto le rappresentazioni future che il 
bambino avrà di sé e degli altri, ma anche le strategie che lo stesso metterà in atto 
per elaborare i propri pensieri e sentimenti. In tal senso eventi negativi percepiti 
dal bambino durante le fasi di instaurazione della relazione di attaccamento, 
come eventi di perdita o di abuso, conducono a modificazioni in queste 
rappresentazioni interne ed influenzano le strategie infantili di elaborazione dei 
pensieri e dei sentimenti. Bowlby (1973;1980) ha suggerito che quando i bambini 
sviluppano rappresentazioni negative di sé e degli altri, o quando adottano 
strategie per elaborare pensieri e sentimenti che compromettano delle valutazioni 
realistiche, diventano più vulnerabili allo sviluppo di una psicopatologia. 
Se il genitore si mostra amorevole e responsivo nei confronti dei bisogni del 
bambino, quest’ultimo svilupperà un’idea di sé come amabile e dell’altro come 
amorevole (Bretherton, 1985). Successivamente, quando il bambino si troverà in 
situazioni spiacevoli o di bisogno, si rivolgerà con fiducia alle figure genitoriali 
con la certezza di essere accudito e questo gli permetterà di sviluppare delle 
strategie sicure di attaccamento. Se il genitore si mostra, invece, non disponibile 
                                                 
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 Per attaccamento si intende “la condizione nella quale l’individuo è legato emotivamente ad un’altra 
persona, generalmente percepita come più forte e quindi rassicurante. Il rapporto bambino/madre, come 
rapporto tra chi cerca e chi offre le cure, è studiato come sistema comportamentale di attaccamento”. 
(Caretti, Capraro & Mangiapane, 2005, p. 106).
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ed accudente nei confronti del bambino, questo svilupperà un’idea di sé come 
non amabile o rifiutato e dell’altro come non amorevole o rifiutante. Questi 
bambini non si aspetteranno successivamente che le figure di attaccamento siano 
disponibili nel momento del bisogno e svilupperanno delle strategie insicure di 
attaccamento per fronteggiare situazioni difficili, che costituiranno un rischio per 
lo sviluppo di una possibile psicopatologia ( Bowlby, 1989). 
Oggigiorno, i ricercatori si sono sempre più orientati nel sottolineare 
l’importanza delle prime relazioni caregiver-bambino nello sviluppo della 
funzione riflessiva e di conseguenza nel processo di dominazione degli stati 
emotivi interni, ovvero la trasformazione degli elementi beta in elementi alfa 
(Bion,1959) e quindi di regolazione degli affetti, in quanto rappresenta uno degli 
aspetti che sempre di più sembra orientare le attuali ricerche sull’addiction 
(Caretti & Capraro, 2005). 
Tali ricerche (Caretti & Capraro, 2005), hanno portato alla formulazione di 
ipotesi in cui la dipendenza patologica viene interpretata appunto in termini di 
“un fallimento per cause riconducibili a esperienze traumatiche vissute 
nell’infanzia (casi di trascuratezza psicologica, abusi sessuali, maltrattamenti 
fisici), nel processo di ri-definizione delle esperienze interne ed esterne, ed in 
particolar modo nel processo di regolazione degli affetti. Si tratta di un modo di 
essere patologico trasversale a tutti i disturbi psichiatrici e di personalità, che 
vede nell’alessitimia, intesa come disregolazione affettiva, l’elemento costitutivo 
delle dinamiche di base che portano allo svilupparsi di reiterati comportamenti 
compulsivi di dipendenza” (Caretti & Capraro, 2005, p. 25). 
 
