5
internazionali ufficialmente riconosciuti come legittimi partner di dibattito, si distingue tra 
Dialogo Sociale bipartito, tripartito e settoriale. Per ciascuna categoria, poi, evidenzia è posta, 
innanzitutto, sui relativi organi e forum di confronto, e, in secondo luogo, sui principali 
risultati finora ottenuti. 
 Per quanto concerne la seconda parte, essa è dedicata alla concertazione di tipo micro, 
implementata a livello di impresa e che, a seconda del grado di sviluppo, si traduce in pratiche 
di informazione, consultazione, partecipazione o codecisione dei lavoratori nei processi 
decisionali aziendali. 
Il quinto capitolo, in particolare, classifica le varie tipologie di partecipazione, distinguendo, 
nello specifico, fra partecipazione diretta, partecipazione indiretta e partecipazione finanziaria. 
Per ogni categoria ne vengono descritte le caratteristiche, e un riferimento è fatto ad alcune 
considerazioni formulate da importanti esperti in relazione ai rispettivi pregi e difetti. 
Successivamente, si analizza la posizione dimostrata dalle organizzazioni sindacali nei 
confronti delle pratiche partecipative, evidenziando il positivo cambio di atteggiamento che, da 
un iniziale rifiuto, ha poi dimostrato riconoscere l’importanza della concertazione anche a 
livello aziendale. 
Il sesto capitolo è dedicato al sistema di codecisione di matrice tedesca che, da sempre modello 
esemplare, viene spesso nominato anche nei dibattiti e nei documenti comunitari, perlomeno 
come oggetto di confronto e paragone. L’analisi si incentra, in primo luogo, sulle matrici 
storiche e filosofiche della codeterminazione, per affrontarne poi il progressivo sviluppo, per 
giungere infine alla descrizione del sistema tedesco attualmente vigente. 
Il settimo capitolo sposta l’attenzione al contesto europeo, considerando la recente direttiva 
sulla Società Europea e la relativa disciplina prevista sulla partecipazione. Ripercorrendo il 
lungo percorso di formulazione del testo, si evidenziano le differenze tra i contenuti delle 
prime originali proposte e quelli della versione finale. Ampio spazio è poi dedicato al 
conseguente dibattito, sorto fra euro-scettici e euro-entusiasti, e alla relativa critica e contro-
critica alla disciplina partecipativa introdotta dalla direttiva. 
 Nella terza parte, prima di stilare le considerazioni finali, si sono volute approfondire 
due questioni, ovvero il contesto italiano e la posizione cattolica. 
Nell’ottavo capitolo, in particolare, si è sviluppata la necessaria analisi del sistema di 
concertazione italiano che, pur di natura fondamentalmente volontaristica e scarsamente 
istituzionalizzata, ha condotto nel corso del tempo alla sottoscrizione di una molteplicità di 
accordi. Tra i più importanti, vengono citati il protocollo del 1993, per la sostituzione al 
meccanismo della scala mobile e l’introduzione delle RSU, il Patto per il lavoro del 1996 e il 
 6
Patto di Natale del 1998. Un riferimento è poi fatto al Libro bianco sul lavoro presentato nel 
2001, e alla conseguente polemica scaturita in merito alle nuove riforme da esso previste. 
Come ultimo dettaglio, infine, si è citato il recente accordo del 23 luglio 2007 che, pur avendo 
suscitato notevoli polemiche, rappresenta comunque un segnale positivo del rinnovato 
interesse nei confronti della pratica concertativa. 
Il nono capitolo, è dedicato alla posizione espressa dalla Chiesa Cattolica in relazione alla 
concertazione e alla partecipazione sociale. Il sostegno e lo stimolo di queste pratiche vengono 
testimoniate dalle ufficiali dichiarazioni contenute nelle Lettere Pontificie; nello specifico, 
vengono qui riportati alcuni frammenti delle Encicliche Rerum Novarum, di Leone XIII, Mater 
et Magistra e Pacem in Terris di Giovanni XXIII. Particolare attenzione è riservata, infine, alla 
teoria formulata da Don Giuseppe Gemellaro che, erigendo la dignità umana a valore principe, 
tenta di trascendere le divisioni ideologiche proponendo un modello fondato 
sull’universalismo solidaristico.  
Nel decimo e ultimo capitolo, infine, vengono stilate le considerazioni conclusive, che 
riprendendo le tematiche trattate le contestualizzano nel quadro contemporaneo.  
 
