4
Sulla scorta del lavoro di questi ricercatori, Vire ha progettato uno studio per 
determinare le cause di fallimento, inteso come estrazione del dente, in elementi dentari 
sottoposti a terapia canalare
(1)
; l’autore ha raccolto una serie di dati relativi a ciascun 
dente estratto e conservato per entrare nel campione sperimentale; i parametri 
considerati erano: una radiografia, l’età del paziente, la data di completamento della 
terapia canalare, quella di cementazione della corona (se applicata) e i motivi che hanno 
portato all’estrazione, suddivisi in tre categorie maggiori: 
 ξ  Parodontali 
 ξ  Protesici 
 ξ  Endodontici 
Il campione definitivo era composto da 116 elementi dentari. Di questi, 69 denti - pari al 
59,4% del campione totale - sono stati classificati come fallimenti protesici; i denti sono 
stati inseriti in questa categoria quando si è appurato che la situazione clinica 
preponderante per la scelta di estrazione era il fallimento del restauro protesico o 
l’impossibilità di ripristinare funzionalmente la struttura dentaria residua.  
Gli elementi sono risultati equamente suddivisi tra le due arcate, con 33 denti 
mandibolari e 36 mascellari; il tempo medio trascorso tra il completamento della terapia 
endodontica e l’estrazione è stato di 59,4 mesi. 
All’interno del gruppo di fallimenti protesici sono stati individuati quattro ulteriori 
sottogruppi: 
a) Fratture coronali 
b) Fratture radicolari 
c) Traumi 
d) Restauri incongrui 
 5
Il sottogruppo delle fratture coronali, comprendente campioni con corone naturali o 
artificiali fratturate e non ulteriormente restaurabili - per concomitante patologia cariosa 
o per andamento sfavorevole della rima di frattura – è risultato il più ampio, con 54 
denti (78,2% della categoria protesica). Il sottogruppo delle fratture radicolari era 
composto da 10 denti fratturati in corrispondenza di perni endocanalari. 
Il gruppo di fallimenti parodontali consiste di 37 denti, pari al 32% del campione totale; 
il criterio per l’inclusione in questo gruppo è stata l’evidenza di una perdita ossea così 
marcata da precludere la possibilità di ulteriori terapie parodontali o l’utilizzo delle 
radici come pilastri per carichi protesici.  
Tra gli elementi caratteristici di questo gruppo riscontriamo una maggiore incidenza di 
denti anteriori (65%) rispetto all’intero campione (37%), una media di tempo trascorso 
dopo la terapia endodontica di 65 mesi, e un’età media dei pazienti pari a 53 anni, più 
elevata della media calcolata sul campione totale. 
Il gruppo di fallimenti endodontici comprendeva 10 denti, pari all’8,6% del campione 
totale; questa categoria era ulteriormente divisibile in tre sottogruppi: 5 fratture 
radicolari verticali, 4 fallimenti durante la strumentazione del canale e un caso di 
riassorbimento radicolare severo. La media di tempo trascorso tra la terapia endodontica 
e l’estrazione è di soli 20, 6 mesi, un valore molto minore rispetto a quello del campione 
totale. 
In uno studio precedente, Weine aveva messo in evidenza che si perde un numero 
maggiore di denti trattati endodonticamente a causa di fratture o restauri incongrui 
piuttosto che per scarsa qualità dell’otturazione canalare
(9)
: tesi confermata dal lavoro di 
Vire, nel quale la metà dei campioni è risultata estratta in seguito a fratture coronali. 
L’opportunità della cementazione di una corona protesica viene ulteriormente 
 6
confermata dall’osservazione che la media di sopravvivenza degli elementi dentari 
passa da 50 mesi in denti decoronati a 87 mesi in denti restaurati protesicamente: 
generalmente questi ultimi sono risultati destinati all’estrazione solo in seguito a perdita 
della corona e carie secondaria
(1)
. 
Una delle premesse che hanno portato alla realizzazione di questo studio era la teoria 
che i fallimenti prognostici da causa puramente endodontica potessero costituire la 
maggior parte della casistica, ma sorprendentemente si è verificato che, al contrario, 
questi costituivano il gruppo più piccolo dell’intero campione. 
