Senza volti, senza corpi, senza dolore. Senza il volto segnato dal 
panico di nessun soldato  che riportasse il grande show del conflitto 
alle dimensioni dell'umano.
Dal punto di vista occidentale, il conflitto iracheno è stato scandito dai 
servizi dei giornalisti embedded,  letteralmente “incastonati” al seguito 
delle truppe, una delle novità che hanno caratterizzato la copertura 
mediatica dell’operazione Iraqi Freedoom. Questi nuovi protagonisti 
del giornalismo di guerra, protetti e assistiti dall’esercito, si sono 
rivelati una delle armi vincenti in mano alla propaganda Usa per la 
conquista del “fronte interno” dell’opinione pubblica americana, un 
fronte che- come ha sottolineato Roberto Reale- avrebbe potuto 
“creare più complicazioni al presidente e al suo staff di quanto non ne 
abbia creati la guardia Repubblicana di Saddam”
1
.
 La copertura mediatica  della prima guerra del Golfo, segnata da una 
manciata di immagini del cielo di Baghdad attraversato dalle scie 
luminose delle bombe e della contraerea irachena, ossessivamente 
ripetute dalla CNN, ha decretato il successo globale del network di 
Atlanta, che con le sue breaking news in onda 24 ore su 24, ha 
rivoluzionato  i tradizionali criteri giornalistici di selezione e scelta 
delle notizie, imponendo un modello dell’informazione a “ciclo 
continuo”  per cui è stata coniata la definizione di “giornalismo fast
food”
2
. Il secondo capitolo della saga bellica statunitense in Medio 
Oriente ha invece registrato il trionfo del “giornalismo patriottico” 
inaugurato da Fox news, il nuovo canale satellitare all news nato
proprio per fare concorrenza alla Tv del gruppo Time Warner.
“Proprio come il successo della Cnn nella prima guerra del Golfo 
aveva influito sulle  politiche editoriali nel mondo televisivo - 
scrivono Rampton e Stauber- il successo della Fox ha prodotto un 
effetto a catena, costringendo gli altri network a personalizzare i 
1
 R. Reale., Non sparate ai giornalisti. Iraq: la guerra che ha cambiato il modo di raccontare la guerra, Roma, 
Nutrimenti, 2003, p. 85. 
2
  F. Tonello, La nuova macchina dell’informazione. Culture tecnologie e uomini nell’industria americana dei media, 
Milano, Feltrinelli, 1999 
6
notiziari per competere con ciò che gli esperti del settore chiamavano 
effetto Fox”
3
.
Secondo i dati diffusi dall’istituto Nielsen, una sorta di Auditel 
americano, il maggior beneficiario del conflitto in termini di ascolti è 
stata proprio Fox News, che ha fatto del patriottismo integrale e 
dell’appoggio incondizionato al secondo conflitto iracheno il proprio 
marchio di fabbrica, promuovendo uno stile aggressivo e 
sensazionalistico di sicura presa sul pubblico. 
  Il nuovo canale di informazioni via cavo è tuttavia solo la punta 
dell’iceberg  della News Corporation, il gigantesco impero editoriale 
presieduto da Rupert Murdoch, che grazie all’acquisizione del canale 
satellitare Direct Tv, oltre alle svariate Sky Tv sparse in tutto il mondo, 
può contare sulla smisurata cifra di 120 milioni di abbonati distribuiti 
in 52 paesi. 
La News Corporations inoltre pubblica 175 giornali nel mondo, tra cui 
The Times, The Sunday Times, The Sun, The News of the World, nel 
Regno Unito, il New York Post ed il Weekly Standard negli Stati Uniti. 
40 milioni di esemplari alla settimana in totale, venduti in tutti i 
continenti. 
