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                                          Capitolo I 
                           La leggenda americana 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1. Dal fumetto al cartoon di serie  
   
 
Diversi studi storico-critici, in questi ultimi decenni, hanno 
sottolineato il fondamentale contributo del fumetto nell’esordio e nello 
sviluppo del cinema d’animazione.
1
 Infatti la nascita del fumetto, 
databile alla fine dell’Ottocento, coincide con la grande espansione del 
cinema come spettacolo popolare, uno spettacolo che si ispira proprio 
alle “strisce” pubblicate sui quotidiani e settimanali di informazione. Il 
fumetto costituisce lo svago preferito, e a prezzo accessibile, per 
milioni di persone soprattutto dei ceti popolari; esso rispecchia tutta 
una serie di problemi della società americana a cavallo dei due secoli, 
che vengono sdrammatizzati attraverso la satira, l’ironia, il grottesco. 
                                                 
1
 G. Bendazzi, Cartoons. Il cinema d’animazione 1888-1988, Marsilio Editori, Venezia, 1988.
15 
È un modo per esorcizzare i drammi quotidiani delle masse popolari 
della nuova civiltà industriale e degli immigrati.
2
 
I personaggi del primo cinema comico americano hanno come modelli 
proprio i personaggi dei fumetti e, nei disegni animati, vi è la totale 
trasposizione degli stessi personaggi e delle stesse storie dal fumetto al 
cinema. Si assiste dunque, agli inizi del Novecento, alla progressiva 
acquisizione da parte del cinema di consumo degli elementi che 
costituiscono il successo del fumetto presso un pubblico popolare, che 
trova in esso un mezzo d’evasione dalle abitudini quotidiane. Le storie 
semplici e i personaggi elementari permettono al lettore-spettatore di 
immedesimarsi e di immaginare un riscatto nei confronti della vita e 
della società. Non è difficile riscontrare, in queste opere di satira, la 
dissacrazione di alcuni miti borghesi, il ridicolo in cui sono immersi le 
istituzioni sociali e i rappresentanti del ceto medio-alto. Segno 
distintivo di questo genere di opera è il disegno grossolano, la 
narrazione sgrammaticata, la trascuratezza e l’improvvisazione; 
questo sia per creare appunto una cultura alternativa e differenziata da 
quella borghese, sia per il ritmo di produzione estremamente 
accelerato che non consente troppe rifiniture tecniche e artistiche.  
Trasportando i personaggi e le storie dei fumetti dalla carta stampata 
al grande schermo si pensa soprattutto alle conseguenze commerciali 
ed economiche, in quanto è fortemente auspicabile che i milioni di 
lettori possano trasformarsi in altrettanti spettatori. A questa 
diffusione del disegno animato cinematografico contribuisce 
l’invenzione di Earl Hurd, il quale, nel 1914, utilizza per primo un 
                                                 
2
 Cfr. su questo argomento G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Utet , Torino 2004, pp. 
73-74.
16 
foglio trasparente chiamato rodovetro, che consente di mantenere 
inalterato lo sfondo scenografico su cui, per trasparenza, vengono fatti 
muovere i personaggi disegnati. La produzione di serie, favorita 
dall’invenzione di Hurd, porta il disegno animato americano, già alla 
fine degli anni Dieci, a un livello produttivo cospicuo e a una 
diffusione capillare, anche oltre i confini degli Stati Uniti. Ciò 
determinerà, negli anni seguenti, la crisi del cinema d’animazione 
europeo e il predominio assoluto del disegno animato fumettistico 
statunitense.  
