INTRODUZIONE 
 
 
    Analizzare criticamente i rapporti intercorrenti fra danza ed arte figurativa è 
l’obiettivo che si prefigge questo lavoro, che prende le mosse dalla constatazione che le 
relazioni fra le arti figurative e quelle non figurative, sebbene siano sempre state 
presenti nella storia dell’evoluzione umana, subiscono un’accelerazione a partire dalla 
seconda metà dell’Ottocento, fino a diventare, durante il Novecento così intime da 
costituire un passaggio obbligato per una comprensione critica dell’intero periodo 
storico.  
    Nell’affrontare questo argomento si è rinunciato a cercare di esplorare le connessioni 
tout court fra arte e danza e si è invece puntato ad un ambito specifico molto ristretto, 
sia da un punto di vista cronologico che culturale. Questa scelta è stata frutto sia di una 
esigenza pragmatica che di una volontà specifica. Per ciò che attiene l’esigenza, il 
lettore può ben comprendere che puntare ad analizzare tutto il rapporto fra arte e danza, 
senza limiti cronologici e geografici, avrebbe comportato un lavoro di carattere 
enciclopedico, certamente improponibile in questa sede e di gran lunga esulante gli 
obiettivi di una tesi di laurea. Per quanto riguarda la volontà specifica, altresì, chi scrive 
è stato mosso dall’interesse non tanto di capire in generale quali potessero essere i 
rapporti fra arte e danza, poiché questi sono stati peraltro già ben sondati dalla critica, 
ma piuttosto di tentare di comprendere, tramite analisi critica approfondita, con quali 
modalità si sviluppa un testo figurativo, inteso come documento visivo, che abbia una 
diretta connessione con la danza. In altre parole si è tentato di capire in quale modo 
l’interconnessione fra arte e danza si sia potuta tradurre visivamente in un quadro, stante 
oltretutto la considerazione che caratteristica primaria del dipinto è la staticità mentre 
caratteristica primaria della danza è il movimento, e quindi, apparentemente, esse sono 
due forme d’arte inconciliabili. 
    Alla scelta definitiva di due soli quadri appartenenti al neoplasticismo, cioè «Danza 
Russa» di Theo van Doesburg [fig. 23] e «Broadway Boogie Woogie» di Piet Mondrian 
[fig. 43], si è giunti tramite un progressivo restringimento di ambiti artistici. In una 
prima fase sono state prese in esame, tramite archivi iconografici, opere riguardanti la 
 V
danza – anche quando questa non era il soggetto primario – senza badare al contesto 
cronologico e culturale; successivamente si è selezionato il materiale ottenuto 
restringendo l’ambito geografico alla sola Europa Occidentale e l’ambito cronologico 
tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento; il passo ulteriore ha 
visto la focalizzazione sul periodo delle Avanguardie e in un secondo momento 
sull’astrattismo nelle Avanguardie; infine si è puntato al solo «neoplasticismo» e 
all’interno di esso si è concentrata l’attenzione sugli artisti maggiormente 
rappresentativi analizzando un quadro per ciascuno. 
    Un simile processo ha comportato uno studio selettivo ingente che per economia di 
spazi non può essere esposto in questo lavoro, ed il lettore dunque troverà l’analisi 
esclusiva ed approfondita dei due dipinti selezionati, mentre le rimanenti opere 
riguardanti la danza dei due autori scelti verranno prese in considerazione solo per 
esigenze di contestualizzazione. 
    La necessità di contestualizzazione, indispensabile per un corretto approccio 
all’analisi dei dipinti, ha tuttavia reso necessaria la stesura di un primo capitolo di 
presentazione generale della questione relativa al rapporto fra danza e arte, capitolo nel 
quale, brevemente, si forniscono direttive generali per la comprensione di tale relazione, 
sintetizzando la sua evoluzione storica pur concedendo maggior spazio al Novecento. 
    La scelta di concentrarsi solamente su due opere d’arte, analizzandone attentamente 
le caratteristiche compositive, scaturisce anche dalla constatazione che in generale la 
critica ha affrontato il rapporto fra arte e danza puntando principalmente e quasi 
esclusivamente sullo studio dei rapporti fra artisti e danza, non fra opere d’arte e danza. 
La differenza, che potrebbe apparire sottile, è invece sostanziale poiché si è dato 
maggior spazio ad una prospettiva analitica di carattere storico più che artistico, col 
risultato che si è fatta ampia luce sul rapporto fra artisti e danza ma si è trascurato lo 
studio delle singole opere d’arte. Ciò è dovuto, in parte, al fatto che lo studio del 
rapporto fra arte e danza è stato portato avanti principalmente da studiosi della danza 
piuttosto che da storici dell’arte, e quindi i primi, come era naturale che fosse, hanno 
orientato le proprie ricerche più sull’ambito storico che su quello prettamente artistico. 
    La volontà di puntare sulla singola opera ha comportato l’esigenza di leggerla in 
modo estremamente analitico, sondandone specificatamente le singole caratteristiche. I 
quadri sono stati scomposti, studiati nelle singole parti ed i risultati intermedi sono stati 
 VI