William Randolph Hearst, il simbolo dell’influenza raggiunta dal 
“Quarto Potere” all’epoca dell’”età dell’oro della stampa”, e alla cui 
figura non a caso si ispira Citizen Kane ,il capolavoro cinematografico 
di Orson Welles, al confronto con l’estensione smisurata dell’impero 
mediatico di Murdoch, come sottolinea un’articolo apparso su Le
Figaro, “farebbe la figura di un editore di bollettini locali”
4
.
Hearst , attraverso una violenta campagna stampa a favore 
dell’intervento  militare a Cuba, uno degli ultimi possedimenti 
spagnoli,  trascinò praticamente  gli Stati Uniti nel conflitto ispano-
americano, ribattezzata da molti come la guerra di Hearst. 
Allo stesso modo, come sostiene Federico Rampini su La Repubblica
del 16 Aprile 2003, “l’intervento in Iraq passerà alla storia come la 
3
  S.Rampton., J. Stauber., Vendere la guerra. La propaganda come arma d’inganno di massa, Ozzano dell’Emilia( 
Bo), Nuovi Mondi Media, 2004, p.139. 
4
“Rupert Murdoch et Lord Black: Deux serviteurs zélés de la propagande francophobe  , Le Figaro, 17 febbraio 2003,  
http://forums.transnationale.org
7
vittoria privata di Rupert Murdoch, per il suo ruolo decisivo nel 
“venderla” all’opinione pubblica angloamericana mobilitando la 
potenza planetaria dei suoi mass media. E’ stato il motore ideologico 
di questa guerra”
5
.
Tuttavia, nonostante l’appoggio incondizionato della corazzata 
mediatica di Murdoch, e della maggior parte dei grandi network 
informativi statunitensi, abbia fornito un sostegno importante 
all’amministrazione Bush per convincere l’opinione pubblica 
americana circa “la giustezza della guerra” intrapresa in Iraq, 
l’opinione pubblica internazionale, definita dal New York Times del 16 
febbraio 2003, sull’onda delle grandi manifestazioni contro la guerra 
che hanno portato in piazza 110 milioni di persone in tutto il mondo,  
come “la seconda superpotenza mondiale”
6
, è rimasta piuttosto 
scettica riguardo alla necessità di un intervento militare; sia prima, 
durante la lunga campagna mediatica che ha preceduto l’inizio delle 
ostilità; che dopo, di fronte al perdurare della crisi irachena una volta  
decretata ufficialmente la fine della guerra. 
Secondo un sondaggio pubblicato negli Stati Uniti
7
, alla vigilia 
dell’inizio delle operazioni militari in Iraq, mentre il 59% degli 
americani si dichiarava favorevole alla guerra,  solo il 39% dei 
britannici, i cui soldati erano in procinto di partire a fianco delle forze 
Usa , appoggiava l’intervento militare “alleato”. In Italia, Spagna e 
Polonia, paesi inclusi nella “coalizione dei volenterosi” che 
sostenevano la spedizione angloamericana nel Golfo, la percentuale 
dei sostenitori della guerra crollava rispettivamente al 17, al 13 e al 
21% degli intervistati. Percentuali simili in  Germania e Francia, dove 
solamente il 27  e il 21%  dichiarava di non essere contrario 
all’intervento. In Russia infine, l’operazione Iraqi freedoom era 
approvata da appena il 10% della popolazione. 