Il lavoro presentato nelle pagine che seguono nasce quindi dalla convinzione che 
in un campo di ricerca come quello che si rivolge allo studio della dipendenza da 
sostanze, le possibilità di sviluppo delle conoscenze siano necessariamente legate
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alla possibilità di ampliare gli spazi di riflessione intensificando gli sforzi 
generativi di nuovi strumenti concettuali ed operativi.  
Proprio da tale convincimento emerge il tentativo di costruire un percorso di 
connessione tra gli stili di attaccamento, la trama delle emozioni, della loro 
regolazione o disregolazione e quella della dipendenza da sostanze, al fine di 
accedere ad una lettura particolareggiata dei rapporti tra stile di attaccamento, 
abuso di sostanze e quel disturbo della regolazione affettiva che si esplica nel 
funzionamento mentale di tipo alessitimico. 
Parlare di percorsi di connessione o di trame equivale ad assumere una posizione 
che, attraverso le parole di Francesco Corrao, può essere così riassunta: 
“La conoscenza non è una struttura architettonica ad accrescimento spaziale 
continuo, bensì è un movimento multidirezionale che evolve in un campo di 
forze da essa stesso generato e trasformato, in cui l’identità di ogni punto o parte 
è determinata dalla posizione nel tutto e non ha significato se non nel contesto. 
Di tale campo non può darsi alcuna fondazione, e ogni assetto in tale campo deve 
sempre considerarsi transitorio. In esso ogni formulazione può essere più o meno 
controversa, più o meno rivedibile o revocabile, più o meno decidibile” (Corrao, 
1990, p. 217). 
Ciò è tanto più valido quanto più ci si muove all’interno del terreno insidioso 
delimitato da un lato, dal riferimento all’eziologia bio-psico-sociale della 
tossicodipendenza, dall’altro, dalla concettualizzazione di tale disturbo in termini 
di disregolazione affettiva e di alessitimia in seguito ad un’internalizzazione di 
stili di attaccamento deficitari. 
L’interesse per il tema dell’addiction da sostanze incontra quello degli stili di 
attaccamento e dell’alessitimia nel momento in cui viene ipotizzato il ruolo 
assunto dalle prime relazioni caregiver-bambino e dalla successiva capacità di 
quest’ultimo di regolare i propri stati emotivi interni, come fattori di rischio nello
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sviluppo dei Disturbi da Uso di Sostanze. Pur riconoscendo che una teoria 
esauriente della dipendenza da sostanze debba integrare fattori genetici e 
socioculturali, Taylor e coll. (1997) assegnano ai deficit nella regolazione un 
posto di primo piano nel processo che conduce alla dipendenza. L’alessitimia 
viene così inserita, all’interno del modello multifattoriale della 
tossicodipendenza, a cavallo tra il fisiologico (nel momento in cui viene 
sottolineata l’influenza dei fattori neurobiologici) e lo psichico (allorquando si 
propenda per una visione che chiami in causa fattori relativi allo sviluppo della 
personalità); i due vertici si integrano, inoltre, in un modello in cui si afferma 
l’esistenza di una relazione reciproca e circolare tra i due piani. 
Se la genesi multifattoriale della tossicodipendenza è ampiamente condivisa, il 
modello che attribuisce all’esistenza di un deficit nel sistema di autoregolazione 
delle emozioni in seguito a relazioni infantili insicure l’origine del processo di 
dipendenza, appare tuttora oggetto di controversie. Quest’ultima prospettiva, 
inclusa nella prima, ha in comune con essa una genericità che impone di tenere in 
considerazione il rischio di inconsistenza che accompagna le valenze 
onnispiegazioniste di certe argomentazioni. 
E tuttavia, il rischio di genericità, può essere minimizzato proprio a partire dalla 
chiarificazione del significato dei fattori in campo e della precisazione delle 
trame, vale a dire attraverso lo studio delle interazioni dinamiche che 
intercorrono tra gli elementi. 
Nell’ambito dello studio della tossicodipendenza, la ricerca di itinerari (evolutivi 
e psicopatologici) che non appiattiscono, ma siano, al contrario, d’ausilio nel far 
emergere le differenze all’interno di una popolazione ben lontana dall’essere 
omogenea (i tossicodipendenti), sembra oggi trovare una vasta risonanza 
all’interno della comunità dei ricercatori e dei clinici che avvertono il limite 
rappresentato dall’astrattezza di modelli teorici monodromi e spesso insufficienti.
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In questo lavoro di tesi, affrontare il tema della relazione tra stili di attaccamento 
e regolazione affettiva nel Disturbo da Uso di Sostanze, è coinciso con il 
tentativo di mettere in atto un cambio di prospettiva mirato in primo luogo a far 
emergere la figura del soggetto, con il suo specifico funzionamento, nel milieu 
della sua dipendenza, del suo disagio, dei suoi bisogni, delle sue risorse. 
La ricerca di pattern affettivi comuni in soggetti che sembrano presentare un 
funzionamento simile nei termini di quel deficit della capacità di autoregolazione 
che si manifesta come ridotta capacità di comprendere e verbalizzare gli stati 
emotivi, è intesa a valutare la validità delle relazioni infante-caregiver e 
dell’alessitimia come parametri fondamentali che permettono di avanzare ipotesi 
relative ad uno specifico itinerario psicopatologico e di acquisire informazioni 
utili all’ottimizzazione della gestione del percorso terapeutico. Quest’ultimo 
passaggio richiede però un’ulteriore breve specificazione. Infatti, nel caso in cui 
ammettiamo che l’alessitimia sia un tratto di personalità stabile, riscontrabile 
prima dell’inizio di qualunque condotta d’abuso ed indipendente dalla gravità 
della successiva dipendenza, dovremmo aspettarci che essa rappresenti una 
caratteristica permanente, rilevabile anche successivamente alla interruzione 
della sostanza. Inoltre, se, come indica la teoria, il valore d’uso della sostanza 
risiede proprio nel ruolo autoterapico che essa riveste in rapporto al disagio 
determinato dal deficit affettivo di base, è possibile che tale deficit rappresenti un 
fattore in grado di interferire con la fruibilità di misure terapeutiche non 
specificamente centrate nell’affrontare le problematiche ad esso legate, 
predicendo una prognosi negativa.
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CAPITOLO I 
 