Un nome su tutti a cui far risalire la nascita del disegno animato 
statunitense è Winsor McCay, noto tra i cultori del fumetto come 
l’artista forse più geniale e poetico delle prime strisce americane. Egli 
si afferma nel 1905 con le avventure di Little Nemo pubblicate a 
puntate sul “New York Herald”; il suo stile si distingue subito dagli 
altri artisti in quanto estremamente rifinito e barocco. In una società 
che sempre più si va orientando verso il profitto immediato, in cui la 
legge di mercato e il rapido consumo dei prodotti determinano ogni 
tipo di scelta, anche nel campo artistico e culturale, non c’è troppo 
spazio per un artista come McCay, le cui opere sono il frutto di 
un’attività isolata e aristocratica. Egli, infatti, esercita in un periodo 
precedente all’invenzione del rodovetro e il suo lavoro risulta 
finanziariamente dispendioso e tecnicamente complesso in quanto è 
costretto a disegnare ogni volta, immagine per immagine, non solo il 
personaggio nelle sue diverse pose ma anche lo sfondo paesaggistico. 
È soprattutto a partire dal 1914, quando per la prima volta si utilizza il 
rodovetro, che si afferma una produzione di serie tecnicamente
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pregevole e con costi più contenuti. Si formano così, negli anni 
durante e subito dopo la prima guerra mondiale, dei settori produttivi 
specializzati nel disegno animato, con la formazione tecnico-
professionale di centinaia di persone, che costituiranno la struttura 
portante della nuova industria del cinema d’animazione. 
Ma non tutti i fumetti di successo si trasformano in film di altrettanto 
successo: il cinema è ancora muto e l’animazione si riduce a far 
muovere i personaggi su sfondi disegnati ad hoc perdendo così, nella 
trasposizione cinematografica piatta e priva di fantasia, il sapore 
comico-grottesco delle “strisce”. La maggior parte dei disegnatori 
infatti non comprende che i fumetti hanno una dinamica e un ritmo 
soggettivo e che tale dinamica dipende dai tempi di lettura e dalla 
capacità d’apprendimento del lettore. Dunque la trasformazione dei 
fumetti in una successione meccanica e fissa di immagini 
cinematografiche spesso non  corrisponde con il ritmo libero e 
articolato che il lettore dà al fumetto. Il fumetto, in quanto mezzo di 
svago, rimane unico nel suo genere; riflette lo spirito del tempo e 
fornisce molti elementi per una analisi del costume, dell’opinione 
pubblica e delle tendenze culturali di una società. Esso dà al lettore la 
possibilità di metterci del proprio, di interpretare fatti e personaggi dal 
proprio punto di vista, cosa non sempre possibile nelle sale 
cinematografiche: la satira del fumetto, il grottesco del segno grafico, 
l’umorismo delle situazioni drammatiche si perdono in una serie di 
prodotti di consumo alquanto dozzinali. Si capisce che dietro i 
disegnatori, gli animatori e i registi c’è il produttore con evidenti 
intenti speculativi e commerciali. Il loro obiettivo è sfruttare al
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massimo il successo dei fumetti utilizzandone i personaggi noti e 
popolari per confezionare prodotti redditizi. L’incompatibilità estetica 
tra il fumetto e il disegno animato è evidente in diverse opere 
cinematografiche, ma l’afflusso di pubblico nelle sale resta 
notevolissimo proprio grazie al seguito che i fumetti ricevono tra la 
popolazione.  
Poco a poco i film animati si trasformano in un prodotto di consumo 
per tutta la famiglia: rappresentano il momento della distensione, del 
divertimento di un popolo avviato sempre più verso la vita affannata 
della metropoli, l’alienazione delle fabbriche, i contrasti sociali, le 
lotte di potere. L’America degli anni di guerra e del dopoguerra, fino 
alla crisi del 1929 e al successivo periodo di ricostruzione nazionale, 
vive un periodo di grandi trasformazioni economiche e sociali. Poiché 
ogni trasformazione e cambiamento non avviene mai senza contrasti, 
si viene a creare una situazione instabile e preoccupante, incitata dalle 
profonde differenze economiche tra i vari strati della popolazione e 
dalle differenze etniche e culturali causate dall’immigrazione.   