alla fine riassemblati per recuperare un’ottica generale. Il processo è stato quindi quello 
analitico – sintetico. La fase analitica, puntando ad un approfondimento il più preciso 
possibile, è stata necessariamente svolta in modo estremamente sistematico ed ha 
comportato in alcune parti una resa linguistica meno fluida.  
    La scelta di analizzare due opere figurative realizzate con il linguaggio del 
neoplasticismo, e di riferirsi quindi più strettamente all’astrattismo nelle Avanguardie, è 
scaturita da un’esigenza di comprensione iconografica di opere che apparentemente, 
proprio per il loro carattere astratto, non avevano nessuna connessione prettamente 
visiva con la danza. In altre parole se, ad esempio, un quadro espressionista propone un 
soggetto danzante tale soggetto è immediatamente riconoscibile e quindi la 
comprensione dei significati di quel quadro parte proprio da un riconoscimento che non 
si pone come problematico; invece per un quadro astratto il primo e principale problema 
è capire in che misura la sua composizione, nella quale non è riconoscibile un soggetto 
figurativo naturalistico, possa avere a che fare con la danza, e solo in un secondo 
momento si può procedere all’analisi degli eventuali significati. È un lavoro più 
complicato e per questo più affascinante. 
    Aver puntato sul neoplasticismo ha comportato che il processo analitico-sintetico di 
studio si basasse sui principi estetici neoplastici, riferibili a pochi punti fondamentali, i 
più importanti dei quali sono la linearità ortogonale e l’uso dei colori primari puri, cui si 
aggiunge la ricerca di un «nuovo equilibrio». Il lettore dunque troverà che nell’analisi 
dei quadri è stata data rilevantissima importanza alle singole linee, a volte una per una, 
le quali sono state studiate nella loro posizione rispetto al contesto totale del quadro, nel 
loro orientamento, nel loro colore e nell’effetto finale che procurano alla composizione. 
Può apparire troppo accentuata l’importanza che si è data alle singole linee, o ai singoli 
elementi in generale, ma questa impressione deve essere superata con la considerazione 
che il neoplasticismo «è» basato sulle linee e quindi sono le linee della composizione 
che devono essere studiate con un’attenzione certosina, per cercare di avvicinarsi al 
significato del dipinto. 
    Accanto ad ortogonalità e colore il lettore troverà che l’analisi punta costantemente 
con particolare interesse alla verifica della presenza o meno di «movimento» all’interno 
dei dipinti. La ricerca del movimento è il cuore dell’interpretazione dei dipinti, poiché 
 VII
essi, essendo correlati alla danza, non possono esimersi dal movimento e dalla sua 
rappresentazione più o meno enfatizzata. 
    Il risultato di tutte le esigenze analitiche esposte, unito alla volontà di creare un 
lavoro equilibrato e suddiviso con criteri di corrispondenza che permettessero al lettore 
di non perdere l’unitarietà dello studio, ha comportato una divisione in quattro capitoli, 
il primo dei quali, come già esposto, di introduzione e contestualizzazione, il secondo 
ed il terzo dedicati ai due dipinti singolarmente analizzati, ed infine il quarto dedicato al 
confronto fra i due dipinti ed alle considerazioni finali. 
    Si tenga presente che i capitoli II e III sono concepiti come totalmente indipendenti 
l’uno dall’altro e che in essi non vengono fatti riferimenti incrociati, sebbene la 
suddivisione in paragrafi sia esattamente la medesima, per far fronte alle esigenze di 
corrispondenza summenzionate. Questi due capitoli sono dedicati all’analisi 
iconografica e sono sviluppati affrontando prima una descrizione generale ma 
dettagliata del dipinto ed in seguito trattando specifiche problematiche legate agli 
equilibri interni, al colore ed al movimento. Si è scelto di non studiare analiticamente 
tutto ciò che la critica ha proposto per questi quadri e di puntare solo su alcuni testi 
ritenuti fondamentali per il percorso di lettura prescelto. Anche questa scelta è stata da 
un lato necessaria e dall’altro pienamente voluta. Necessaria poiché la bibliografia 
critica, soprattutto sul dipinto di Mondrian, è in costante evoluzione e troppo vasta per 
essere affrontata «tutta» in questa sede; voluta poiché lo scrivente, prima di conoscere 
tutti i giudizi critici altrui, ha voluto confrontarsi direttamente ed in prima persona col 
documento visivo per poi verificare se le proprie analisi e conclusioni potessero essere 
supportate e fondate. Questo non ha significato, ovviamente, un disinteresse totale per la 
produzione critica precedente, e ciò che più importa, inoltre, è che gli scritti degli artisti 
sono stati invece attentamente studiati per verificare in che modo le teorie estetiche 
potessero poi trovare spazio nella produzione artistica materiale. 
     Infine per ciò che attiene alle illustrazioni presentate, sono principalmente quelle 
relative ai quadri studiati e, dove possibile, quelle relative agli altri dipinti menzionati in 
testo, completate da alcune immagini dei dipinti analizzati modificate al computer per 
necessità esplicative. 
 
