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metafisica della presenza, considerata come una caratteristica della filosofia occidentale: 
sviluppando alle estreme conseguenze il concetto heideggeriano di differenza ontologica, Derrida 
oppone alla riflessione filosofica  fondata sull’essere, e quindi sulla presenza, il pensiero della 
differenza, cioè della contaminazione originaria di essere e non-essere, presenza e assenza, 
negando la possibilità della purezza. 
In rapporto a ciò, la scrittura è concepita da Derrida come luogo della differenza, che in essa si 
inscrive; la scrittura, quindi, è il luogo della contaminazione che decostruisce la presenza assoluta 
e con essa la possibilità di un senso pieno, univoco in quanto vero, determinando l’impossibilità 
di  un significato definito e aderente a sé, in una dinamica di continuo rilancio dei significati 
stessi. La scrittura, infatti, rinvia a qualcosa d’altro che però non è univocamente rintracciabile ed 
è pronta ad accettare sempre nuovi significati senza mai riconoscersi in uno soltanto; in questo 
modo, essa insidia l’identità del senso, scartandosi continuamente a ogni rimando a una presenza 
ultima. La dinamica scritturale, infatti, determina costitutivamente una deriva del senso, che si 
disperde tramite un movimento di disseminazione, insito nella scrittura stessa, che impedisce alla 
molteplicità dei significati di riassumersi in un orizzonte semantico finale. L’unica possibilità di 
esistenza della differenza, dunque, è nella scrittura che, con il suo funzionamento, ne espone la 
dinamica e gli effetti. 
Nell’ambito del concetto di scrittura, assume importanza il discorso riguardante la spaziatura: il 
foglio bianco, gli spazi bianchi tra le parole scritte evidenziano il non detto, ciò che è nascosto 
nella concettualità tradizionale. Questa ricerca dell’impensato del pensiero e dell’innominabile del 
linguaggio si svolge attraverso un lavoro di decostruzione interno al testo, con cui si realizza un 
sovvertimento della logica binaria delle opposizioni che caratterizza la metafisica della presenza, 
affermando la differenza come contaminazione degli opposti che scardina questa logica. La 
strategia decostruttiva procede a partire dalla ricerca nel testo filosofico e letterario degli 
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indecidibili: false proprietà verbali, nominali o semantiche che non si lasciano comprendere 
nell’opposizione filosofica binaria e la disorganizzano senza però costituire un terzo termine di 
sintesi; in questo senso, l’indecidibilità consiste nella fluttuazione indefinita di un nome o di un 
concetto tra i suoi possibili significati, in relazione all’impossibilità di identificarsi totalmente con 
uno di essi, evidenziando così l’assenza costitutiva della differenza che nega la possibilità della 
piena identità a sé della presenza. 
Il concetto di decostruzione, dunque, si determina come la pratica con cui Derrida, 
evidenziandone i punti critici, mette in discussione la concettualità metafisica. 
Il capitolo prosegue l’argomentazione inerente al concetto di scrittura in relazione alla sua 
determinazione come evento di invio e dono; la scrittura, infatti, in quanto disseminazione, 
comporta un movimento di dispersione che si connota come evento inviante e destinante, quale 
condizione da cui la realtà si produce, attraverso la dinamica della differenza, operante nella 
scrittura. Questo accadere della scrittura, come invio da cui comincia l’essere, si caratterizza, 
inoltre, come evento di dono, cioè come movimento con cui l’alterità si offre e contamina 
l’identità, eccedendola; se infatti la realtà prodotta dalla differenza, attraverso il movimento 
inviante della scrittura, si caratterizza come contaminazione, questa dinamica di invio deve 
necessariamente connotarsi come offerta dell’altro, che donandosi impedisce la pura identità a sé 
dell’essere. 
All’interno della pratica scritturale, il concetto di dono implica l’elaborazione di uno stile 
disseminante e decostruttivo che distrugge l’istanza metafisica della verità, intesa come totale 
identità a sé della presenza, dimostrando che l’unica verità possibile è la non-verità, che si espone 
nella scrittura. 
Il secondo capitolo espone sinteticamente la posizione di Derrida relativa alla letteratura; in 
particolare si argomenta una concezione del testo letterario che si sviluppa coerentemente con le 
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istanze della nozione derridiana di scrittura, sulla base di un’operazione decostruttiva delle 
definizioni elaborate dalla critica letteraria, che si alimenta della concettualità metafisica. 
A questo proposito, il filosofo francese sottolinea il potere decostruttivo di alcuni testi letterari, 
tra cui quello di Mallarmé, in grado di mettere in discussione gli strumenti concettuali della critica 
e della filosofia, mostrando la loro incapacità di comprenderli e controllarli. 