Il cinema non può non riflettere questo stato di cose e soprattutto il 
cinema minore, rappresentato dal disegno animato, dal film comico e 
dal serial per la sua natura più popolare e di larghissimo consumo, 
esprime il bisogno di evasione della maggior parte della popolazione e 
la necessità di uno sfogo, di una rivincita che non è possibile ottenere 
nella vita sociale. A prescindere dal loro scarso valore artistico, anzi 
forse proprio a causa della loro volgarità formale, i brevi film che 
raccontano le avventure di personaggi disegnati con i connotati di 
determinate categorie sociali costituiscono uno specchio della società
19 
da cui lo spettatore coglie gli aspetti grotteschi, i punti deboli e le 
fragilità del proprio tempo. Queste opere hanno un forte valore 
sociologico poiché rappresentano una denuncia latente della società 
americana in quanto contribuiscono a mettere in luce le incongruenze 
di un sistema basato sulle differenze sociali, sullo sfruttamento 
dell’uomo e della natura, sulle ferree leggi del mercato, su un 
liberalismo egoista. La beffa e la provocazione diventano, attraverso 
queste opere, uno strumento di condanna e di sfida: da qui il grande 
successo di pubblico, le loro riprese a distanza di anni, il 
rinnovamento continuo di storie e personaggi, in cui lo spettatore può 
in qualche modo vedere riflessa la società in cui vive. 
Abbiamo visto dunque come la maggior parte dei film d’animazione 
prodotti negli Stati Uniti intorno agli anni Dieci si ispirino 
direttamente ai personaggi dei fumetti, attuando una mera operazione 
commerciale di trasposizione dalle pagine dei giornali allo schermo 
cinematografico. Operazione di scarso impatto estetico e artistico  ma 
di grande successo tra il pubblico. Di lì a poco si assiste alla nascita di 
personaggi e storie create appositamente per il cinema d’animazione, 
alcuni dei quali subiscono il processo inverso passando cioè dagli 
schermi alla carta stampata. Un esempio su tutti è ben rappresentato 
da Felix the Cat (Mio Mao) di Pat Sullivan, che da personaggio del 
cinema diventa personaggio del fumetto, precursore dei più noti 
personaggi di Walt Disney, nati appunto come eroi cinematografici 
per poi diventare eroi dei comics. L’ideatore di Felix the Cat è Otto 
Messmer, che disegna il personaggio e collabora alla realizzazione 
degli episodi della serie. Sullivan ne acquista i diritti nel 1922 e ne
20 
diventa il produttore fino al 1933, l’anno in cui muore. La novità di 
questo personaggio sta soprattutto nel grafismo vivace delle figure, 
nelle invenzioni narrative, nel ritmo del racconto e nella sua 
definizione psicologica, più che nelle situazioni comico-grottesche o 
negli elementi umoristici ricorrenti e comuni del cinema comico. Il 
disegno caratterizza il personaggio attraverso gli elementi 
indispensabili dell’ambiente in una dimensione volutamente dinamica; 
un dinamismo pienamente compatibile col ritmo narrativo 
cinematografico. Questo nuovo personaggio ha una propria 
particolarità psicologica che si manifesta nelle sue reazioni alle 
difficoltà del momento, nelle soluzioni che egli dà ai problemi che gli 
si presentano di volta in volta. Si assiste alla delineazione di un 
comportamento individuale frutto di un preciso calcolo mentale basato 
sull’esperienza del momento.    
Ma l’originalità della serie di Sullivan, come del resto tutte le altre, si 
è andata perdendo di film in film; si assiste cioè ad una serie di 
“meccanizzazione” degli effetti esilaranti che riduce man mano il 
fascino di queste opere. Il personaggio si svuota delle sue 
caratteristiche psicologiche e diventa solo un pretesto per far ridere. 