 
 VIII
I. ARTE E DANZA 
 
 
I. 1. Un rapporto atavico 
 
    Il rapporto fra uomo occidentale contemporaneo e danza passa oggi prevalentemente  
attraverso il filtro dello spettacolo o dell’elemento ludico di intrattenimento. Ciò vale in 
realtà per chi non partecipa in prima persona all’attività della danza, cioè per chi è 
abituato ad osservarla esteriormente senza viverla direttamente in modo profondo. Chi 
invece danza, per i più svariati motivi che possono andare dal semplice diletto alla 
professione lavorativa, o chi si occupa di danza da un punto di vista storico-culturale, 
quindi chi la studia, riconosce in questa atavica attività dell’essere umano proprietà che 
oltrepassano di gran lunga la sfera del semplice spettacolo
1
. 
    Se oggi si è perso un po’ di vista il significato dell’origine di questa attività nonché, 
quel che forse è peggio, la dignità che essa possiede in quanto manifestazione artistica 
verso la quale si deve avere rispetto, le origini della danza, strettamente connesse alle 
origini dell’uomo, sono ben lungi dall’essere legate all’elemento dello spettacolo, ma 
affondano invece le proprie radici in vere e proprie esigenze connesse alla sfera 
religiosa
2
, intendendo questo termine in una accezione ampia ove rientrano misticismo, 
paure ataviche dell’uomo, elementi sessuali e riti di iniziazione. 
    Non è certamente nostro intento ripercorrere in questa sede l’evoluzione della danza 
nella storia e le sue caratteristiche, i suoi stili e significati in relazione a coordinate 
cronologiche e topografiche; tuttavia nell’affrontare la connessione fra arte e danza il 
primo passo deve essere necessariamente quello di sgombrare il campo da eventuali 
equivoci che potrebbero compromettere l’analisi. Il primo equivoco è appunto quello di 
                                                 
1
 Per i rapporti fra l’epoca a noi contemporanea e la danza vedi il saggio di A. PONTREMOLI, La danza. 
Storia, teoria, estetica del Novecento, Laterza, Bari 2004. 
2
 Per ciò che attiene l’aspetto antropologico in generale molto interessanti le pagine riferite alla danza 
all’interno di E. CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 2004; tali pagine non si citano qui 
singolarmente poiché il loro elenco si trova nell’indice analitico del medesimo testo, a p. 606. Per la 
connessione con le religioni in senso stretto cfr. A. DI NOLA in AA.VV, Enciclopedia delle Religioni, 
Vallecchi Editori, Firenze 1970, sub vocem «danza», vol. II, pp. 582 – 591. 
 
 1
pensare alla danza solo in un’ottica odierna dimenticando le sue origini, errore che deve 
essere superato poiché la modalità con cui muta la maniera di rappresentare 
figurativamente la danza è saldamente connessa, ovviamente, all’evoluzione dell’arte 
ma altrettanto stabilmente legata all’evoluzione della danza. 
    Le motivazioni di una così intima connessione fra la danza e la produzione artistica, 
ai primordi soprattutto dell’evoluzione dell’uomo, vanno ricercate nella funzione 
«religiosa» della danza così come descritta nelle righe precedenti. Ciò non ha 
comportato, naturalmente, nello sviluppo della produzione di opere d’arte dopo 
l’avvento del cristianesimo, una presenza di soggetti danzanti, soprattutto in Italia, dalla 
consistenza anche lontanamente paragonabile al numero di opere raffiguranti Cristo, la 
Vergine Maria o i santi; tuttavia la danza è sempre stata presente nella storia dell’arte ed 
ignorare la sua presenza, o anche solo sminuirla, comporta un grave danno non solo per 
la comprensione generale della storia del nostro passato ma anche per la comprensione 
dell’evoluzione dell’arte stessa, soprattutto a partire dal momento in cui la società 
moderna muta radicalmente e con essa la committenza artistica, il ruolo degli artisti ed 
il loro modo di fare arte. 
    Il lettore, nei prossimi paragrafi, troverà una panoramica generale dell’evoluzione dei 
rapporti tra arte e danza, limitata, per necessità di sintesi, all’ambito occidentale e alla 
citazione degli esempi artistici più famosi. 
     