Più specificamente, Derrida prende in considerazione le nozioni di testo e di titolo, coniate dalla 
critica e dimostra come il funzionamento di alcuni testi letterari eccede queste definizioni, in 
relazione alla determinazione della scrittura come spazio attivo della differenza; se infatti la 
differenza, che agisce nella scrittura, determina l’orizzonte del reale, allora la realtà si costituisce 
interamente come scena di scrittura, dunque come letteratura. In relazione a ciò, il concetto di 
testo imposto dalla critica e dalla filosofia viene ecceduto dal testo letterario stesso, che si 
identifica nell’intera realtà e non si lascia ridurre alla dimensione chiusa della sua definizione 
metafisica. 
Nell’ambito di queste riflessioni, il filosofo francese rivolge il suo sforzo decostruttivo al 
mimetologismo, un aspetto caratteristico della concezione della letteratura prodotta dalla 
metafisica. Si tratta, specificamente, di un’interpretazione del concetto di mimesi, che, da Platone 
in poi, subordina la scrittura a una funzione imitativa e rappresentativa della realtà; Derrida, sulla 
scorta della nozione di differenza in opera nella scrittura, evidenzia l’impossibilità di questa 
concezione, dimostrando che tutto il reale si configura come mimesi e che, quindi, la dialettica 
imitante-imitato, implicita nel mimetologismo, è strutturalmente impossibile. 
Da questo punto di vista, si determina un diverso rapporto tra la letteratura, intesa come copia e 
dunque finzione, e il concetto di verità che organizza metafisicamente il reale, poiché il costitursi 
della realtà stessa come mimesi e come scrittura esclude la possibilità di un modello originario e 
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vero della letteratura; in relazione a ciò, l’urgenza filosofica della verità crolla, determinando 
l’impossibilità della verità, se non come effetto di mimesi, quindi come non-verità. 
Il capitolo prosegue, prendendo in considerazione una determinazione ‘luttuosa’ della letteratura, 
tramite la quale essa si apre all’intervento della critica. In quanto scrittura, infatti, il testo letterario 
si emancipa dal contesto in cui si è prodotto, determinando la ‘morte’dell’autore, che si assenta 
dal suo scritto, rimettendolo alla sua dinamica; di conseguenza, nella misura in cui esso si distacca 
dal soggetto scrivente e dalla sua intenzionalità di senso, il testo letterario non conserva un 
significato univoco e definitivo, ma permette una molteplicità di letture e quindi il lavoro 
ermeneutico e di ricerca del senso della critica. 
Tuttavia, a questo proposito, Derrida afferma l’impossibilità della pretesa della critica letteraria di 
determinare definitivamente il senso di un testo letterario, in relazione all’incapacità dei suoi 
concetti di comprendere la dinamica della loro scrittura. In questo contesto, il filosofo francese 
considera alcuni filoni della critica letteraria contemporanea, decostruendone le strategie di lettura 
del testo. 
Il terzo e ultimo capitolo è relativo alla trattazione della poesia di Mallarmé, sulla scorta delle 
concezioni derridiane illustrate nella prima parte della tesi, facendo particolare riferimento al 
saggio “La double séance” in cui Derrida si occupa nel modo più esaustivo di Mallarmé. 
Specificamente si considera il concetto di mimesi, nell’ambito della poesia mallarmeana, in 
opposizione al mimesthai di derivazione platonica che interpreta l’opera d’arte come copia imitante 
di un oggetto referente imitato: la bontà dell’imitazione è relativa alla sua adeguatezza alla natura 
dell’imitato, secondo una concezione della mimesi che trova il suo riferimento nella verità della 
copia come verosimiglianza rispetto alla cosa copiata; in Mallarmé, tramite un particolare uso 
della sintassi, avviene uno spostamento di questo riferimento alla verità, tale da eluderlo nella 
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dissoluzione dell’opposizione imitante-imitato che libera l’imitazione dalla pertinenza alla verità 
dell’oggetto imitato. 
In questo senso la poesia di Mallarmé è un’imitazione che non imita nulla, perché evade l’istanza 
di aderenza alla cosa imitata, lo scopo infatti è di “dipingere, non la cosa, ma l’effetto che 
produce”, una catena di allusioni liberamente collegate tra loro dal gioco sintattico di omonimie, 
sinonimie, omofonie che liberano le parole dall’univocità della referenza. 
In questo contesto acquista senso la teoria mallarmeana della sospensione, secondo la quale le 
cose sono solo alluse e l’indecisione di questa allusione permette alle parole di muoversi da sole, 
recidendo ogni senso e ogni referente, a partire dal poeta stesso che si dilegua lasciando 
l’iniziativa alle parole, alla loro potenza contemporaneamente costruttiva e distruttiva. 