Nonostante ciò l’arte cinematografica di Sullivan, basata su un 
protagonista chiaramente definito e su pochi elementi narrativi 
ricorrenti, sarà ripresa dai migliori artisti dell’animazione di consumo 
degli anni seguenti. Fra questi spiccano i nomi di Paul Terry, Walter 
Lantz, Walt Disney, Max e Dave Fleischer. Nuovi personaggi saranno 
protagonisti e nuovi saranno i temi e i modi della comicità, più 
irriverente o più mite a seconda degli autori, del momento storico,
21 
delle esigenze di mercato, ma va sottolineato come Felix the Cat di 
Pat Sullivan rappresenta il prototipo dei personaggi-chiave del disegno 
animato americano. 
Tra gli artisti appena citati lo stile di Paul Terry si differenzia dagli 
altri per un più evidente gusto del grottesco, dell’esagerato, del 
paradossale, che porta alle estreme conseguenze le possibilità 
fantastiche del disegno animato. Una delle caratteristiche 
fondamentali del cinema di Terry è proprio questa dose di humour, di 
contagioso sarcasmo che supera i normali confini del divertimento 
verso l’esagerazione, la libertà inventiva, il non senso. Più che sui 
singoli personaggi e sulle storie, il suo interesse è rivolto alle 
situazioni alquanto assurde che possono crearsi da contrasti 
improvvisi, da scontri drammatici o anche soltanto dalla 
contemplazione di momenti particolari della storia, apparentemente 
estranei rispetto al soggetto principale. Tra i suoi primi personaggi, 
affermatisi tra il 1916-17, troviamo Al Falfa, un contadino saggio e 
arguto, definito con grande finezza psicologica.  
La maggior parte dell’opera di  Terry non è legata alle serie intese in 
senso tradizionale, cioè ruotanti attorno a un personaggio ricorrente 
d’episodio in episodio, ma ai film costruiti su personaggi, soggetti e 
ambienti sempre diversi che si presentano autonomamente, con 
caratteri diversi l’uno dall’altro. Alcune sue opere si ispirano alle 
favole di Esopo, per le quali utilizza l’animazione combinata con la 
tecnica “dal vero”. La storia disegnata viene introdotta partendo da 
una situazione realistica, in modo tale che il disegno animato diventa 
una proiezione della realtà quotidiana nel mondo della fantasia e
22 
dell’immaginazione. L’opera di Paul Terry rappresenta sempre 
un’alternativa  per un pubblico che non troppo apprezza, negli anni 
imperanti del disneysmo trionfante, il disegno caramelloso e 
puramente infantile di molti film d’animazione hollywoodiani. La sua 
è un’arte a metà strada tra Disney e i fratelli Fleischer, che opereranno 
in un campo totalmente diverso dal disegno animato per l’infanzia. 
Walter Lantz, il più giovane tra gli artisti già menzionati, acquista 
fama grazie al suo esordio alla Universal, casa di produzione 
californiana per la quale già lavora Walt Disney. La sua affermazione 
tra i più noti autori del cinema d’animazione americano è proprio 
legata a quest’ultimo, infatti Disney lascia la Universal nel 1928, al 
seguito di un mancato accordo sui diritti di un personaggio da lui 
creato, Oswald the Rabbit, che viene poi ripreso e trasformato da 
Lantz, portandogli grande notorietà nel campo dell’animazione. 
Oswald, un intelligente coniglio che affronta con coraggio i pericoli 
incombenti che gli si presentano nella vita, appare diverso dagli altri 
personaggi dei cartoons, più volgari e irriverenti. Egli si afferma come 
il campione delle virtù americane e le sue avventure costituiscono il 
motivo portante di un discorso rispettabile e borghese sulla società del 
tempo. La serie di Oswald the Rabbit, iniziata da Disney, può essere 
considerata il prototipo delle serie degli anni Trenta, che proprio in 
Disney avranno il loro autore e produttore più famoso.  Mickey Mause 
sarà il successore di Oswald, in un quadro ancora più conformista ma 
stilisticamente confacente ai gusti dell’epoca, dimostrato dal più che 
caloroso successo di pubblico.