  
 7
PARTE I: 
 NEOCORPORATIVISMO E DIALOGO SOCIALE 
 
 Concertazione, partecipazione e Dialogo Sociale sono termini molto in voga 
ultimamente, che appaiono spesso nelle dichiarazioni, negli accordi e nelle direttive, 
rivestendo un ruolo centrale nel più esteso dibattito politico. 
Con il concetto di Dialogo Sociale, coniato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ci 
si riferisce, in particolare, agli istituti pattizi della concertazione e della negoziazione tripartita, 
oggi ampliamente utilizzati sia a livello nazionale che internazionale.  
Di natura ampia e varia, esso affonda le sue radici nelle dottrine del neocorporativismo, 
formulate dai politologi a partire dalla metà del secolo scorso, tra cui spiccano particolarmente 
le teorie proposte da Karl Schmitter e Gerhard Lehmbruch. Focalizzando rispettivamente sul 
sistema di intermediazione di interessi e sulla concertazione tra stato e Parti sociali per la 
formulazione e l’implementazione delle politiche socioeconomiche, essi tentano entrambi di 
discostarsi da astratti paradigmi ideologici, per proporre un modello concreto e pragmatico. 
 Concretamente, i risultati delle pratiche concertative vengono normativizzati nei 
cosiddetti patti sociali che, nati come strumenti tipici delle socialdemocrazie, fecero 
prepotentemente ingresso nel panorama europeo nel corso degli anni sessanta. Le analisi 
statistiche dimostrano che, dopo un florido decennio di sviluppo, la concertazione sociale subì, 
negli anni ottanta, una netta battuta d’arresto. Il ritorno del “Sisifo corporativo”, comunque, 
non si fece attendere molto, e agli inizi degli anni novanta, con le nuove necessità introdotte 
dall’Unione Europea, le concertazioni ricominciarono ad essere intraprese. 
 L’attuale riconsiderazione del Dialogo Sociale, a livello nazionale come internazionale, 
fa pensare alla terza fase di quel trend che Schmitter aveva descritto come “ciclo corporativo 
ventennale”.  
È innegabile, infatti, che la concertazione abbia oggi riacquisito quel ruolo centrale che l’aveva 
caratterizzata negli anni sessanta-settanta, prima, e negli anni novanta, poi. Da un punto di 
vista internazionale, infatti, costituisce oggetto di numerose direttive dell’Unione Europea, è 
elemento costituente della struttura organizzativa dell’ILO, e strumento implementato e 
supportato nei processi di risoluzione delle controversie sociali. In ambito nazionale, inoltre, 
sono molti gli stati a riconoscerne l’importanza, e a perseguirne conseguentemente 
l’applicazione. 
Ovviamente, le sue caratteristiche si discostano parzialmente dalle peculiarità tipiche delle 
precedenti tipologie di patti, tra l’altro anche tra di loro non del tutto identici. Ciò è ascrivibile, 
 8
comunque, alla mutata situazione politico-economica, che soprattutto in relazione al processo 
di globalizzazione e all’ingresso nella moneta unica ha rivoluzionato la scala di priorità ed 
esigenze statali. 
Per quanto concerne il parallelo con i paradigmi teorici neocorporativi, poi, è inevitabile che si 
riscontrino delle discrepanze, visto la natura descrittiva di questi ultimi difficilmente 
conciliabile con il carattere prevalentemente prescrittivo delle disposizioni giuridiche e 
normative. 
 Nel complesso, tuttavia, è evidente come tutti questi concetti siano riconducibili ad un 
comune filo conduttore, quello della concertazione.  Strumento preposto all’agevolazione del 
confronto sulle questioni di politica industriale, economica e sociale, essa non è solo 
finalizzata alla gestione dei rapporti tra sindacato e associazioni dei datori di lavoro, bensì 
anche al tentativo di organizzare una rete istituzionale di rapporti stabili. Proprio in 
quest’ottica, dunque, può essere inquadrata nel più ampio fenomeno teorico-storico del 
neocorporativismo, che designa una società capace di autogovernarsi democraticamente, 
attraverso un sistema di do ut des tra le sue principali Parti sociali, dove il governo svolge il 
ruolo di mediatore e garante del bene comune. 
 9
1. LA TEORIA NEOCORPORATIVA 
 