 
La dipendenza patologica da sostanze
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CAP. 1 
 
La Dipendenza Patologica da Sostanze 
 
Il ricorso a sostanze stimolanti o calmanti che possano da un lato aumentare le 
prestazioni sia fisiche che intellettuali e dall’altro lenire l’angoscia sperimentata 
durante l’intero ciclo di vita, rappresenta da sempre una delle caratteristiche 
fondamentali dell’essere umano. 
Anche se questo tipo di ricerca rappresenta un fenomeno universale connaturato 
all’esistenza stessa dell’uomo ed “alla necessità di riconfermare ad ogni istante la 
prevalenza della vita sulla morte” (Caretti & Di Cesare, 2005, p. 11), alcuni 
individui sembrano diventarne dipendenti secondo modalità rilevanti dal punto di 
vista clinico. 
Nel corso di questo capitolo cercheremo di delineare inizialmente un chiarimento 
terminologico in riferimento al vasto campo delle dipendenze patologiche e, 
nello specifico della tossicodipendenza, per poi definire le linee fondamentali 
attraverso cui si instaura la dipendenza patologica da sostanze ed il suo legame 
con un particolare stile di attaccamento all’interno di un modello di 
disregolazione affettiva.
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1.1- Le Dipendenze Patologiche 
 
Con l’espressione Dipendenza Patologica si definisce “una forma morbosa 
determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un 
comportamento; una specifica esperienza caratterizzata da un sentimento di 
incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive; 
ovvero una condizione invasiva in cui sono presenti i fenomeni del craving, 
dell’assuefazione e dell’astinenza in relazione ad un’abitudine incontrollabile e 
irrefrenabile che il soggetto non può allontanare da sé” (Caretti & Di Cesare, 
2005, p. 11). 
La definizione proposta dagli autori induce a riflettere su come la dipendenza sia 
un fenomeno che non riguarda solo le droghe, in quanto esistono dipendenze da 
sesso, cibo, shopping, gioco d’azzardo, internet, televisione, lavoro, in grado di 
portare la persona a perdere la capacità di badare a se stessa e di non avere più 
una normale interazione dinamica con la realtà. 
Nello specifico della nostra ricerca e del nostro tentativo di chiarezza 
terminologica, quando parliamo di Dipendenza Patologica da sostanze ci 
riferiamo in maniera relativamente precisa a quella “condizione di 
subordinazione del benessere psicofisico di un individuo, all’assunzione più o 
meno regolare di una sostanza esogena, con specifici effetti farmacologici, 
prevalentemente psicotropi, talora dannosi, per il sistema nervoso o l’organismo 
nel suo insieme” (Manna & Ruggiero, 2001, p. 1).  
Trattasi di un fenomeno che può essere ricondotto a tre fattori: 1) la sostanza 
d’abuso
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, 2) l’organismo assuntore, 3) l’interazione tra sostanza ed organismo in 
un determinato contesto socio-ambientale. 
                                                 