La possibilità di questa sospensione nasce dall’indecidibilità del senso delle parole, ciò che 
Derrida, facendo esplicito riferimento a un termine ricorrente nel lessico di Mallarmé, chiama 
imene, nel senso di uno spazio intermedio, che separando due cose ospita in sé la compresenza di 
esse, confuse insieme nell’indecisione del senso; in relazione a ciò si colloca il discorso sulla 
spaziatura all’interno del testo poetico, così come il frequente rimando lessicale al bianco, che, 
similmente all’indecidibilità rappresentata dall’immagine dell’imene, giocano il loro ruolo tra i due 
opposti dell’estrema fecondità semantica e del vuoto di significato, impedendo alla polisemia di 
raccogliere il suo senso in un orizzonte e determinando la scrittura mallarmeana come 
disseminazione. 
In questa prospettiva, si rileva nella poesia mallarmeana una crisi e una perdita del senso, che, 
associata alla sospensione del rimando alle cose e all’assenza dell’autore che scompare dietro al 
gioco delle parole, introduce una dimensione nichilista all’interno dell’opera poetica di Mallarmé; 
in particolare, questo aspetto nichilistico si concreta nella negazione di una giustificazione 
trascendentale del reale, che viene corroso, fino ad annientarsi, dall’azione della poesia, che lo 
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riduce a non-essere. Tuttavia, il nichilismo mallarmeano, nei luoghi stessi in cui compare in 
riferimento, per esempio, all’idea di assenza, di morte o esplicitamente del nulla, viene superato 
tramite la sua elaborazione poetica, impedendo la chiusura dell’immaginario poetico nella 
dimensione nichilistica. 
Accanto all’aspetto teoretico, in Mallarmé emerge anche un’esperienza storica del nichilismo, nel 
senso di una riflessione sul suo tempo, che prende in considerazione l’economia dei valori, 
costatandone il crollo; in particolare, Mallarmé registra l’importanza assunta dall’economia in tutti 
i settori dell’esistenza e la rapporta all’estetica, constatando la caduta del valore letteratura, in 
relazione alla dinamica di continua traslazione del valore, imposta dal circolo economico. Il poeta 
assiste, dunque, al crollo del valore della poesia, che egli, da un lato, tenta di ripristinare come 
affermazione della parola poetica e, dall’altro, distrugge nella consapevolezza della 
convenzionalità e della finzione della poesia: ciò che emerge da questa posizione ambivalente è 
che l’attribuzione del valore scavalca una motivazione interna alla poesia, così come il riferimento 
all’artificiosità dell’arte in quanto finzione, poiché il valore risiede semplicemente nel suo 
conferimento; di conseguenza il valore della poesia è relativo a ciò che le attribuisce significato e 
verità, quindi è rimandato alla critica, che con il suo lavoro conferisce il valore alla letteratura. 
A questo proposito, la scrittura evidenzia il suo carattere testamentario in relazione all’assenza, in 
un certo senso, alla ‘morte’ dell’autore, che rimette la decisione del senso della sua poesia alla 
critica. Tuttavia, questo legato testamentario lasciato da Mallarmé si rivela un inganno, poiché la 
sua poesia si struttura in modo tale da rendere impossibile la determinzione di un senso totale che 
la comprenda; di conseguenza, essa nega la possibilità stessa del lavoro della critica, poiché la sua 
dinamica scritturale ne eccede irriducibilmente l’orizzonte concettuale. 
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PRIMO CAPITOLO 
 
COORDINATE DERRIDIANE: ANALISI DEI CONCETTI FONDATIVI DEL 
PENSIERO FILOSOFICO DI JACQUES DERRIDA 
 
 
1.1. DERRIDA E LA TRADIZIONE FILOSOFICA: METAFISICA DELLA PRESENZA 
E DECOSTRUZIONE 
 
Nell’elaborazione del suo pensiero Jacques Derrida rivolge una continua e profonda attenzione 
alla storia della filosofia, attraverso una rilettura dei testi filosofici che si estende dal pensiero 
greco a quello contemporaneo. 
In diversi luoghi della sua produzione, Derrida infatti recupera e analizza il pensiero antico, 
soprattutto in riferimento a Platone, a cui dedica il saggio La pharmacie de Platon, e all’opera di 
Aristotele, la cui trattazione compare all’interno di numerosi testi derridiani, come Ousia et grammé; 
contemporaneamente, coltiva lo studio filosofia moderna, specificamente Rousseau, il cui 
pensiero viene ampiamente analizzato all’interno di De la grammatologie, dove ricorre spesso anche 
la citazione di Leibniz e Descartes. 
Tuttavia, l’opera più incessante di rilettura si rivolge al pensiero contemporaneo. Hegel, Husserl e 
Heidegger sono i filosofi con cui Derrida dialoga continuamente e che in modo più profondo ne 
hanno influenzato la filosofia sia attraverso una critica e quindi un loro superamento, che tramite 
un recupero di concetti e problematiche. Non a caso, sono numerosissime le opere derridiane che 
ospitano la trattazione del pensiero di questi filosofi (le raccolte di saggi L’écriture et la différence e