Swartz et al. dichiarano che il primo molare mandibolare presenta una percentuale di 
successi endodontici significativamente più bassa rispetto agli altri elementi dentari
(10)
; 
nel campione allestito da Vire, i molari mandibolari costituiscono approssimativamente 
un terzo dell’intero campione e rappresentano il 70% dei fallimenti endodontici. 
Questa osservazione è particolarmente significativa se si considera che Swartz riportava 
una frequenza di trattamento di questi denti pari al 17,8%: perciò, il tasso di fallimenti 
di questo gruppo è perlomeno doppio rispetto alla frequenza di trattamento
(1,10)
.  
L’osservazione forse più rilevante dal punto di vista clinico è però che in questo gruppo 
le estrazioni si rendono necessarie in un lasso di tempo molto minore: il valore medio è 
inferiore a 2 anni, mentre la media del campione totale si attesta intorno a 5 anni; perciò, 
se da un lato un fallimento da causa endodontica appare più raro, dall’altro progredisce 
molto più rapidamente rispetto alle altre categorie. 
Il risultato prognostico di un trattamento canalare dipende pertanto da un insieme di 
fattori: tra questi, la realizzazione di un restauro coronale che sigilli ermeticamente 
l’ingresso al sistema canalare è attualmente considerato di importanza critica. 
 7
Nel 2002, Friedman ha condotto una review su 14 studi che valutavano la prognosi di 
terapie endodontiche, riscontrando una percentuale di denti clinicamente guariti al 
follow-up variabile dall’ 88% al 95%
(11)
.  
Allen et al. aggiungono che la probabilità di guarigione dopo ritrattamento ortogrado o 
chirurgia endodontica sono rispettivamente del 73% e del 60%; è perciò evidente come 
la prognosi migliore possa essere garantita solo raggiungendo un successo durante il 
primo trattamento
(12)
. In quest’ottica, appare cruciale attuare ogni possibile misura 
precauzionale per mantenere sigillato un canale sul quale sia stata terminata una terapia 
endodontica. 
1.2.) La rilevanza del sigillo marginale 
Hovland e Dumsha hanno sottolineato come la quasi totalità delle infiltrazioni avvenga 
all’interfaccia cemento-dentina oppure a quella cemento-guttaperca; si può perciò 
considerare il sigillante endodontico come un potenziale anello debole in un’ottica di 
successo prognostico a lungo termine della terapia canalare
(13)
.  
Anche questi due autori concludono che, poiché non esiste attualmente alcun cemento o 
tecnica di otturazione endodontica che prevengano totalmente l’infiltrazione, il punto 
critico è ottenere un adeguato sigillo marginale dei restauri conservativi al fine di 
prevenire la ricontaminazione del canale radicolare
(14)
.  
Ray e Trope, conducendo uno studio su valutazioni radiologiche, hanno evidenziato 
l’esistenza di una correlazione tra lo stato dei tessuti periapicali di denti trattati 
endodonticamente e i relativi restauri coronali: secondo i due autori, la qualità tecnica 
del restauro conservativo può essere più influente sulla prognosi a lungo termine 
rispetto a quella della stessa otturazione canalare
(15)
; analogamente, Klevant e Eggink 
 8
hanno documentato la guarigione clinica di denti con otturazioni canalari incongrue o 
difettose ma con un corretto sigillo coronale
(16)
.  
Marshall e Massler hanno esaminato sia il sigillo coronale che quello apicale mediante 
uno studio di penetrazione di radioisotopi
(17)
; mediante questa tecnica, gli autori hanno 
confermato la presenza di una rilevante infiltrazione marginale: appare perciò 
irrinunciabile realizzare anche un ottimo sigillo coronale in aggiunta alla chiusura 
dell’apice. 
1.3.) Modelli sperimentali 
Nonostante le premesse teoriche, un gran numero di studi in vitro ha evidenziato come 
l’obiettivo di realizzare un sigillo totale dell’endodonto sia ben lungi dall’essere 
acquisito, persino in condizioni sperimentali ideali
(18)
: nella pratica clinica sono di 
frequente riscontro fratture coronali o restauri conservativi a margini infiltrati, 
condizioni che lasciano una via di accesso aperta tra il cavo orale e il sistema canalare; 
perciò, esiste un rischio potenziale di ricontaminazione batterica dei canali dovuta alla 
dissoluzione del sigillo coronale
(19)
. 