 
 
II. 2. Linee di evoluzione 
     
    Rintracciare le prime manifestazioni figurative della danza comporta una 
problematica critica ardua e che necessita il coinvolgimento di conoscenze che si 
estendono ben oltre la sfera storico-artistica. In questa sede non è possibile affrontare 
con la dovuta attenzione tale problematica, tuttavia, per non essere eccessivamente 
disorientati, e per non poggiare su basi troppo vacillanti l’inizio della nostra trattazione, 
si possono prendere come eccellente riferimento le parole di Sachs il quale ci informa 
che «Le sole testimonianze dirette che possediamo sulle origini della danza, ci sono 
 2
fornite dalle pitture rupestri, opera dell’uomo paleolitico, il quale migliaia di anni fa 
abitava il suolo della Francia.»
3
, ma che, cosa più importante per noi da un punto di 
vista proprio artistico, subito dopo precisa che «Indubbiamente tali testimonianze 
risultano scarse, soprattutto perché non si può vedere nelle tracce spesso confuse di 
queste immagini quanto noi ameremmo trovarvi. Solo pochissime di queste pitture 
permettono un’interpretazione sicura»
4
. 
    È chiaro dunque da un lato come la danza, nata con l’uomo e subito impregnata di 
significati profondi, non abbia tardato ad essere rappresentata figurativamente e anzi ci 
saremmo dovuti stupire se così non fosse stato: è un dato acquisito che fin dalla 
preistoria esistono immagini legate alla danza; dall’altro lato è evidente che da subito, e 
non solo per il cattivo stato di conservazione delle opere preistoriche, l’identificazione 
iconografica della danza ha posto problemi.  
    La questione della incertezza dell’interpretazione iconografica non è affatto 
indifferente. Infatti, a parte le raffigurazioni rupestri preistoriche dalle quali non si può 
certo pretendere una precisione figurativa assoluta, laddove non si pongono 
problematiche conservative ed in contesti in cui i pittori riuscivano già perfettamente a 
rendere le proprie figure, il problema interpretativo a volte rimane. Certo, una persona 
che si muove nello spazio agitando gli arti accanto ad un’altra persona che suona uno 
strumento musicale non permette dubbi sulla propria attività, ma quando ad esempio 
sono del tutto assenti i suonatori – quindi in pratica la musica possiamo solo 
immaginarla come fuori campo, per dirla in gergo cinematografico – non è così scontato 
che le persone stiano danzando. Il dubbio può venire ad esempio quando ci si trova in 
presenza di folle intente a spostarsi in cerchio, mano nella mano o meno, poiché 
potremmo interpretare questa azione come un semplice «girotondo» che abbia poca 
attinenza con la danza. L’osservatore deve però considerare che lo spostarsi in circolo 
era un’attività ben lungi dall’avere finalità ludica, ed era invece proprio connessa con la 
danza tramite retaggi addirittura preistorici – molto ben documentato in questo senso il 
testo citato di Sachs. Anche in questo caso, dunque, com’è buona regola per 
                                                 
3
 C. SACHS, Storia della danza, NET, Milano 2006, p. 237. L’opera di Sachs, pubblicata per la prima 
volta nel 1937, rappresenta una base da aggiornare in alcuni punti ma fondamentale per lo studio 
dell’evoluzione e della storia della danza. Si omette di citare il testo in ogni passaggio storico, ma il 
lettore tenga presente che esso è sempre stato utilizzato come punto di riferimento. 
4
 Ibidem.  
 3
l’interpretazione iconografica, una buona contestualizzazione storica della scena 
raffigurata è indispensabile per diminuire le probabilità di cadere in errore
5
. 
 
    Se volessimo adesso approfondire la questione dello sviluppo iconografico senza 
porci dei limiti dovremmo spostare la nostra visuale verso oriente e analizzare la storia 
indiana, cinese ed egizia, diversi secoli prima di Cristo. Sono queste le culture che ci 
hanno infatti lasciato varie e significative testimonianze figurative della danza, sempre 
connesse in qualche modo a tematiche religiose
6
.      
    Per rimanere invece ad un contesto a noi più prossimo e familiare dobbiamo 
avvicinarci geograficamente e cronologicamente e guardare alla Grecia antica, non 
necessariamente a quella classica. Anche nel mondo ellenico la danza, insieme con la 
musica, rivestì un ruolo importante in relazione alla religione ed al mito poiché essa era 
vista come «un dono degli dei ed un mezzo per gli uomini di accostarsi alla divinità o 
addirittura identificarsi con essa»
7
 e questo carattere rituale è analizzabile proprio grazie 
alle testimonianze figurative che ci sono rimaste; tali testimonianze, combinate 
oltretutto a quelle letterarie
8
, sono così cospicue che è oltremodo arduo fornirne un 
atlante di veloce lettura e vi si deve qui rinunciare. Sono davvero tante le raffigurazioni 
della danza nella Grecia antica, luogo in cui aveva per altro anche la sua Musa, ovvero 
Tersicore, e la rappresentazione di scene di danza ricorre con frequenza anche nella 
ceramica. È soprattutto nell’ambito della plastica, comunque, che la danza ha ispirato 
opere di qualità, e fama, eccellenti, e non si può fare a meno di menzionare i rilievi con 
le «Menadi danzanti»
9
 di Kallimachos, ultimo quarto del V sec. a.C., scultore, toreuta e 
pittore ben avvezzo al tema della danza, e soprattutto, ancor più famosa, la «Menade 
                                                 