Nello stesso Iraq “liberato”, appena nove giorni dopo il trionfale 
abbattimento della statua di Saddam, anziché lanciare mazzi di fiori ai 
5
 F. Rampini, La Repubblica, 16 aprile 2003. 
6
New York Times, 16 aprile 2003 
7
 “America’s image  furthrer erodes, europeans want weaker ties”, Pew research center for the people and the press,
Washington, 18 marzo 2003, http://people-press.org/ 
8
soldati americani, come enfaticamente raccontato dalla “coalizione” 
dei media occidentali, migliaia di persone affollavano le strade di 
Baghdad  per protestare contro l’occupazione americana. Come 
riporta  il Corriere della Sera on line del 18 aprile 2003 : “nel primo 
venerdì di preghiera da quando i tank Usa sono arrivati nel cuore della 
capitale irachena la scorsa settimana, i fedeli si sono riversati per le 
strade gridando slogan contro gli Usa in nome dell'Islam unito. In 
migliaia cantavano “no a Bush, no a Saddam, sì alla libertà, si 
all'Islam”. [..] “Daremo ai soldati americani pochi mesi per lasciare 
l'Iraq. Se non lo faranno, li combatteremo con i coltelli”, ha detto uno 
dei dimostranti”
8
. Sinistri presagi di una situazione di crisi che a 
qualche mese di distanza sarà descritta come “l’inferno iracheno”. “A 
un anno esatto  dalla presa di Baghdad- recita un lancio dell’Ansa del 
9 Aprile 2004- la guerra in Iraq sembra ricominciare più vigorosa che 
mai. Si combatte da nord a sud del Paese e si aggiorna di continuo il 
conto dei morti”.  Lo stesso giorno, mentre i commentatori dei media 
cominciano a evocare sempre più insistentemente lo spettro di un 
nuovo Vietnam, la tv satellitare araba Al Jazeera trasmette le 
angoscianti immagini dei tre ostaggi giapponesi rapiti da un gruppo di 
guerriglieri iracheni, bendati, legati e con il coltello alla gola, costretti 
a gridare invocazioni ad Allah. Immagini crude e brutali che 
contrastano drammaticamente con la rassicurante visione della guerra 
proposta dai mezzi di informazione occidentali,-come scrive Guido 
Rampoldi su La Repubblica del 9 aprile 2004- “uno spettacolo in cui 
l’orrore era ben sterilizzato, non ci sporcava, non ci contagiava”
9
.
 Attraverso lo sguardo delle telecamere delle tv satellitari arabe, la 
sensazione è quella di assistere ad un’altra guerra, molto diversa da 
quella iper-patriottica andata in onda sui media americani: è la storia 
di una violenza quotidiana contro civili inermi, con immagini 
terrificanti di corpi smembrati, bambini attoniti, donne in lacrime.  
Mentre sugli schermi della CNN e delle altre testate giornalistiche 
occidentali andava in onda la lunga sequenza della rimozione della 
8
 “Migliaia in piazza a Bagdad: via gli americani”, Corriere della Sera, 18 aprile 2003, 
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/04_Aprile/18/proteste.shtml 
9
 G. Rampoldi, “Quel pugnale alla gola, l’immagine del nostro terrore”, La Repubblica, 9 aprile 2004 
9
statua di Saddam Hussein da Piazza del Paradiso, più o meno 
“patriotticamente” commentata a seconda della nazionalità e della 
proprietà dell’emittente, le emittenti arabe mostravano le vittime civili 
dei bombardamenti angloamericani urlanti dal dolore accolte negli 
ospedali iracheni. 
Come accennato in precedenza, l’introduzione dei giornalisti 
embedded  ha rappresentato la novità più significativa nella copertura 
mediatica  del  secondo conflitto iracheno da parte dei  media 
occidentali. Un’interpretazione illuminante dei motivi che hanno 
spinto Victoria Clarke, responsabile della comunicazione del 
Dipartimento di Difesa statunitense, nonché ex dirigente della Hill & 
Knowlton, una delle più stimate agenzie di pubbliche relazioni 
specializzate nella creazione di eventi mediatici al servizio di governi 
e di Stati in situazioni di crisi, nel mettere a punto la strategia di 
comunicazione che contemplava i giornalisti “arruolati” al seguito 
delle truppe, viene dalle parole di Steve Gorman, corrispondente della 
Reuters da Los Angeles. Secondo Gorman, che scrive un mese prima 
dello scoppio del conflitto,“ preoccupati che il pubblico rimanga 
profondamente  scettico riguardo l’entrata in guerra, gli ufficiali del 
Pentagono hanno detto che è nel loro interesse fornire ai media 
occidentali l’accesso alle zone di combattimento per contrastare il 
potenziale di disinformazione che potrebbe venire da fonti di notizie 
arabe”
10
.