Già negli anni trenta, lo studioso ungaro Mihaïm Manoïlesco aveva preconizzato 
come “l’ineluttabile corso del destino avrebbe comportato la trasformazione di tutte le 
istituzioni politico-sociali dei nostri tempi verso una direzione corporativa”
1
, introducendo 
così nelle scienze sociali il concetto di corporativismo, definito come una “organizzazione 
pubblica e collettiva composta da tutte le persone (fisiche e giuridiche) che espletano 
insieme la stessa funzione nazionale e condividono come obiettivo quello di assicurare 
l’esercizio di tale funzione attraverso regole e leggi imposte per lo meno ai loro membri”
2
.  
Lo sviluppo socio-politico dei decenni successivi ha dimostrato come il pensiero di 
Manoïlesco fosse stato realmente anticipatore: non solo, infatti, sistemi neocorporativi si 
sono progressivamente venuti a formare in una molteplicità di nazioni europee, ma gli 
analisti vi hanno anche riscontrato la presenza di caratteristiche sostanzialmente coincidenti 
con quelle precedentemente delineate dallo studioso nella sua nella sua definizione.  
Nel corso degli anni, parallelamente all’implementazione concreta del modello, si è 
sviluppata una ricca letteratura sul concetto, a cui sono state attribuite varie e differenti 
sfumature; non di rado, tuttavia, esse erano contraddistinte da una connotazione negativa, 
relazionata con il regime di applicazione (fascista, repressivo) o con il contingente contesto 
di analisi (il corporativismo viene, in quest’ottica, identificato con un comportamento di 
lobbying a difesa degli interessi di gruppo).  
Per evitare, in particolare, che il termine evocasse lo spettro dei fascismi o dei regimi 
autoritari, i vari autori si sono sempre riferiti al concetto con dei nomi alternativi, come 
corporativismo sociale o societario (Schmitter), corporativismo liberale (Lehmbruch), o 
semplicemente, in epoca successiva, utilizzando la nozione generica di neocorporativismo o 
neocorporatismo. Può essere interessante, in quest’ottica, evidenziate il dettaglio linguistico 
che vede la soppressione di una sillaba nella sostituzione di neocorporativismo con 
neocorporatismo. Secondo Schmitter, questa non sembra essere stata una scelta deliberata, 
poiché in tal caso sarebbe stato molto più logico derivare il termine direttamente 
dall’originale francese, che utilizzava l’espressione corporatisme. Tuttavia, per molti 
accademici dell’Europa occidentale, risultò preferibile utilizzare il termine semplificato, al 
fine di distinguerlo esplicitamente dalla forma corporativa dei regimi fascisti;“il prefisso neo 
cerca di rimuovere da questa teoria le ombre del passato; allo stesso modo, con altri 
                                                 
1
 Manoïlesco M., Le siecle du corporatisme, Parigi, 1936, p.7. 
2
 Ibidem, p.176. 
 10
espedienti linguistici, in inglese ed in spagnolo, i teorici di questa corrente trasformano le 
terminazioni ivism in ism e ismo, per sottolineare la distinzione con l’antico modello 
corporativo di ingrata memoria”
3
. 
 