23 
 Lantz, più di altri, rimane sostanzialmente in ombra, schiacciato 
dall’opera disneyana. Bisognerà attendere l’inizio degli anni Quaranta, 
con la serie Picchiarello, per ritrovare una certa originalità e uno 
spirito satirico che è possibile intravedere in alcuni suoi film degli 
anni Venti.  
  
 
2.Walt Disney e la società americana 
 
        Quando si pronuncia la parola Disney non si pensa mai a una 
singola persona ma all’industria cinematografica d’animazione più 
famosa al mondo con tutti i parchi e gli stores ad essa dedicati.  
Walt Disney, nato a Chicago nel 1901, quarto figlio di una modesta 
famiglia, è stato un artista sensibile alle sfumature dell’animo 
popolare, ma anche un accorto capo d’industria. Per avvicinarsi alla 
sua infanzia, ai suoi tormenti adolescenziali, agli scontri con il padre 
Elias, basta leggere la prima biografia autorizzata, quella di Bob 
Thomas.
3
 Elias Disney viene descritto come un padre molto severo, 
che sente pesare il compito di mantenere moglie e cinque figli con i 
guadagni provenienti da una fattoria. Spesso teme la possibilità di un 
fallimento e per questo esige sempre di più dai suoi figli maggiori. La 
madre Flora è, al contrario, vivace e allegra. La figura del papà di 
Walt viene presentata come quella di una persona indecisa, frustrata, 
violenta, autoritaria, incapace di amare e di farsi amare. Il nome di 
Walt viene scelto dal padre in onore di Walter Parr, il pastore 
                                                 
3
 B. Thomas, Walt Disney, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.
24 
congregazionalista del quale egli è amico. I congregazionalisti sono 
protestanti che seguono le regole della loro comunità senza 
assoggettarsi a quella ecclesiastica. Fervente religioso, Elias osserva 
severamente i precetti quotidiani e costringe la sua famiglia a fare 
altrettanto.    
Nel 1906, quando Walt deve ancora compiere il quinto anno d’età, la 
famiglia Disney si trasferisce in una fattoria nel Missouri, a duecento 
chilometri da Kansas City. Alla nuova fattoria Walt, la mamma Flora, 
Roy (il fratello più grande di otto anni) e Ruth Flora (la sorellina nata 
due anni dopo Walt) arrivano una settimana prima del padre. Una 
settimana che verrà ricordata da tutti come il periodo più bello e felice 
senza quel padre che non ride mai, che non gioca mai, che non ha mai 
un gesto affettuoso, che non fa altro che proibire e punire con gesti 
violenti. Quando una settimana più tardi arrivano Elias e i due fratelli 
maggiori la gioia finisce e si torna al terrore. Non mancano comunque 
altri momenti felici alla fattoria, soprattutto quando lo zio Ed va a far 
loro visita. Ed è il padre che Walt avrebbe voluto avere, sembra un po’ 
matto ma è l’unico capace di stare dietro alle sue fantasticherie. 
Insieme parlano, scherzano, vanno a passeggio nella campagna. Nella 
biografia di Thomas non si parla della scomparsa dello zio Ed, che 
sparisce improvvisamente senza spiegazioni, mentre in quella non 
autorizzata di Leonard Mosley si dà notizia della sua morte, avvenuta 
dopo il ricovero in una casa di cura per malati di mente.  