In una guerra caratterizzata dalla debolezza e dall’estrema incertezza 
del disegno politico che l’accompagna, “la conquista dei cuori e delle 
menti” dei popoli coinvolti nel conflitto e dell’opinione pubblica del 
pianeta, come più volte enfaticamente sottolineato dagli stessi membri 
dell’amministrazione americana, rappresentava infatti il primo 
obbiettivo strategico da raggiungere; in modo “da conquistare ex post- 
scrive Fracassi-,con la forza travolgente delle immagini, il consenso e 
la ragione che erano mancati alla vigilia”
11
Non stupisce, quindi, che all’interno di un conflitto programmato in 
funzione della sua rappresentazione mediatica, e per questo 
10
 S. Gorman, Reuters, febbraio 2003, citato in R. Reale, op cit. p.51. 
11
 C.Fracassi., Bugie di guerra. L’informazione come arma strategica, Milano, Mursia, 2003, p.14. 
10
caratterizzato da ingenti sforzi comunicativi, inediti in quanto a 
dimensioni e durata dell’apparato propagandistico messo in campo, la 
presenza delle Tv arabe sia stata definita dal presidente della 
Commissione Federale per le Comunicazioni degli Stati Uniti, Reed 
Hunt, come un vera e propria “forza geopolitica”
12
.
L’esplosione delle emittenti satellitari in lingua araba è stata l’altra 
grande novità  che ha caratterizzato la copertura mediatica del secondo 
conflitto iracheno. Una novità non di poco conto, che con la rottura 
del monopolio occidentale delle informazioni, ha messo in moto una 
vera e propria rivoluzione nel sistema della comunicazione globale, 
destinata a produrre conseguenze profonde nel mondo arabo, un’area 
in cui la libertà d’informazione è sempre stata fortemente limitata o 
addirittura assente. 
Una delle cause principali del terremoto in atto nel sistema 
informativo arabo, un contesto mediatico tradizionalmente 
caratterizzato dal servilismo e dal conformismo, in cui la maggior 
parte dei grandi media è controllata, direttamente o indirettamente, dai 
poteri politici, è da imputare sicuramente allo strepitoso successo di Al 
Jazeera, la tv satellitare in onda 24 ore su 24 che ha conquistato fama 
planetaria con la spregiudicata messa in onda dei messaggi di Osama 
Bin  Laden dopo i tragici attentati dell’11 settembre 2001. 
Nata nel 1996 a Doha, grazie ai finanziamenti dello sceicco  Hamad 
Khalifa al-Thani, l'emiro  del Qatar, oggi può contare  su un pubblico 
di circa 45 milioni di abbonati distribuiti nei paesi del Medio Oriente e 
nelle comunità arabe sparse ovunque nel mondo. 
Nei giorni seguenti all’attacco angloamericano, Google e Lycos, i 
maggiori motori di ricerca su Internet, affermatosi come mezzo di 
comunicazione ormai maturo, pienamente funzionale alla febbrile 
ricerca di informazione e di aggiornamento in una situazione di crisi 
quale il contesto bellico iracheno, hanno registrato che Al Jazeera è 
stato il termine più comune ricercato dai navigatori, tre volte più 
frequente della parola “sesso”.
13
12
 R. Hunt, “Television war vs. Television Peace”, Broadcasting & Cable, 14 aprile 2003 
13
 “al Jazeera Tops Net  Search Requests”, Associated Press, 11 aprile 2003 
11
Contemporaneamente  il sito di Al Jazeera, dove erano disponibili le 
immagini della guerra che i network americani avevano deciso di 
censurare, è stato fatto oggetto di massicci attacchi da parte di alcuni 
hacker, che hanno reso irraggiungibile per un lungo periodo sia la 
versione araba che quella inglese. 