5
 A tal proposito vedremo nei cap. II e III come le opere analizzate pongano profondi problemi 
interpretativi. 
6
 Per una sintesi molto ridotta ma funzionale vedi AA.VV., La Danza, vol. 15 de «I grandi temi della 
pittura», De Agostini, Novara 2006. 
7
 La citazione è in A. FERRARI, Dizionario di mitologia, vol. I e II, Gruppo Editoriale L’Espresso, 
Bergamo 2006, sub vocem «danza», vol. I, pp. 354 - 357. Per il rapporto fra danza ed arte antica Cfr. L. 
VLAD BORRELLI in AA.VV., Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, Istituto della 
Enciclopedia Italiana, Roma 1960, sub vocem «danza», vol. III, pp. 5 – 8. 
8
 «Il più antico riferimento mitologico a una danza che ci sia noto per il mondo classico si trova nell’ 
Iliade, dove, nella descrizione dello scudo di Achille, ci viene detto che sul margine della decorazione si 
trovava cesellata una scena di danza», A. FERRARI, Dizionario di mitologia…, cit., sub vocem «danza», 
vol. I, pp. 354 - 357. 
9
 Cfr. A. GIULIANO Storia dell’arte greca, cit., p. 294. Una copia di rilievo con menade si trova a Roma, 
presso il Museo dei Conservatori.  
 4
danzante» di Skopas
10
, seconda metà del IV sec. a.C. Le menadi
11
, portatrici di un vero 
e proprio «invasamento divino» che si manifestava nella danza, non potevano non 
divenire soggetto prediletto di raffigurazione e conseguentemente di trasmissione di una 
precisa iconografia di danza. A partire da questa considerazione non stupisce che la loro 
presenza nel mondo dell’arte figurativa antica sia cospicua, sebbene sia necessaria una 
piccola precisazione e cioè che «dato il genere del loro movimento, le menadi si 
prestano più al rilievo ed alla pittura che non a rappresentazioni a tutto tondo. […] Le 
nostre testimonianze più importanti dell’epoca greca sono perciò le pitture vascolari e i 
rilievi; nell’arte romana ed etrusca i rilievi e gli affreschi»
12
. Dunque esiste questa 
differenza nel mondo greco antico, e cioè che a livello quantitativo si rileva una 
presenza significativamente consistente di menadi per la pittura vascolare, mentre da un 
punto di vista qualitativo risultati più rari ma eccellenti vengono raggiunti dalla scultura. 
Una copia di una delle menadi di Kallimachos [fig. 1] ci permette di verificare 
visivamente sia quali alti livelli avessero raggiunto i rilievi intorno al 410 a.C., sia con 
quali modalità venisse rappresentata la danza. Panneggio e anatomia insieme alla cura 
dei dettagli – come ad esempio l’acconciatura ed i calzari – sono i veri protagonisti della 
menade di Kallimachos e soprattutto i primi due elementi ci coinvolgono direttamente a 
livello visivo ed a tutti gli effetti creano il movimento danzante. È la veste che col suo 
gioco di pieghe invita a partecipare alla movenza un corpo anatomicamente ben 
strutturato ma reso ugualmente flessibile anche grazie ad una controllata torsione. La 
torsione è un fattore che ci interessa primariamente poiché quando viene volutamente 
accentuata conferisce alla figura danzante una potenza espressiva significativa. È il caso 
della «Menade danzante» di Skopas [fig. 2], la torsione della quale arriva a creare quasi 
una vera e propria rotazione rispetto all’asse verticale del suo corpo. L’impeto che ne 
deriva fa si che in questo caso il corpo nudo sembra quasi volersi liberare da un 
panneggio che certamente segue le dinamiche della figura e partecipa ai suoi 
movimenti, ma al tempo stesso diventa quasi un filtro al contatto fra il corpo e lo spazio 
che si sta conquistando, un filtro che si vuole superare. Siamo intorno al 335 a. C. e 
sono passati più di settanta anni dall’opera di Kallimachos: la danza continua a 
                                                 