Nel 1910, i Disney si trasferiscono nuovamente per andare in città, a 
Kansas City. Il lavoro di Elias non va bene, la sua salute è assai 
precaria e aggravata da un grande oltraggio ricevuto: i primi due figli
25 
scappano di casa. Il trasferimento dalla campagna in città genera 
inoltre una piccola tragedia per Walt e Roy: tutti gli animali della 
fattoria vengono venduti, nonostante le insistenti implorazioni al 
padre. È proprio in città che la lotta con il padre-padrone arriva al suo 
culmine. Qui, Elias Disney organizza la consegna quotidiana dei 
giornali, per la quale coinvolge un gruppo di ragazzi tra cui i suoi due 
figli Roy e Walt. Il lavoro è durissimo: bisogna alzarsi alle tre per 
riuscire a fare tutte le consegne prima di andare a scuola e la 
ricompensa non è che di pochi spiccioli. A diciannove anni Roy non 
ne può più e anche lui va via di casa, rendendo ancora più dura la vita 
di Walt. Nel corso di alcuni lavori per l’ampliamento della casa, Elias 
pretende aiuto dal figlio e quando non lo riceve nella maniera voluta 
lo colpisce con qualsiasi attrezzo egli abbia tra le mani in quel 
momento. Un giorno di questi Walt, su consiglio di Roy (con il quale 
si mantiene sempre in stretto contatto), cerca di reagire e gli blocca le 
mani armate di martello. Negli occhi di Elias spuntano le lacrime, 
Walt allenta la presa e va via. Da allora il padre non lo picchia più. 
La biografia di Thomas, rispetto alle altre non autorizzate, non si 
sofferma sul dolore patito da Walt per l’incapacità della madre di 
proteggere il figlio da un padre austero e violento. Un dolore per 
l’assenza di conforto e di protezione che, per fortuna, viene recepito e 
ridimensionato del fratello Roy. Per fortuna, perché, come scrive 
Alice Miller nel suo saggio La chiave accantonata,  
 
quando la sconfinata impotenza dei bambini non trova mai il rifugio e il conforto 
di braccia amorevoli, non può che mutarsi in durezza e spietatezza. È la presenza 
o meno d’un testimone soccorrevole nell’infanzia a decidere se un bambino
26 
maltrattato diverrà un artista capace di comunicare le proprie sofferenze oppure 
un despota.
4
 
 
A quindici anni, Walt riesce ad acquistare un po’ di autonomia con un 
lavoro alle ferrovie, poi come manovale e postino, fino all’esperienza 
militare in Francia. Al suo ritorno, invece che dai genitori, preferisce 
andare dai fratelli. Il silenzio con i genitori dura fino al 1938, è infatti 
dopo i suoi più grandi successi (nel ’37 esce Biancaneve)  che Walt 
ritorna ad avere loro notizie. Sono in Oregon, il padre fa il falegname 
e la madre è caduta in depressione. Roy e Walt comprano una casa per 
loro a Los Angeles, ma la depressione della madre è sempre più acuta 
tanto da non trovare divertenti neppure i cartoni animati: soprattutto 
esprime il suo disappunto per la voce di Mickey Mouse, pur sapendo 
che è quella di Walt in falsetto. Nello stesso anno Flora Disney  muore 
per una fuga di gas. Nella biografia non autorizzata si parla di suicidio 
e di un possibile senso di colpa di Walt per aver scelto personalmente 
la casa in cui è avvenuta la tragedia. Il padre, rimasto vedovo, entra 
negli studi Disney e cerca anche di rendersi utile all’azienda con 
qualche lavoretto manuale. Quando Elias muore Walt, in viaggio in 
Sudamerica, non torna per partecipare ai funerali. Questo rapporto 
tormentato lo si ritrova camuffato in molte sue opere, in circostanze e 
personaggi che lo sottendono. 
 La biografia di Walt Disney ben rispecchia quello che da sempre, e 
ancora oggi, è il mito della società americana: l’America è la terra 
delle opportunità, della tenacia, la terra dove tutti possono aspirare al 
successo. Tutto in America parla di questo, dalla statua della Libertà 
                                                 
4
 A. Miller, La chiave accantonata, Garzanti, Milano 1993.
27 
che si scorge imponente  appena ci si avvicina  all’isola di Manhattan 
alla biografia di Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati 
Uniti negli anni dell’ascesa al successo di Disney. Biografia che vede 
un uomo semplice e buon padre di famiglia, malato di poliomielite 
diventare presidente. Parabola che celebra una delle più importanti 
liturgie americane, quella dell’aspirazione al successo per tutti. 
Numerosi risultano i film e le opere, numerose le storie che ci parlano 
di menomazione, di malattia, di povertà estrema. Requisiti che 
sembrano essere, paradossalmente, il veicolo ideale per innalzarsi ai 
gradini più alti della scala sociale. Da Bill Clinton, povero orfano 
figlio di un’infermiera, adottato in seguito da un alcolizzato, a John 
Fitzgerald Kennedy, giovane minacciato da un oscuro male provocato 
da una vicissitudine di guerra. Sostegni ortopedici appaiono nella 
memorabile rivisitazione immaginaria dei miti dell’innocenza e del 
successo che è il film Forrest Gump. Insomma, nell’immaginario 
americano c’è tutto un corteo di eroi menomati che, attraverso le loro 
sfortune, raccontano il leggendario tragitto dall’anonimato alla gloria. 
Naturalmente, il logorante mito del successo a tutti i costi molto 
spesso resta un sogno non trasformandosi in realtà, e allora vediamo 
nascere gli alibi, gli ammortizzatori ai contraccolpi del mito. Le molte 
storie catastrofiche a cui assistiamo in numerosissimi film americani 
hanno proprio la funzione di ammortizzare il colpo, possono servire, 
cioè, ad alleviare l’assillo del successo che tarda ad arrivare. Il 
terremoto, la valanga, il vulcano irato sono vissuti come sanatoria ai 
fallimenti dell’uomo, come alibi cosmico al non essere riusciti a 
diventare “qualcuno”. Lo scampare a una catastrofe funge da antidoto
28 
ai veleni fabbricati dalla febbre del successo. Alla fine della tempesta i 
superstiti si abbracceranno, non come trionfatori  ma come riscopritori  
del semplice gusto di vivere, di cui avevano perso il significato nella 
folle corsa verso obiettivi alquanto improbabili. Riscopritore sarà, 
assieme agli attori della tragedia con i quali si immedesima, anche lo 
spettatore che si sentirà rassicurato. Una funzione illusionistica hanno 
invece le saghe degli eroi vincenti, come Superman, Batman, 
Spiderman. Essi incitano lo spettatore a immedesimarsi, infatti 
l’attenzione ossessiva con cui mantengono segreta la propria identità 
fa pensare che chiunque può essere un superuomo.   
Al contrario, la figura dell’eroe perdente, del loser, serve a lenire le 
bruciature lasciate dalla gara del successo, ha cioè una funzione 
consolatoria. I cartoon sono affollati di eroi perdenti, uno fra tutti, 
disneyano, è Paperino, il primo grande perdente nato nel 1934, in 
un’epoca in cui si sente il bisogno di essere sollevati dall’abbattimento 
morale e materiale che imperversa tra gli americani. Paperino è uno 
spiantato perenne, sempre al verde, sempre alla ricerca di un lavoro 
vero che non trova mai. Ma, allo stesso tempo, egli non è l’immagine 
della disperazione, benché sia senza lavoro, continua a vivere nella 
bianca casetta del sogno americano, con l’immancabile giardino, la 
cassetta della posta, il garage e l’auto. Sempre un po’ sotto l’ombra 
del suo più fortunato amico Topolino, Paperino fa simpatia perché è 
imperfetto e svogliato ed è più facile immedesimarsi in lui e nelle sue 
disavventure. Topolino rappresenta la virtù, l’ideale comportamento 
conforme ai fermenti della società di Roosevelt.
5
 
                                                 
5
 F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, Il Mulino, Bologna 2002.