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 Si definiscono droghe o sostanze d’abuso “i composti naturali e di sintesi dotati di effetti mentali 
piacevoli, desiderabili e talvolta utili, ma associati a rischi di abuso, di tossicodipendenza, di tolleranza e 
d’altre conseguenze negative sul piano individuale e sociale” (Silvestrini , 2001, p. 38).
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Le droghe ed i comportamenti di dipendenza hanno quindi due caratteristiche 
distinte. Da un lato influenzano i processi mentali, contribuendo a determinare 
stati soggettivi di piacere ed in certi casi di euforia, che sembrano rappresentare 
la motivazione principale all’instaurarsi della dipendenza. Dall’altro lato, esse 
comportano rischi di abuso, di tossicodipendenza, di tolleranza e di altre 
conseguenze negative sul piano individuale e sociale. E’ così definito “il bisogno 
irrefrenabile e cosciente, che si manifesta generalmente dopo più assunzioni, di 
assumere una droga non più solo per ridurne gli effetti iniziali, ma per evitare i 
disturbi causati dalla sua mancanza e per mantenere uno stato accettabile di 
benessere fisico e psichico” (Silvestrini, 2001, p. 38). 
A questo proposito risulta utile la distinzione terminologica tra il termine 
francese toxicomanie e quello inglese addiction (termine di derivazione latina, 
addictus, che si riferisce ad un comportamento che, se protratto nel corso del 
tempo, è in grado di rendere schiavo l’individuo). 
Infatti, se la prima “suggerisce un’economia psichica basata sul desiderio di 
nuocere a se stessi” (Caretti & Di Cesare, 2005, p. 12) , la seconda implica che 
“il soggetto diventi schiavo di una sola e unica soluzione nel suo sforzo di 
affrontare la sofferenza psichica” (Caretti & Di Cesare, Ibidem, p. 12). 
Il concetto più importante nello studio di tutti i comportamenti di dipendenza 
patologica sembra essere quello del craving (letteralmente fame), inteso quale 
forte desiderio, appetizione compulsiva, ad assumere qualunque tipo di sostanza 
o oggetto di abuso.  
In questo senso, il craving “costituirebbe una nuova entità psicopatologica, 
un’entità sindromica, determinata da un’attrazione così forte verso alcune 
sostanze o esperienze appetibili da comportare la perdita del controllo e una serie 
di azioni obbligatorie tese alla soddisfazione del desiderio, anche in presenza di 
forti ostacoli o pericoli”( Caretti & Di Cesare, Ibidem, p. 13).
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Ravenna (1997) evidenzia come tutte le forme di dipendenza non coincidano 
necessariamente con il craving, in quanto le ricerche attuali sembrano situare il 
fenomeno della dipendenza lungo un continuum che procede dal normale verso il 
patologico. 
A questo proposito Caretti e Di Cesare (2005) individuano da un lato gli stati di 
dipendenza morbosa e incoercibile caratterizzata dal craving, dalla tolleranza e 
dall’astinenza. Ci sarebbero poi gli stati intermedi di dipendenza da sostanze, 
oggetti o comportamenti che non influenzano i processi mentali dell’individuo; 
per poi giungere all’altro estremo del continuum, caratterizzato da tutti quegli 
stati sensoriali e comportamenti che non mirano ad alleviare alcuna forma di 
malessere, ma che rappresentano un semplice desiderio momentaneo, oppure un 
rituale all’interno di uno specifico contesto come ad esempio quello di fumarsi 
una sigaretta dopo i pasti. 
 
 
1.2- Tossicofilie e Tossicodipendenza 
 
Il termine tossicofilia si riferisce alla “ricerca da parte delle persone degli effetti 
gratificanti di una o più sostanze psicoattive, utilizzate per modificare 
intenzionalmente il proprio stato corporeo e mentale, ricavandone esperienze 
cognitive ed emotive dotate di senso e di significato soggettivo” (Salvini, 2002, 
p. 6). 
 Secondo la descrizione di Salvini (2002), al di là delle proprietà distintive 
individuali proprie di ciascuna sostanza, gli effetti gratificanti possono essere 
raggruppati in quelli di primo livello caratterizzati da sensazioni di piacere, di 
liberazione dalla sofferenza fisica e mentale, di forza e fiducia in sé, evasione 
dalla realtà, disinibizione. Quelli di secondo livello sarebbero invece