1.1. Corporativismo: una definizione difficile 
Per poter intraprendere uno studio analiticamente corretto del fenomeno, risulta 
indispensabile individuare una definizione “imparziale” del termine, che lo depuri dalle 
sfumature attribuitegli nel corso del tempo dai vari opinionisti e studiosi della politica.  
Lungi dal rivelarsi semplice, tale intento è complicato dalla varietà di definizione proposte 
dai diversi autori, ciascuna delle quali, focalizzandosi su uno degli aspetti caratterizzanti, 
rischia, però, di trascurarne degli altri.  
Sin dal principio, lo studio del corporativismo si sviluppò in due distinte prospettive: 
una prima, focalizzata sul sistema di rappresentazione degli interessi, in riferimento alla 
quale, poi, Schmitter coniò il termine intermediazione di interessi, per sottolineare il metodo 
in cui le corporazioni si relazionano reciprocamente, sorgono nello scenario pubblico e si 
costituiscono come nuovi soggetti sociali; una seconda, invece, proposta da Lehmbruch, 
fondata sul rapporto concertativo e negoziale tra organizzazioni e Stato per la formazione e 
l’eventuale esecuzione delle politiche pubbliche. 
La visione preponderante, riferibile al pensiero di Schmitter, tende a identificare il 
corporativismo come una forma ”di rappresentanza degli interessi, un particolare modello o 
un ordinamento istituzionale ideal-tipico finalizzato a collegare gli interessi delle parti 
sociali, organizzati a livello associativo, con le strutture decisionali dello stato”
4
. Questa 
definizione si focalizza, prioritariamente, sulla strutturazione delle reciproche relazioni tra 
associazioni e stato, e sul relativo metodo di rappresentanza degli interessi. 
Alcuni estendono questa nozione di corporativismo come forma di rappresentazione degli 
interessi ad un più amplio sistema di partecipazione politica, dove i cittadini delegano i 
propri diritti di partecipazione ai leader di determinati gruppi ufficiali e centralizzati
5
. 
Secondo questo approccio, le strutture corporative costituiscono dei corpi rappresentativi che 
integrano, o più probabilmente sostituiscono, altre forme di rappresentanza quali i partiti 
politici o il parlamento. In effetti, spesso lo sviluppo del corporativismo è ricondotto al 
                                                 
3
 Ocampo A.R, Teoria del Neocorporativismo, Ensayos de Philippe C. Schmitter, Universidad de Guadalajara, 
Messico, 1992, pag.10. 
4
 Schmitter P.C., “Still the century of corporatism?”, in The review of politics, Vol 36, n1, The New Corporatism: 
Social and Political Structures in the Iberian World, 1974. 
5
 Confronta Benjamin, R., The limits of politics: collective goods and Political Change in Postindustrial Societies, 
University of Chicago Press, Chicago, 1980. 
 11
fallimento di altri organi rappresentativi nel formulare delle politiche pubbliche che 
rispondano alle richieste e alle necessità dei cittadini. 
L’altra scuola di pensiero, capitanata da Gerhard Lehmbruch, considera il 
corporativismo come processo di formulazione delle politiche. Esso si esprime in un alto 
livello di collaborazione delle organizzazioni nella formazione e nell’implementazione delle 
politiche pubbliche, soprattutto di quelle economico-sociali. 
Definendo il concetto di corporativismo proposto da Schmitter come corporativismo 
settoriale, a sottolineare la limitatezza della rappresentazione dei diversi settori economici, 
Lehmbruch propone una nuova teoria del sistema di rappresentanza, più adatta a descrivere la 
situazione del secondo dopoguerra, definita concertazione corporativista. Tale idea si basa 
sostanzialmente su due concetti fondamentali, che ne costituiscono gli elementi chiave: in 
primo luogo, il coinvolgimento non solo di un gruppo si interessi organizzato con accesso 
privilegiato al governo, bensì anche ad una più estesa pluralità di organizzazioni 
comunemente rappresentanti interessi antagonistici; in secondo luogo, il coordinamento 
dell’azione delle associazione con quella del governo, soprattutto in relazione alle necessità 
sistemiche dell’economia nazionale. Lehmbruch elabora, così, una tipologia di 
corporativismo che si basa sul livello di partecipazione dei lavoratori, sull’organizzazione 
d’impresa, sul processo di formulazione e esecuzione delle politiche pubbliche. 
Vi è, poi, un’ancor più ampia visione del corporativismo contemporaneo che tende a 
descriverlo come un “sistema economico in cui lo stato dirige e controlla prevaricariamente 
l’iniziativa economica privata”
6
. In questo caso, il riferimento è ad un sistema economico 
fortemente burocratizzato, dove lo stato ha un ruolo interventista centrale, che si contrappone 
ad altri sistemi economici quali il laissez faire capitalistico o il socialismo. 
Ancora, il corporativismo può essere definito come uno strumento per contenere i 
disequilibri sorti all’interno delle moderne società capitaliste. Esso è considerato come una 
risposta politica, istituzionale ed ideologica alle tensioni economiche, volta a convogliare i 
conflitti in schemi più facilmente gestibili. 
Alti restringono il concetto focalizzando il conflitto prevalentemente a livello manageriale, 
identificandolo come una forma di relazione tra lavoratori e datori di lavoro, dove i primi 
risulterebbero detenere una posizione di svantaggio nei confronti dei secondi.  Addirittura, 
nella estrema versione marxista, il sistema corporativo è considerato come uno strumento di 
controllo sociale per depennare le forze sindacali e i movimenti sociali di classe. 
                                                 
6
 Confronta Pahl R.E. e Winkler J.T., The corporate state, mith or reality?, Center of studies in social policy, 
London, 1976. 
 12
Infine, alcuni teorici assimilano il corporativismo ad un particolare schema di 
decentralizzazione, in cui determinate funzioni governative vengono devolute ad unità 
geografiche minori.  
 Ciò che accomuna queste definizioni, comunque, è l’intento di affrontare il tema 
attraverso un approccio pragmatico, che permetta, in sostanza, di baipassare le possibili 
implicazioni ideologiche o politiche spesso associate al concetto.  
In primo luogo, in qualsiasi modo lo si definisca, o qualsiasi aggettivo gli si attribuisca, è 
importante sottolineare che il corporativismo non fa riferimento ad alcuna ideologia storica 
specifica, né ad una particolare visione del mondo, né ad un insieme di aspirazioni collettive. 
Le definizioni del corporativismo di stampo ideologico, infatti, possono essere difficilmente 
ricondotte ad una sottostante scala di valori di riferimento, e ancor meno associate agli 
interessi di determinati gruppi sociali. I concetti di armonia funzionale, di collaborazione di 
classe o di autoamministrazione, per esempio, pur risultando vicini a questa soluzione 
istituzionale, hanno avuto origini intellettuali e goduto di un appoggio sociale fortemente 
eterogenei. Inoltre, la gran parte delle ricerche empiriche dimostrano che, concretamente, 
lungo il suo sviluppo storico la prassi corporativa si è spesso notevolmente allontanata dagli 
obiettivi prefissati, distanziandosi nettamente dalle intenzioni inizialmente esplicitate dai suoi 
teorizzatori. 
In secondo luogo, il corporativismo non risulta riconducibile ad alcuna determinata cultura 
politica, e non può nemmeno essere considerato come qualcosa di insito ad una determinata 
forma di stato o di governo. In quest’ottica, è importante sottolineare come la definizione 
formulata da Schmitter si riferisca ad un concreto, generale e osservabile sistema dei 
rappresentanza degli interessi, indipendente dal regime politico di implementazione e per ciò 
stesso compatibile con diverse tipologie di forme di stato. Inoltre, la sua diffusione a livello 
sia spaziale (che coinvolse gran parte degli stati europei, per estendere poi la propria 
influenza anche sul sistema turco, iraniano, tailandese e indonesiano) che temporale (durante 
tutto il ventesimo secolo), non troverebbero giustificazione in questo tipo di approccio. 
Neanche la cultura etica o la religione maggioritaria risultano spiegazioni valide per la 
nascita del corporativismo; riferendoci a esperienze concrete, possiamo, infatti, notare come, 
nonostante la Spagna sia considerata più cattolica del Portogallo, così come la Colombia nei 
confronti del Brasile, in ambo i casi il sistema corporativo risulta più solido nel secondo 
paese rispetto che al primo. 
Sia Schmitter che Lehmbruch, a tale proposito, dichiarano l’esplicita intenzione di purificare 
lo studio del neocorporativismo dalle possibili vertenti ideologiche ad esso erroneamente 
 13
attribuite. Essi puntualizzano che non si tratta di un nuovo sistema sociale alternativo al 
capitalismo o al socialismo, bensì, semplicemente, di una nuova struttura politica di relazioni 
tra lo Stato e i gruppi organizzati della società, all’interno del capitalismo avanzato. Pur 
affondando le sue origini nell’inizio del XX secolo, con la nascita dello Stato Sociale, la 
politica keynesiana, e l’ascesa al governo di partiti socialdemocratici, “la vera auge del 
corporativismo liberale sembra essere emersa solo nella seconda metà del secolo […]. Il 
corporativismo, così come definito da Schmitter, sembra essere utilizzato principalmente 
come una tecnica socio-politica per regolamentare i conflitti tra importanti gruppi sociali, 
incorporando i rispettivi rappresentanti degli interessi nelle strutture formali di presa delle 
decisioni dello Stato”
7
. 
Il neocorporativismo è, dunque, un metodo di riequilibrare la struttura politica delle relazioni 
sociali presente nel sistema capitalista; è una riforma che non modifica il modello di 
produzione dominante, ma sviluppa un più stabile coordinamento tra i gruppi in conflitto. 
 
1.1a Schmitter e Lehmbruch a confronto 
 All’interno della comunità scientifica, la viva e amplia discussione sul 
neocorporativismo considera, comunque, come principali punti di riferimento le teorie 
proposte de Schmitter e da Lehmbruch, che risultano affrontare più pragmaticamente 
l’argomento. 
Il primo, in particolare, descrive il corporativismo come un “sistema di rappresentanza degli 
interessi in cui le unità costitutive sono organizzare in un numero limitato di categorie, 
uniche, obbligatorie, non competitive, gerarchicamente ordinate e differenziate 
funzionalmente, riconosciute o autorizzate (se non costituite) dallo stato, alle quali è 
assicurato un monopolio di rappresentanza all’interno delle rispettive categorie, in cambio 
dell’osservanza di certi controlli sul processo di selezione dei loro leader, sull’articolazione 
della domanda e delle azioni da rivendicare”
8
. Ovviamente, si tratta di una definizione ideal-
tipica, un costrutto euristico e logico-analitico, composto da un congiunto di componenti 
teoricamente o ipoteticamente correlati. Lo stesso Schmitter, infatti, sottolinea l’impossibilità 
empirica di trovare un sistema di rappresentanza degli interessi che rispecchi perfettamente le 
caratteristiche presentate
9
. 
                                                 
7
 Lehmbruch G., in Schmitter P.C., Neocorporativismo I. Más allá del estrado y del mercado, Alianza Editorial, 
Messico, 1992, pag. 282. 
8
 Ibidem 
9
 Nonostante ce ne siano stati alcuni che, secondo lo stesso Schmitter, si avvicinino considerevolmente al modello 
descritto. 
 14
Il secondo, invece, afferma che un sistema può essere definito “completamente 
corporativizzato in base alle seguenti caratteristiche: 1a) Le organizzazioni di interesse sono 
ampiamente cooptate nel processo decisionale del governo; 1b) Grandi organizzazioni di 
interesse sono fortemente legate ai partiti politici e prendono parte alla formazione delle 
politiche in una sorta di reparto funzionale del lavoro; 2a) Molte organizzazioni d’interesse 
sono strutturate gerarchicamente e l’appartenenza tende ad essere obbligatoria; 2b) Le 
categorie occupazionali sono rappresentate da organizzazioni non competitive che si 
riuniscono in monopolio; 3) Le relazioni industriali sono caratterizzate da forte 
concertazione delle associazioni dei lavoratori e delle associazioni degli impiegati con il 
governo.”
10
 
Una delle differenze più importanti tra le teorie formulate dai due pensatori risiede nel 
ruolo assegnato al corporativismo all’interno del sistema politico. 
Per Schmitter, il neocorporativismo è un sistema di intermediazione degli interessi tra lo 
Stato e la società, così come una formula per garantire la governabilità nelle società 
altamente industrializzate, attraverso la riduzione e la canalizzazione delle richieste sorte in 
seno alla società civile. In questo senso, il neocorporativismo struttura e seleziona le 
domande provenienti dalla società civile e evita, così, un sovraccarico di richieste come 
quello che caratterizzò i regimi pluralisti a cavallo degli anni settanta. Secondo Schmitter, i 
problemi di legittimazione e governabilità sono, in definitiva, conseguenza della mancanza di 
un adeguato sistema di intermediazione degli interessi.  
Da parte sua, invece, Lehmbruch considera che il ruolo del neocorporativismo sia 
essenzialmente quello di concertare le politiche pubbliche; egli critica la definizione di 
Schmitter perché riferita solo alla funzione di Input (processo di rappresentazione), 
sottolineando la necessità di una contemporanea considerazione anche alla funzione di 
Output (processo decisionale o di controllo sociale). 
Input e Output come termini della teoria del sistema sono stati accettati, comunque, 
successivamente, anche da Schmitter, che ha progressivamente dimostrato di condividere il 
postulato secondo cui le organizzazioni potrebbero espletare ambo le funzioni. Pur essendo i 
due concetti diversi ed indipendenti, infatti, Schmitter ne evidenzia la possibile coesistenza e 
complementarietà, puntualizzando il fatto che, sviluppandosi su due piani differenti, non 
risultano necessariamente alternativi. Proprio per chiarire la sua posizione, Schmitter formula 
una tabella a quattro celle, riportata nella pagina seguente, che tenta di illustrare ed 
esemplificare le relazioni tra le due teorie. In questo schema, le due colonne si riferiscono al 
                                                 
10
 Lehmbruch G., Introduzione: il neocorporativismo in una prospettiva comparata, in Lehmbruch G. e Schmitter 
P.C., La politica degli interessi nei paesi industrializzati, Il Mulino, Bologna, 1984. 
 15
metodo di definizione delle politiche pubbliche, distinguendo tra concertazione (termine 
alternativo per riferirsi al concetto di corporativismo di Lehmbruch) e pressione, mentre le 
due righe esprimono i possibili sistemi di rappresentanza degli interessi, differenziando tra 
pluralismo e corporativismo.  
Per quanto riguarda la prima variabile, quella orizzontale, la concertazione comporta il 
coinvolgimento all’interno del processo decisionale di tutte le associazioni di interesse, come 
attori ufficialmente riconosciuti e legittimati, che condividono, in fase di applicazione, la 
responsabilità circa la corretta implementazione delle politiche. Con il termine pressione, 
invece, ci si riferisce a un processo politico in cui gli interessi delle parti in causa sono per lo 
più esclusi; esse, infatti, possono partecipare alla formulazione delle politiche al massimo in 
qualità di consulenti, mentre lo stato risulta l’unico responsabile della loro esecuzione. 
 
Fig.1.1. Tipi d’intermediazione degli interessi e modelli di formazione delle politiche 
 
 Metodo di formazione delle politiche 
  Pressione 
Concertazione 
Pluralismo 
Esempi: politica di pressione 
americana classica; politica 
sindacale francese 
Esempi: cooperazione 
embrionale fra sindacati e stato 
in Italia; “Vernehmlassung” 
svizzera 
Sistema di 
intermediazione 
degli interessi 
Corporativismo
Esempi: tentativi falliti di 
negoziazione con “contratto 
sociale” in Gran Bretagna; 
“cure d’opposition” nei 
sistemi corporativi di tipo 
svedese 
Esempi: “Partätosche 
Kommission” in Austria; 
trattato di pace sociale 
svizzero;” democrazia di 
Harpsund” svedese 
 
Fonte: Schmitter, P.C., “Reflection on where the theory of neocorporatism has gone and where the praxis of 
neocorporatism may be going”, in Lehmbruch G. e Schmitter P.C., “Patterns of corporatism policy-making”, 
Sage, London 1982, p.236. 
 
Circa il secondo asse, quello verticale, la dicotomia segue la distinzione, che sarà approfondita 
nel paragrafo seguente, tra l’intermediazione degli interessi di tipo plurimo, sovrapposto, 
diffuso e volontaristico, denominata pluralismo, e quella si tipo individuale, concentrato, 
funzionalmente differenziato, gerarchico e impositivo, detta corporativismo.