Secondo Torabinejad
(20)
, canali radicolari sigillati possono essere soggetti a 
ricontaminazione in determinate circostanze, quali: 
 ξ  Ritardo nella realizzazione di restauri definitivi post trattamento 
endodontico 
 ξ  Perdita di sigillo del materiale da restauro provvisorio 
 ξ  Fratture del materiale da otturazione e/o delle strutture dentali 
Quando si verifica una di queste condizioni, la porzione coronale del sistema canalare 
rimane esposta alla flora batterica del cavo orale; la questione-chiave è determinare 
quanto rapidamente l’intero sistema canalare ridivenga infetto, al punto da rendere 
 9
necessario un ritrattamento canalare: Swanson e Madison hanno realizzato uno studio 
per valutare questo parametro in un sistema in vitro, confrontando l’infiltrazione 
coronale in vari periodi di tempo successivi alla terapia canalare e all’esposizione a 
fluidi orali simulati
(19)
. 
Il loro modello sperimentale prevedeva un campione composto da 70 denti umani 
monoradicolari estratti, preparati chemomeccanicamente con tecnica “step-back” sino a 
una misura di masterfile apicale pari a 40 e otturati con guttaperca condensata 
lateralmente; i denti così preparati sono stati suddivisi in sei gruppi sperimentali e un 
gruppo di controllo, ciascuno composto da dieci elementi.  
Tutti i denti sono stati posti a contatto con saliva artificiale – composta da: CaCl
2
 1 mM; 
NaH
2
PO
4
 3 mM; NaHCO
3
 20 mM – per periodi di tempo differenti per ogni gruppo e 
pari a 0 giorni (controllo), 3, 7, 14, 28 e 56 giorni.  
Terminata l’esposizione alla saliva artificiale, i campioni sono stati immersi in 
inchiostro Pelikan per 48 ore, quindi decalcificati in acido nitrico al 5%, deidratati 
mediante passaggi in alcol etilico a concentrazioni crescenti (da 80% a 100%) e 
diafanizzati in metilsalicilato per consentirne l’osservazione diretta al microscopio – a 
ingrandimento 5X – e la misurazione lineare dell’infiltrazione mediante regolo 
millimetrato. 
I denti messi immediatamente a contatto con il colorante senza esposizione alla saliva 
artificiale (gruppo “zero giorni”) e osservati sotto ingrandimento non hanno evidenziato 
infiltrazione nello spazio canalare o nei tubuli dentinali, mentre tutti i campioni messi a 
contatto con saliva artificiale presentavano una considerevole penetrazione del colorante 
variabile - dal 79% all’85% della lunghezza del canale radicolare - sia lungo i muri 
dentinali che all’interno dei tubuli. 
 10
Poiché il gruppo non esposto a saliva sintetica è risultato esente da infiltrazioni del 
tracciante, si può dedurre che sia l’interazione tra la saliva ed il cemento sigillante, con 
dissoluzione di quest’ultimo, a generare lo spazio nel quale il colorante può infiltrare: se 
questa premessa è corretta, la permeabilità dei cementi endodontici dovrebbe essere 
presa in seria considerazione come fattore discriminante nella scelta di un sigillante per 
l’utilizzo clinico. 
Il risultato più interessante della ricerca è però relativo all’estensione dell’infiltrazione 
rilevata negli elementi dentari dopo soli 3 giorni di esposizione alla saliva artificiale: 
questa oscilla tra valori pari al 33% e 80% della lunghezza radicolare, e non è 
statisticamente differente rispetto alla media dell’infiltrazione rilevata dopo 8 settimane 
di esposizione
(19)
. 
1.4.) Affidabilità e limiti delle tecniche di misurazione 
In uno studio di follow-up realizzato ex vivo, gli stessi Swanson e Madison hanno però 
ottenuto risultati contraddittori rispetto al loro primo lavoro: i canali radicolari di denti 
posteriori di scimmie sono rimasti esposti nel cavo orale per una settimana, quindi i 
denti sono stati estratti, immersi in colorante e valutati per l’infiltrazione. 
I dati raccolti testimoniano che campioni di tutti i gruppi, compresi il controllo positivo 
e negativo, evidenziavano penetrazione del colorante a vari livelli; tuttavia, 
contrariamente a quanto emerso dallo studio in vitro, non era possibile rilevare una 
differenza statisticamente evidente tra i gruppi sperimentali e quelli di controllo
(21)
. 