10
 Cfr. A. GIULIANO Storia dell’arte greca, cit, pp. 301 e 304.  
11
 E. SIMONS in AA.VV., Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, cit., sub vocem «menadi», 
vol. IV, pp. 1002 – 1012. 
12
 Idem, p. 1005. 
 5
conquistarsi il suo spazio, spazio inteso come importanza nella produzione artistica e 
spazio inteso fisicamente nelle singole raffigurazioni. 
    In ambito romano l’importanza della danza non è minore e per questo motivo anche 
in tale contesto non sono rare le sue raffigurazioni, ancora in questo caso a volte per via 
della rappresentazione delle menadi che tornano ad esempio sul versante pittorico a 
Pompei nella la «Villa dei Misteri»
13
. Per ciò che riguarda gli affreschi di questa villa «è 
notevole che nel fregio si trovi un’unica danzatrice in estasi tra le numerose addette 
femminili al culto: una menade nuda vista di schiena che suona dei cembali al di sopra 
della testa in una tipologia creata dall’arte ellenistica.»
14
 [fig. 3]. Questa figura danzante 
dunque ci interessa sotto vari aspetti. Innanzitutto la sua «unicità», cioè il fatto che sia 
una sola, è una novità poiché usualmente le menadi erano più figure partecipanti al 
medesimo «invasamento divino» e quindi al medesimo impeto di danza. A livello 
figurativo l’assenza di altre menadi attenua l’impeto collettivo ma non compromette il 
movimento totale della scena, poiché l’unica figura danzante rende partecipe 
l’osservatore col suo incedere ritmato dal passo sulle mezze punte. La figura quindi, 
essendo di spalle ed inoltrandosi verso l’interno della raffigurazione pittorica, invita 
l’osservatore a seguirla con lo sguardo che viene coinvolto anche dal corpo totalmente 
nudo e dal movimento del mantello. Infine l’avanzamento sulle mezze punte ed il suono 
dei cembali appaiono coordinarsi creando un risultato pittorico di pregevole fascino e 
notevole efficacia. 
    La profonda valenza simbolica della danza non accenna a diminuire durante il 
Medioevo. Uno dei motivi più ricorrenti ispirato da un episodio di storia sacra è la 
«Danza di Salomè», il cui numero di rappresentazioni è a tal punto cospicuo, anche ben 
oltre il Medioevo, che da un punto di vista iconografico può rappresentare un vero e 
proprio settore di indagine. Fra gli esempi si cita in questa sede quello di una formella 
del portale di San Zeno Maggiore a Verona [fig. 4], risalente alla fine dell’ XI sec. Si è 
scelto di menzionare questo caso fra i tanti perché qui la valenza simbolica assume una 
portata veramente pregnante. La figura umana danzante viene infatti quasi del tutto 
snaturalizzata poiché compie un movimento di torsione estrema possibile forse solo ad 
                                                 
13
 Per una monografia su «Villa dei Misteri» vedi G. SAURON, La grande fresque de la villa des Mystères 
à Pompéi, Picard éditeur, Parigi 1998.
14
 E. SIMONS in AA.VV., Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, cit., sub vocem «menadi», 
vol. IV, p. 1011. 
 6
una contorsionista professionista. Più che l’interesse nei confronti della danza conta qui 
il valore dell’atto che Salomè sta compiendo, un atto eseguito con un procedimento a 
suo modo ammaliante e che infatti nel racconto evangelico
15
 affascina Erode e le 
permette di ottenere addirittura la testa di un personaggio che il suo zio-patrigno aveva 
ben ragione di temere. Certo, se si considera che siamo alla fine dell’ XI sec. appare 
naturale che le figure siano state costruite tenendo conto più della valenza simbolica che 
dell’attinenza al corpo umano e al movimento danzante, e probabilmente è anche vero 
che l’artista avrebbe fatto enorme fatica a realizzare passi inequivocabilmente 
rappresentativi di una danza, ma resta il fatto che l’inarcamento della schiena della 
ragazza pare veramente avere in un certo senso qualcosa di «diabolico» e senza dubbio 
venne volutamente raffigurato in modo così accentuato.  
    La rappresentazione di soggetti danzanti durante il medioevo non si limita 
all’episodio di «Salomè»: non si può infatti non far menzione di Siena e del suo Palazzo 
Pubblico, ove nella sala dei Nove, fra il 1337 ed il 1339, Ambrogio Lorenzetti, 
nell’affrescare gli «Effetti e Allegorie del Buono e del Cattivo Governo» [fig. 5], riserva 
alla danza un vero e proprio posto d’onore e la carica di significati simbolici, 
raffigurando nella parte del «Buon Governo» nove figure che danzano in cerchio al 
ritmo di un tamburello suonato da una decima figura. Il caso di Siena non viene qui 
riportato semplicemente poiché così famoso che il lettore verrebbe disorientato dalla sua 
assenza, ma perché l’elemento simbolico di cui ci stiamo occupando in queste righe ha 
trovato nel Palazzo Pubblico terreno fertilissimo. Non potendo in questa sede analizzare 
tutta l’allegoria dell’intero affresco poiché ricca e complessa, è sufficiente considerare 
che la scena della danza si inserisce in un contesto pittorico in cui la chiave di lettura è 
inscindibilmente connessa agli elementi simbolici: la danza in questo affresco è di per 
sé un simbolo la cui valenza è rafforzata da due elementi, e cioè il fatto che le figure 
danzanti sono sovradimensionate rispetto alle altre e la considerazione che in quegli 
anni a Siena vigevano norme restrittive riguardo la danza nelle strade
16
. Se le figure 
sono più grandi delle altre e compiono un’azione che non è scontata nel contesto 
pubblico loro contemporaneo, una lettura allegorica appare come la più naturale. Quel 
                                                 
15
 L’episodio di Salomè si trova nel Vangelo secondo Marco (6, 17-28), e nel Vangelo secondo Matteo, 
(14, 3-11). 
16
 Lo statuto senese del 1309 – 1310 proibiva la danza nelle strade, cfr. E. CARLI, La pittura senese del 
Trecento, Electa, Milano 1981, nota n. 132, p. 262. 
 7
che affascina però ancor di più è che la lettura esclusivamente allegorica non ha trovato 
spiegazioni univoche, ma anzi è stata ridimensionata da altri studiosi che hanno spiegato 
le dimensioni maggiori delle figure danzanti con esigenze di natura spaziale. Inoltre, a 
rendere ancora più interessante l’intrigo interpretativo, non a caso finora si è parlato di 
figure danzanti e non di fanciulle: anche sulla identità sessuale infatti le opinioni 
divergono e se l’occhio è spontaneamente portato a ritenere le figure danzanti come 
femminili non è mancata anche un’interpretazione che le ha lette come figure maschili 
connesse ai giullari
17
. Il caso di Siena è assolutamente emblematico di due 
caratteristiche che concernono in generale la rappresentazione figurativa della danza, e 
cioè la valenza simbolica che non bisogna mai sottovalutare e le complessità 
interpretative che sempre accompagnano le raffigurazioni della danza e che a volte 
possono sovvertire anche questioni apparentemente assodate. 
    Il simbolismo delle rappresentazioni della danza trova forse il suo acme 
nell’iconografia della «Danza Macabra», diffusa a partire dal tardomedioevo, 
indubbiamente efficace mezzo di trasmissione del memento mori, e che trovò, 
successivamente, nella tradizione incisoria un ulteriore mezzo di diffusione. Quello 
della «Danza Macabra» è un argomento così complesso da costituire un settore di 
indagine specifico e non è possibile in questa sede andare a fondo della questione. 
Risulta a noi più conveniente, a tal riguardo, rinunciare alla citazione ed analisi di 
esempi specifici e mirare invece a trarre alcune riflessioni. Questo tema, che è anche un 
tema letterario, ci può interessare soprattutto per il fatto che, al si là del suo carattere 
simbolico, pone problematiche iconografiche e storiche non indifferenti. Infatti non è 
inequivocabilmente scontata l’origine di queste  
 
    «Rappresentazioni figurate e parlate, in cui i personaggi di condizioni 
differenti, alti signori laici ed ecclesiastici, donne, artefici, letterati, poeti, 
mendici, si veggono afferrati dallo scarno braccio di uno scheletro che sta 
ad indicare la Morte; la quale li trae seco e assai spesso strettamente li 
ghermisce e li cinge acciò non possano sfuggirle. Furono chiamate danze a 
cagione forse dei movimenti contorti e quasi convulsi delle figure 
                                                 
17
 Per una buona sintesi delle problematiche interpretative qui esposte, correlata da riferimenti precisi, cfr. 
M. M. DONATO, Gli effetti del buon governo in città, in E. CASTELNUOVO a cura di, Ambrogio Lorenzetti. 
Il Buon governo, Electa, Milano 1995, p. 148. 
 8
rappresentanti la Morte e le persone che venivano rapite da quella: 
atteggiamenti che ricordavan coloro che eran sorpresi dalle danze di 
frenesia religiosa così frequenti nel medio evo. Ma per quanto s’attiene 
all’origine di queste Danze di Morti, sebbene con tanta diligenza l’abbiano 
ricercata gli eruditi, non siamo venuti a niente di determinato e di certo. 
Né, a dire il vero, vorrei fermarmi a discutere se esse sian nate dal costante 
pensiero della Morte, che, come generalmente si credette, occupò le 
popolazioni cristiane all’avvicinarsi del mille […]; se i balli usati nel 
medio evo nelle chiese e nei cimiteri ne abbian fatto nascer l’idea; o se si 
debbano alle terribili epidemie che disertarono tanta parte d’Europa nel 
secolo XIV»
18
 . 
 
    Le parole sopra riportate, oltre ad essere una perfetta descrizione dell’iconografia 
usata per questo tema, ci informano chiaramente che nel caso della «Danza Macabra» 
la vera protagonista è la morte e non la danza, la quale è al servizio della prima 
evidentemente. È questo quindi uno di quei casi in cui bisogna prestare attenzione a non 
utilizzare acriticamente il termine «danza», perché da un punto di vista iconografico gli 
scheletri rappresentanti la morte non sono dei veri e propri ballerini sebbene attuino 
movimenti «contorti e quasi convulsi». In ambito italiano inoltre questo tipo di 
rappresentazione è meno frequente del «Trionfo della Morte», iconografia nella quale 
ogni riferimento alla danza scompare del tutto. 
 