L’approccio aggressivo orientato al sensazionalismo  e alla ricerca 
ossessiva dello scoop, che contraddistingue le nuove tv arabe, Al
Jazeera in testa, è stato spesso etichettato dai media occidentali come 
fiancheggiatore dell’estremismo e del fondamentalismo islamico. 
Il comportamento dell’emittente qatariota in particolare, ha scatenato 
roventi polemiche  da parte del governo americano. La Casa Bianca  
ha  stigmatizzato più volte l’antiamericanismo, a suo giudizio, 
imperante nel network arabo, accusato  di essere il megafono di Al
Qaeda, e ha più volte esercitato la sua pressione diplomatica nei 
confronti dell’emiro del Qatar, affinché la riportasse a più miti 
consigli.
PRIMA DI INIZIARE 
Uno degli obbiettivi che questo lavoro si propone di raggiungere, è 
quello di analizzare  come i media occidentali  hanno inquadrato il 
terremoto in atto nel mondo dell’informazione araba; un cambiamento 
che a parere di Roberto Reale, “provocherà conseguenze profonde 
negli anni che seguiranno questa guerra”
14
.  Come case study verrà 
preso in considerazione il ruolo svolto da Al Jazeera, in virtù della sua 
posizione di leadership e di fattore di rottura all’interno del mondo 
dell’informazione araba. 
Il primo capitolo affronta l’evoluzione della stampa da un punto di 
vista storico. Verranno prese in considerazione le principali tappe che 
hanno accompagnato lo sviluppo della carta stampata all’interno del 
più ampio sistema dei mezzi di comunicazione di massa. Si partirà 
14
 R. Reale., op cit. p.86 
12
dagli anni trenta del diciannovesimo secolo, con la nascita della Penny
Press , indicata da molti studiosi come la fase iniziale e costitutiva del 
giornalismo moderno , per arrivare  alla Babele della comunicazione 
dei giorni nostri, in cui pochi grandi gruppi editoriali controllano la 
maggior parte del flusso comunicativo globale. In questo nuovo 
contesto mass-mediatico, caratterizzato dalla commistione di formati e 
generi diversi , il giornalismo, citando le parole di Reeves, “sta 
diventando una parte sempre più piccola di qualcosa sempre più 
grande: la fornitura di ogni genere di informazioni e intrattenimento  
ai consumatori paganti”
15
.
Nel secondo capitolo, verrà introdotto un tema purtroppo tristemente 
attuale in questo scorcio di inizio secolo: l’informazione in tempo di 
guerra. Recita un famoso detto: “la prima vittima della guerra è la 
verità”. Sembra che la prima persona che abbia pronunciato questa 
frase sia stato il Senatore americano Hiram Warren Johnson, in un 
discorso tenuto al Senato nel 1917, alla vigilia dell’ingresso degli Stati 
Uniti nella prima guerra mondiale. 
Nel suo celebre studio sulla “Grande Guerra”, il politologo Harold 
Lasswel
16
 individuò alcuni temi ricorrenti nella propaganda di tutte le 
nazioni belligeranti, incentrati sulla contrapposizione tra “amici” e 
“nemici”, tra forze del bene e forze del male. All’interno di questo 
sistema di classificazione il nemico assume le sembianze del male 
assoluto da estirpare, diviene il responsabile di tutte le sofferenze e di 
tutte le ingiustizie dell’umanità e per questo deve essere annientato. 
Il racconto della guerra che oggi ci viene riproposto a quasi un secolo 
di distanza, dimostra come questi temi siano presenti non solo nella 
propaganda, ma nel contesto informativo in generale. Basta rileggere i 
servizi giornalistici o i discorsi del presidente americano Bush sulla 
seconda guerra del Golfo per ritrovarli tutti, insieme a un linguaggio 
non troppo dissimile dalla retorica politica classica. 
“Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né 
in Inghilterra, né in Germania. Questo è comprensibile. Ma, dopotutto, 
sono i governanti del paese che determinano la politica, ed è sempre 
15
 R. Reeves, What the people know, Cambridge (Mass), Haward University Press, 1998. 
16
 H.Lasswell, Propaganda Technique in the World War,Knopf, New York, 1927 
13
facile trascinare con sé il popolo, sia che si tratti di una democrazia, o 
di una dittatura fascista, o di un parlamento, o di una dittatura 
comunista. Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato 
al volere dei capi. È facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che 
sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, in 
quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in 
tutti i paesi.”
17
 A parlare in questo modo non è un cinico esperto di 
pubbliche relazioni assunto dalla amministrazione Bush per 
convincere l’opinione pubblica sulla necessità di intraprendere la 
“guerra al terrorismo” contro “gli stati canaglia”. Si tratta di un 
discorso pronunciato dal gerarca nazista Hermann Goering durante il 
processo di Norimberga, ma la somiglianza con le argomentazioni 
presentate  in seguito agli attacchi dell’11 settembre da autorevoli 
commentatori cosi come da molti membri del Governo Usa sono 
imbarazzanti. Il 6 dicembre 2001, il procuratore generale John 
Ashcroft, l’equivalente statunitense del nostro ministro della Giustizia, 
in risposta alle polemiche sulle restrizioni delle libertà civili in seguito 
all’approvazione del Patriot Act, in una deposizione davanti al 
Congresso definì “i nostri oppositori” come “coloro che spaventano 
gli amanti della pace con lo spettro della perdita di libertà; il mio 
messaggio è questo: i vostri metodi aiutano soltanto i terroristi, 
corrodono l’unità nazionale e indeboliscono la nostra risolutezza. 
Offrono cartucce ai nostri nemici e scoraggiano gli amici 
dell’America. In questo modo la gente di buona volontà viene 
incoraggiata a restare in silenzio di fronte al Male”
18
.
“L’essenziale della dominazione politica- scrisse il sociologo francese 
Patrick  Champagne- consiste in meccanismi essenzialmente di ordine 
simbolico, poiché l’azione politica più importante è nascosta e 
consiste soprattutto nell’imposizione di sistemi di classificazione del 
mondo sociale”
19
.
17
 Dichiarazione del gerarca nazista Hermann Goering al processo di Norimberga 
18
 Deposizione del Procuratore generale John Ashcroft , Senate Committee on Judiciary, 6 dicembre 2001, citata in 
S.Rampton., J. Stauber., op. cit. p.135. 
19
 P. Champagne, Faire l’opinion,Editions de Minuit, Paris, 1990, p.15 
14
All’interno del corpo sociale, ai tempi di Goering come ai giorni 
nostri, le situazioni di crisi permettono ai governi di creare, come 
scrive Tonello, “una scala di lealtà che premia il patriota e il buon 
cittadino, mentre punisce chi si dichiara neutrale e agisce con violenza 
contro chi viene considerato, a torto o a ragione, un traditore.[..] Dalla 
fine dell’Ottocento in poi, lo strumento con cui la verità patriottica è 
stata fatta arrivare nei villaggi più remoti dei paesi in guerra sono stati 
ovviamente i mass media”
20
.
“Mai come durante lo stato di guerra- scrive Isnenghi-  v’è 
scollamento tra la realtà e la sua riproduzione ideologica di massa. 
Tutto nell’informazione di guerra congiura ad affidarle intenzioni e 
scopi che prescindono dai fatti”
21
.
I mezzi di informazione, nonostante la loro funzione di cronaca, sono 
stati spesso usati nella storia come strumenti di propaganda. In tempo 
di guerra la distinzione tra notizia giornalistica e propaganda diventa 
assai sottile. “La guerra- scrive ancora Tonello- consacra una tale 
superiorità del campo politico su quello giornalistico che discutere 
dell’autonomia di quest’ultimo non ha alcun senso. Quando il governo 
chiama all’azione, i giornalisti rispondono più prontamente e con 
maggiore entusiasmo delle reclute”
22
.
“I mass Media- scriveva nel 1991 Rossella Savarese a proposito della 
prima guerra del Golfo- influenzano l’opinione pubblica perché non 
sono considerati strumenti di propaganda anche se essi impiegano di 
fatto codici non verbali per stabilire priorità qualitative e scale di 
valori, come la misura dei titoli e la collocazione degli articoli, 
elementi che non vengono percepiti come messaggi persuasori.[..] La 
propaganda infatti non è altro che questo: prendere posizione a favore 
o contro qualcosa attribuendo alla propria scelta valori positivi in 
opposizione a quelli di un avversario vero o supposto. Il linguaggio 
che essa impiega può essere terribilmente informativo”
23
.
20
 F. Tonello, op. cit. p.226. 
21
 M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari,Torino, Einaudi, 1979, p. 200 
22
 F. Tonello, op. cit. p.226. 
23
 R. Savarese, “Pagine armate”, in Galassia dell’informazione, n 6-7-8 giugno-agosto 1991, pp. 47-61. 
15
Stabilire se queste riflessioni siano ancora valide a 13 anni di distanza, 
nell’era di Internet e della comunicazione satellitare, sarà il compito 
del terzo capitolo, che prende in considerazione la narrazione 
mediatica dei due conflitti iracheni da parte dei media occidentali. 
Cosa è cambiato e cosa è rimasto immutato nello scenario mediatico 
rispetto all’operazione “Tempesta nel deserto”? . 
Il quarto e ultimo capitolo,  si occuperà infine del  ruolo assunto dai 
mezzi di informazione arabi e in particolare della rete satellitare Al
Jazeera nella rappresentazione mediatica di questa guerra. Verranno 
analizzate le implicazioni, i fattori positivi e le eventuali 
problematiche che a giudizio dei nostri commentatori, comporta la 
diffusione di un punto di vista arabo autonomo e relativamente 
omogeneo all’interno di un Mediascape non più interamente dominato 
dal monopolio occidentale dell’informazione. 
In una guerra in cui i nostri mezzi di informazione sono stati 
sistematicamente inondati come non mai da un vero e proprio diluvio 
di notizie false, frutto di un copione mediatico  sapientemente 
preparato da tempo a tavolino grazie a una massiccia campagna di 
pubbliche relazioni magistralmente orchestrata  al servizio dei governi 
americano e britannico, con la cruda forza delle immagini, le emittenti 
arabe hanno clamorosamente smentito le ottimistiche interpretazioni 
della “guerra umanitaria e democratica” suggerite dai dipendenti del 
Pentagono agli acritici mass media della “coalizione”. Come 
sottolinea Roberto Reale, “questo tipo di testimonianza ha cambiato le 
cose anche a casa nostra. Per la prima volta negli ultimi anni, le 
cosiddette “bombe intelligenti”, gli “effetti collaterali”, sono 
progressivamente usciti di scena. Se queste espressioni asettiche, 
queste forme di ipocrisia sono state finalmente rimosse dal 
vocabolario di molti commentatori, il merito è proprio dei tanti filmati 
girati sul campo di battaglia”
24
.
Questa volta la CNN, il leader mondiale dell’informazione ai tempi 
della prima guerra del Golfo, così come gli altri mezzi di informazione 
e le agenzie di stampa di tutto il mondo hanno dovuto attingere dalle 
24
 R. Reale., op cit. p.84 
16
informazioni provenienti da Al Jazeera e dagli altri network arabi che 
con la loro documentazione filmata hanno mostrato per la prima volta 
ai poco avvezzi spettatori occidentali il vero tragico volto della guerra. 
17
CAPITOLO I 
L’INDUSTRIA DELL’INFORMAZIONE 
1.1 La penny press e il concetto moderno di notizia 
New York, 8 settembre 1833. Benjamin  Henry Day, un oscuro 
giornalista di provincia, fonda The Sun , il primo quotidiano 
americano in vendita a un penny. 
Il sottotitolo del giornale recita It shines for all “splende per tutti”, e 
come illustrato nell’editoriale di presentazione  mira a “ presentare al 
pubblico ad un prezzo accessibile a tutti, tutte le notizie del giorno e 
allo stesso tempo offrirsi come mezzo vantaggioso per le inserzioni 
pubblicitarie
1
”.Il successo è clamoroso: in pochi mesi raggiunge la 
piu’ ampia diffusione mai registrata da qualsiasi giornale in città:  
8000 copie in sei mesi, 15000 in due anni. 
Sulla scia del Sun nascono altri due Penny Papers di New York, 
l’Evening Transcript e, il 6 maggio 1835, il New York Herald di 
James Gordon Bennet. Nel giugno del 1835 la diffusione complessiva 
di questi tre giornali si attesta sulle 44000 copie; appena due anni 
prima  gli undici quotidiani cittadini vendevano in totale appena 
26500 copie
2
. Fra il 1830 e il 1840, grazie anche all’incremento della 
popolazione da 13 a 17 milioni di abitanti, le testate passarono da 65 a 
138, per una diffusione complessiva che passò da 78000 a 300000 
copie al giorno.
3
Nel mondo del giornalismo statunitense  è in atto una vera e propria 
rivoluzione che cambierà radicalmente il modo di concepire 
l’informazione, inizia l’era della stampa di massa. 
1
 G. Gozzini,Storia del giornalismo, Bruno Mondatori, Milano, 2000, p.118 
2
 M.schudson, La scoperta della notizia.Storia sociale della stampa americana, Napoli,Liguori,1987., p. 28
3
  A. Papuzzi, Professione giornalista, Roma, Donzelli,1998, p 7 
18
Prima dell’avvento della penny press i giornali erano  espressione di 
gruppi politici e commerciali., si rivolgevano ad un pubblico molto 
ristretto, prevalentemente personaggi politici e uomini d’affari. 
Il quotidiano tipo era composto da quattro pagine, la prima e l’ultima 
riservate esclusivamente alle inserzioni pubblicitarie.Nelle due pagine 
interne solitamente trovavano spazio editoriali dedicati alla politica 
interna e notizie relative al movimento merci delle navi in arrivo al 
porto. Costava sei cent a copia, circa il 10% del salario medio di un 
operaio, e veniva venduto in abbonamento postale. 
Le tirature erano molto basse, anche i giornali più prestigiosi 
superavano raramente le duemila copie. 
I nuovi quotidiani da un penny, venduti dagli “strilloni” agli angoli 
delle strade, mirano a conquistare una nuova categoria di lettori, i ceti 
emergenti protagonisti del cambiamento sociale in atto nel paese, la 
nascente classe media urbana simbolo della svolta Jacksoniana degli 
anni trenta. 
In questi anni, grazie all’introduzione del suffragio universale 
maschile e della istruzione pubblica aperta a tutti , la stampa cessa di 
essere un prodotto riservato esclusivamente alla ristretta cerchia delle 
èlites sociali , estendendo il proprio raggio d’interesse a tutta la 
popolazione.
Tra i cambiamenti  che contraddistinguono il nuovo corso della penny 
press rispetto ai giornali tradizionali, oltre alla drastica riduzione di 
prezzo e al mutamento dei titoli delle testate, due in particolare 
meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda la trattazione della 
pubblicità: da semplice servizio rivolto ai lettori, l’inserzione
pubblicitaria si estende a qualsiasi genere di prodotto, diventando una 
delle maggiori fonti di guadagno dei quotidiani.Attorno agli annunci 
cresce un enorme volume di affari: nel 1841 Voney Palmer, un 
commerciante di carbone, fonda la prima agenzia pubblicitaria 
statunitense e avvia la pratica di comprare in blocco gli spazi 
pubblicitari per poi rivenderli agli inserzionisti, garantendo  un introito 
fisso ai giornali.Alla fine del decennio Palmer ha aperto filiali in molte 
città degli States e può vantare l’esclusiva su più di mille periodici. 
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