Khayat sostiene che, a causa dei limiti tecnici intrinseci degli studi di infiltrazione basati 
sull’utilizzo di tinture traccianti, l’utilizzo di inoculi batterici promette di fornire 
risultati più significativi e correlabili alla pratica clinica. 
 11
Infatti, radioisotopi e coloranti si prestano bene a studi comparativi sull’infiltrazione 
relativa in differenti materiali ma non sono in grado di fornire una rappresentazione 
realistica della penetrazione batterica in condizioni cliniche, perché gli ioni utilizzati 
sono molto più piccoli rispetto alle molecole di colorante e diffondono molto più 
rapidamente: vanno perciò considerati indicatori di scambio ionico, diffusione e 
metabolismo tissutale piuttosto che di vera e propria infiltrazione marginale
(22)
. 
Oltre all’ingombro sterico, va considerato anche il pH di queste sostanze: il blu di 
metilene, che certamente è il colorante più utilizzato, essendo una sostanza debolmente 
acida può demineralizzare la dentina portando a una sovrastima finale 
dell’infiltrazione
(23)
 
Goldman ha evidenziato che anche la presenza di bolle d’aria all’interno può limitare la 
penetrazione di colorante all’interno del sistema canalare e costituisce un altro elemento 
critico di questi modelli sperimentali
(24)
. 
Spradling e Senia hanno messo in luce come la penetrazione di coloranti in piccole 
cavità sia probabilmente guidata da fenomeni di capillarità; in ambiente endodontico, 
questo fenomeno assume caratteristiche peculiari perché il lume capillare è chiuso a 
un’estremità: in queste condizioni, in presenza di aria nel canale la penetrazione del 
tracciante si arresterà al raggiungimento dell’equilibrio tra pressione di collasso e 
tensione superficiale del liquido
(25)
.  
Queste osservazioni sono particolarmente rilevanti qualora venga riconsiderata 
l’efficacia dei modelli di studio dell’infiltrazione basati sulla penetrazione di coloranti, 
ampiamente diffusi: infatti, una microcavitazione formata all’interfaccia tra materiale da 
restauro e muri dentinali è in prima approssimazione paragonabile a un capillare a fondo 
cieco
(26)
. 
 
 12
1.5.) Test di infiltrazione batterica 
Nel 1990, Torabinejad ha realizzato uno studio sul sigillo marginale di canali radicolari 
trattati endodonticamente e con cavità di accesso coronali lasciate intenzionalmente non 
otturate, con l’obiettivo di  rivalutare criticamente le precedenti conclusioni di Swanson 
e Madison. 
Nel lavoro di Torabinejad, l’infiltrazione viene testata mediante inoculo di una 
sospensione batterica, come suggerito in precedenza da Mortensen e da Krakow: questi 
ricercatori avevano dimostrato che la penetrazione di microrganismi rappresenta un 
modello sperimentale più appropriato rispetto all’utilizzo di coloranti o 
radioisotopi
(27,28)
. 
Il campione della ricerca di Torabinejad era composto da 45 incisivi mascellari estratti, 
sui quali sono state realizzate cavità di accesso standardizzate e sagomature con tecnica 
step-back, portando un file 40 in apice; 33 denti destinati ai due gruppi sperimentali e 4 
destinati al gruppo di controllo negativo sono stati otturati con guttaperca condensata 
lateralmente e sigillante Roth; i denti assegnati al gruppo di controllo positivo sono 
invece stati otturati con tecnica a cono singolo e senza utilizzare cementi endodontici, 
per simulare una situazione clinica di terapia canalare incongrua.  
Per ottenere una lunghezza standardizzata dell’otturazione in tutti i campioni, la 
porzione coronale della guttaperca è stata rimossa con un plugger riscaldato lasciando in 
sede solo 10 mm apicali.  
Sono state selezionate due specie batteriche per l’utilizzo come contaminanti in questo 
modello sperimentale: Proteus Vulgaris (altamente mobile), e Staphylococcus 
Epidermidis (immobile). 
Due gruppi sperimentali sono stati inoculati con sospensioni batteriche con la seguente 
composizione: