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Introduzione
Lo studio del linguaggio politico come discorso risale agli anni ’60. Grazie
soprattutto al lavoro del filosofo Michel Foucault, in quegli anni si iniziò ad
utilizzare tale approccio per analizzare il linguaggio delle istituzioni e degli agenti
politici. L’intera attività istituzionale cominciò quindi ad essere studiata
cercandone finalità specifiche, quelle della ricerca del consenso e della gestione
del potere. Del linguaggio politico non si studiarono più semplicemente le
costruzioni semantiche o sintattiche, ma anche i simboli ed i riti. Da questo
spunto, ebbero successivamente impulso gli approcci alla materia in senso
linguistico e politologico.
Come spesso accade, alla conseguente fioritura di studi seguirono profonde
divergenze fra gli studiosi. Secondo Giorgio Fedel [1999], nella letteratura
specifica prevalgono due dimensioni. La prima, detta panpolitica, intende l’intero
linguaggio naturale come interazione tra almeno due individui e quindi come
politico: è la prospettiva del discorso politico come istituzione sociale, non
discernibile dagli altri linguaggi, ed inteso come parte dei processi di potere,
consenso e legittimazione propri della politica [Cedroni e Dell’Era, 2002]. L’altra
dimensione, quella patologica, considera invece il discorso politico come
semirazionale o irrazionale e orienta il proprio percorso di analisi sulla base della
lontananza rispetto alla cosiddetta argomentazione razionale. Si tratta del
linguaggio tipico dei regimi totalitari o di quello derivante dalle distorsioni
comunicative evidenti in alcuni dei moderni regimi democratici. A tali due
dimensioni, come sottolineano Lorella Cedroni e Tommaso Dell’Era, occorre
aggiungerne una terza, quella del linguaggio politico come linguaggio settoriale,
legato alla lingua comune e ad altri linguaggi speciali e contestuale ad un proprio
ambito di pertinenza dai confini non sempre ben definibili.
Ci troviamo di fronte dunque a tre possibili alternative: una che elimina il proprio
oggetto di studio, un’altra che vede il linguaggio politico come mancante delle
essenziali funzioni linguistiche (siano esse la qualità, la chiarezza, la
precisione…), ed infine un’ultima, per molti versi ormai antiquata, che prova a
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spiegare i meccanismi di intersezione tra linguaggio e politica nelle moderne
società occidentali.
Appare opportuno in questo senso riorientare le ricerche in direzione
multidisciplinare, ricercando le corrispondenze tra la dimensione linguistica e
quella istituzionale, cercando di capire che tipo di codici prevalgono in questo
particolare ambito della vita sociale e servendosi di diversi paradigmi di studio. È
infatti ormai indubbio che tra la prassi politica ed il suo linguaggio esista una
precisa corrispondenza, e che prassi e linguaggio si influenzano e si modificano
vicendevolmente. La politica orienta gli attori nello scegliere il proprio
linguaggio, e la lingua non si limita ad una mera funzione strumentale, bensì ad
un’attiva opera di cambiamento e di modificazione della realtà.
Scopo di questo lavoro è quello di contribuire alle ricerche sul linguaggio e sul
discorso politico con un’attenzione particolare ad una problematica specifica,
quella retorica, intersezione ideale negli studi tra l’impostazione della scienza
politica e quella della filosofia del linguaggio; ciò ha richiesto una selezione della
letteratura che tenesse in conto soprattutto i discorsi ed i prodotti linguistici delle
istituzioni e degli agenti politici, ma contemporaneamente anche i problemi posti
dalle problematiche illustrate da Foucault e dalle riflessioni rispetto alla
dimensione politica insita nel linguaggio stesso. Rispetto ai problemi propri della
via retorica, anticipiamo qui un’intenzione di base, quella di esplorare la funzione
persuasiva del linguaggio politico: prospettiva che rifiuta di scindere gli aspetti
razionali e quelli irrazionali di un processo persuasivo e che cerca di far quadrare
il cerchio tra emozione, logica, stile e verità. Per far ciò abbiamo pensato un
percorso che partendo da un’ottica più teorica e ricca di complessi paradigmi
interpretativi si confrontasse con il ricorso ad una sempre più feconda tradizione
di studi aristotelici che vede nella teoria centrale della persuasione del filosofo di
Stagira una pietra angolare per la comprensione dei fenomeni retorici.
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Primo capitolo: Il linguaggio ed il discorso politico
«Every ideology is only the false mask for schemes in behalf of the strongest»
Chaim Perelman, The New Rethoric and Humanities, p. 143
«When I use a word, it means what I want it to mean, neither more nor less…
The question is who is to be the master, that’s all»
Lewis Carroll, Alice Through The Looking Glass, p. 190
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1.1 Il linguaggio politico
Secondo i politologi Cedroni e Dell’Era [2002], i campi di analisi del linguaggio
politico sono essenzialmente tre: il linguaggio della teoria politica, il linguaggio
della ricerca politica ed il linguaggio della prassi politica. Secondo i due studiosi,
il primo è il momento essenzialmente speculativo, di studio; il secondo è quello
operativo, ed il terzo è quello maggiormente pratico, concreto.
Ciò che ci interessa principalmente in questo senso, non è tanto una distinzione,
bensì al contrario un’attenzione a quello che accomuna questi linguaggi. Esiste,
secondo i due studiosi, una struttura socialmente determinata, dipendente dai
diversi contesti ideologici, culturali e storici che danno vita a «comportamenti
linguistici altamente differenziati, utilizzati per il posizionamento dei partiti e dei
leader o per attivare processi di identificazione e mobilitazione». Questa è un’idea
importante, proprio perché è il primo elemento di legittimazione di uno studio in
un ambito di ricerca contrassegnato da una così vasta mole di materiale da
prendere in considerazione.
Paul E. Corcoran sostiene che «il linguaggio politico come paradigma in scienza
politica è tutt’altro che chiaramente definito» [1990, p. 66]. È un’affermazione
quasi unanimemente (e tacitamente) condivisa dagli studiosi consultati per questo
lavoro. Sicuramente esiste un secondo elemento che funge da collante rispetto ai
diversi campi proposti come elementi fondamentali dell’analisi, ed è la
caratteristica destinazione pubblica del linguaggio, sia essa intesa come
riguardante le idee sia i progetti o anche le semplici opinioni. Definire il concetto
di linguaggio politico in realtà serve maggiormente a denotare una diversità
esistente rispetto al discorso politico, anche se molti studiosi sembrano
confondere i due concetti. È proprio per questo che all’interno del significato di
discorso politico Cedroni e Dell’Era propongono una definizione del solo
linguaggio politico, visto come «l’insieme di costruzioni linguistiche
rappresentative o denotative, semantiche o connotative, pragmatiche o razionali»
[2002, p. 56].
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Sicuramente però, esistono altri elementi di interesse su questo stesso concetto. Il
politologo americano Edelman si spinge ad affermare che «il linguaggio politico è
la realtà politica» [1992, p. 98]. Con questo si vuole fare riferimento non solo ad
un’idea di linguaggio come parte integrante e costituente del discorso politico, ma
anche ad un altro problema: che tipo di esperienze ha l’opinione pubblica della
politica? Escludendo infatti i cosiddetti addetti ai lavori, cioè coloro i quali
«fanno» la politica, anche chiunque non si limiti soltanto alle dichiarazioni verbali
dei politici, ma si informi e ottenga anche altri prodotti degli stessi (leggi o
prodotti di altre istituzioni politiche, per esempio), sarà sempre caratterizzato da
un’esperienza «sul linguaggio degli eventi politici, piuttosto che sugli eventi
stessi» [ibid.]. Ecco perché il linguaggio politico riveste una grande rilevanza per
l’intera società: seguire la politica per un comune cittadino è un’esperienza
linguistica, che spesso può comportare numerose difficoltà; a questo proposito si
pensi ad esempio a quando si incontrano la politica ed il burocratese.
Cos’è invece il discorso politico, dunque?
1.2 Il discorso politico
Riprendendo il filosofo Michel Foucault, Chris Weedon definisce come discorso
«i modi di costruzione della conoscenza insieme alle pratiche sociali, alle forme di
soggettività e alle relazioni di potere inerenti a tali conoscenze, e alle relazioni tra
loro. I discorsi sono più che dei semplici modi di pensare e di produrre significato.
Costituiscono la natura del corpo, della mente (incosciente e cosciente) e della
vita emozionale dei soggetti che cercano di governare» [Weedon, 1987, p. 108,
trad. mia]
Qui c’è tutta la grande attenzione che Foucault rivolge alla storia, con un precipuo
senso archeologico (o genealogico) [1969] di uno studio della produzione di
conoscenza nel corso dei secoli; con ciò egli intende guardare alle continuità e alle
discontinuità dell’epistéme prodotta nel tempo, laddove per epistéme intende il
sistema di costruzione delle conoscenze che primariamente influenzano il