    L’insistenza sul carattere allegorico delle rappresentazioni raffiguranti la danza è 
dunque assodata; tuttavia c’è da chiedersi, a questo punto, quale valenza avesse tale 
carattere allegorico, cioè se la danza fosse rappresentativa di istanze positive o viceversa 
negative. Una risposta assolutamente risolutiva a questo quesito è difficile proporla 
poiché, come abbiamo visto negli esempi citati, la danza viene certamente caricata di 
significati negativi quando è associata alla morte o alla figura di Salomè, ma 
contemporaneamente non sono rari i casi in cui essa venga all’opposto resa portatrice di 
valori postivi, come nel caso di Siena. Lo stesso cristianesimo sviluppò rapporti 
ambigui con la danza in quanto, se in generale ebbe un atteggiamento piuttosto 
                                                 
18
 P. VIGO, Le danze macabre in Italia, Il vespro, Palermo 1980, pp. 22-23; la prima edizione è del 1878. 
 9
censorio
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 nei suoi confronti, causato in buona parte dalla disapprovazione per gli 
elementi erotici di cui la danza è portatrice, non si può dire che la condannò con ferocia 
e costanza, tanto più che la rappresentazione della gloria divina, e della gioia ad essa 
connessa o della potenza mistica che invade il corpo quando ad essa si avvicina, è stata 
raffigurata molteplici volte tramite figure angeliche intente a danzare più o meno 
compostamente. Un esempio di invasamento divino si può chiaramente cogliere nella 
«Cantoria» [fig 6] di Donatello, risalente al 1433 – 1438, conservata al Museo 
dell’Opera del Duomo di Firenze, e che offre anche lo spunto per ricordare come 
l’elemento classico, anche nel caso della raffigurazione della danza, sia stato 
sapientemente recuperato nel Rinascimento. Donatello nel comporre la «tumultuosa e 
                                                 
19
 A tal riguardo interessanti le pagine dedicate alla danza all’interno dell’Enciclopedia Cattolica, edita 
agli inizi degli anni ’50, nelle quali dopo una veloce definizione si entra direttamente al cuore della 
questione morale: «Dal punto di vista morale […] la grande rivoluzione si ebbe nei secc. XVIII e XIX, 
sotto l’influsso di un liberalismo attuantesi anche nei costumi: dalla danza in cui il cavaliere toccava solo 
la mano della dama, si venne all’abbraccio nella parte superiore del corpo della coppia moventesi in 
continui giri […]. Da allora si nota pure l’interesse dell’autorità ecclesiastica al ballo, come problema 
morale, nei decreti delle SS. Congregazioni e nelle lettere dei pontefici  […], senza parlare poi dei 
provvedimenti pastorali presi dai vescovi. Veramente non mancano forti richiami contro il ballo anche 
nella letteratura patristica […] e nella legislazione conciliare dell’età di mezzo. Però quegli scritti 
rispecchiano una situazione diversa. Mentre i Padri hanno di fronte il ballo come resto di paganesimo […] 
i concili del medioevo condannano i balli che si facevano nei cimiteri e nelle chiese più che altro per 
ratione loci. All’inizio di questo secolo, causa una progressiva rilassatezza di costumi si introdussero 
infatti alcuni sistemi di danza originati dai costumi indigeni dei negri dell’America meridionale, nei quali 
per il vario modo di muovere i piedi e per le varie posizioni delle persone anche le parti inferiori del 
corpo dei componenti la coppia facilmente si incontrano. Per le diversità di certe movenze nella danza 
questi balli hanno preso vari nomi: […] tango, […] charleston, foxtrot […] boogie-woogie […]. 
Comunque il ballo in sé non è un atto illecito: è una manifestazione e quasi un’esplosione di gioia […]. 
La malizia non è intrinseca al ballo, a meno che non prescriva atti volutamente osceni, ma può essere 
aggiunta da chi lo attua; favorita da circostanze, spesso, oggi in particolare, perfidamente studiate e 
combinate da ideatori, compositori ed organizzatori, perché facilitino e rendano quasi inevitabile il 
peccato.». La voce continua descrivendo le circostanze di cui si fa menzione ed individuandole ad 
esempio nella «licenza delle donne nel vestire» (si badi bene il riferimento esclusivo alle donne), nella 
«musica […] lasciva» e nel «difetto di luce». Insomma per la Chiesa cattolica omnia munda mundis e se 
si rispettano alcune regole basilari, come danzare in ambienti illuminati a giorno e senza anfratti bui e 
peccaminosi, con musica non lasciva ed evitando i balli dei negri, con individui invitati personalmente e 
conosciuti per la loro onestà morale, e soprattutto con donne non vestite da sgualdrine (poiché la prima 
causa, o colpa, di induzione al peccato è la licenziosità nel vestire delle discendenti di Eva), non c’è 
pericolo di commettere peccato e quindi la danza ha pienamente diritto di esistere nel mondo cristiano. La 
voce «danza» dell’Enciclopedia Cattolica, dopo aver ricordato che della questione danza si sono occupati 
anche direttamente alcuni Papi del XX sec., conclude regalando al mondo un cristiano consiglio, di 
stampo psichico oltre che morale, per il bene collettivo dell’umanità: «L’uso frequente del ballo e 
specialmente di quelli del tipo più moderno, è in ogni caso da combattersi, perché promuove la leggerezza 
di costumi ed ha una influenza deleteria anche nella salute psichica, dato l’eccessivo eccitamento di 
nervi.». P. PALAZZINI, voce «danza» in AA.VV., Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia 
Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano, Firenze 1950, vol. IV, pp. 1212 – 1216. 
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