5 
 
INTRODUZIONE 
 
Il presente lavoro è dedicato allo studio di uno dei profili fondamentali del dolo 
nonché dell’intero diritto sostanziale: il momento dell’accertamento. 
Sulla questione si sono scontrate due principali correnti di pensiero: da una parte 
vi sono i sostenitori della concezione secondo cui il dolo possa essere 
aprioristicamente presunto, prospettando un’espansione dell’ambito applicativo di 
suddetto istituto; dall’altra, invece, coloro che ritengono il dolo una realtà 
soggettiva e psicologica e che pertanto debba essere sempre accertato sulla base 
di validi criteri probatori, ponendo così un esatto limite all’ambito applicativo di 
tale elemento soggettivo, oltre il quale si aprirebbero scenari di responsabilità 
colposa o preterintenzionale.  
Allo scopo di fornire i mezzi necessari alla comprensione della tematica 
concernente l’accertamento del dolo si procederà trattando primariamente 
l’elemento soggettivo alla stregua di quanto disposto dagli artt. 42 e 43 c.p.; 
verranno analizzate di seguito le principali modalità probatorie, elaborate dalla 
dottrina, volte ad accertare la sussistenza del dolo. In relazione a quest’ultimo 
punto la giurisprudenza ha espresso pareri contrastanti, in particolare nei casi in 
cui il criterio di imputazione soggettiva venga identificato nel dolo eventuale. 
Le problematiche relative alla controversa tipologia del dolo eventuale 
rappresentano il fulcro del percorso argomentativo intrapreso: la disamina che 
verrà compiuta sarà incentrata, infatti, sui profili accertativi che la dottrina ritiene 
decisivi al fine di provare la sussistenza di tale tipologia di dolo.  
Traccia fondamentale per la trattazione del tema è l’emblematica sentenza delle 
Sezioni Unite riguardante la tragica vicenda dell’acciaieria ThyssenKrupp di 
Torino. Essa costituisce un punto di svolta rispetto alla giurisprudenza passata, 
ancora indirizzata verso una normativizzazione del dolo aperta ad ipotesi di dolus 
in re ipsa ed all’impiego di meccanismi probatori presuntivi. 
Ricalcando l’impostazione adottata dalla Cassazione verranno esaminate 
dapprima le principali formule e teorie concernenti l’individuazione del dolo 
eventuale ed il suo discrimen dalla colpa cosciente; successivamente si passerà ad 
un’analisi dettagliata della vicenda ThyssenKrupp, riportando primariamente 
quanto statuito nei primi due gradi di giudizio ed in seguito approfondendo
6 
 
minuziosamente l’evocativo contenuto della sentenza emanata dalle Sezioni 
Unite. In particolare verrà segnalato come, sul piano del diritto sostanziale, la 
Corte abbia significativamente aperto la strada ad una nuova concezione 
dell’istituto del dolo e al tempo stesso, sul piano del diritto processuale, abbia 
indubbiamente favorito l’attività di accertamento di giudici ed interpreti 
enucleando una serie di “indicatori” del dolo. 
Infine, ci si soffermerà dapprima sui pareri espressi dalla dottrina contemporanea 
in merito a tale deliberazione e di seguito si offrirà una breve trattazione delle 
principali sentenze cassazionistiche successive alla vicenda Thyssen, volta a 
valutare l’influenza della pronuncia delle Sezioni Unite sulla più recente 
giurisprudenza.
7 
 
CAPITOLO I: 
 
Il dolo nel diritto penale.  
      
 
SOMMARIO: 1. Definizione normativa: teoria e struttura del reato. - 2. Oggetto del dolo. - 
3. Coscienza dell’illiceità. - 4. Forme del dolo: intenzionale, diretto e alternativo. - 5. Il dolo 
eventuale. - 6. Preliminari problematiche in merito all’accertamento del dolo. 
 
                            
1. Definizione normativa: teoria e struttura del reato. 
 
Il dolo costituisce il titolo di responsabilità penale più grave e, nel contempo, la 
forma di colpevolezza richiesta ai fini della perseguibilità  del fatto preveduto dalla 
norma penale, in difetto di espressa previsione legislativa che estenda la punibilità 
del fatto a titolo di colpa o preterintenzione, come sancito dall’art.42 comma 2 
c.p.: “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, 
se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo 
espressamente preveduti dalla legge”. 
Esso rappresenta inoltre un elemento costitutivo del fatto tipico
1
, dal momento in 
cui la volontà criminosa assume rilevanza non in quanto tale, ma in quanto si 
traduca in realizzazione. 
Chi agisce con dolo aggredisce o pone in pericolo il bene giuridicamente protetto 
in maniera più intensa di chi agisce con colpa, ed oltre a configurarsi come 
minaccia nei confronti del soggetto passivo del delitto, egli risulta essere al 
contempo una minaccia per la collettività
2
. 
Ciò premesso, il codice, all’art. 43 comma 1 c.p., fornisce una nozione di delitto 
doloso stabilendo che: “il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento 
dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge 
fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come 
conseguenza della propria azione od omissione”. 
Tale definizione potrebbe, però, destare alcune perplessità poiché, se da un lato 
innalza a presupposti strutturali del dolo, previsione e volontà, dall’altro non 
                                                                  
1
 G. FIANDACA–E. MUSCO, Diritto penale, Pt. g.
6
, Bologna, 2009, 352.  
2
 W. HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura del dolo, in Arch. Pen., 1982, 48 ss.
8 
 
soddisfa pienamente il lettore il quale, in base ad essa soltanto, tenti di individuare 
in modo specifico elementi dai quali poter trarre conclusioni circa i confini del 
dolo, l’oggetto del dolo e l’effettiva essenza di esso
3
. 
Anzitutto, dalla norma in questione, si desume che a costituire l’elemento 
soggettivo del dolo concorrono due componenti ossia: la rappresentazione, ovvero 
la visione anticipata del fatto che costituisce il reato, ciò incarna il momento 
conoscitivo; e la risoluzione, seguita da uno sforzo del volere diretto alla 
realizzazione del fatto rappresentato, in questo caso si parla di momento volitivo
4
. 
Questa seconda affermazione presenta una certa complessità; poiché non basta la 
sola risoluzione ad identificare il contenuto doloso dell’azione, occorre che ad essa 
consegua un impulso cosciente all’attuazione della condotta. Entrambi i momenti 
sono concettualmente distinguibili, ma vanno necessariamente considerati in 
reciproco rapporto, dal momento in cui una volontà non accompagnata 
dall’elemento intellettivo finirebbe con l’essere cieca (“nihil volitum nisi 
praecognitum”
5
); tale tesi, che assegna quindi una duplice dimensione al dolo, 
mira a raggiungere un compromesso tra le due teorie o momenti, della 
rappresentazione e della volontà, sopra citati. 
Orbene è necessario specificare che quest’ultime derivano dalla definizione 
strutturale del dolo incentrata sull’intenzione, secondo la quale affinché si possa 
parlare di delitto doloso è essenziale che il soggetto agisca con la volontà di 
conseguire un determinato risultato, che costituisce il fine della condotta
6
. Tale 
lettura si scontra con la presenza di circostanze in cui si realizza un evento 
accessorio, che non rappresenta né il fine ultimo, né il mezzo necessario per 
ottenerlo, si vedano ad esempio i casi di dolo indiretto e di dolo eventuale
7
. 
                                                                  
3
 M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, 750 ss. 
4
 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto, Pt. g.
16
, Milano, 2003, 354. 
5
 G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 354 ss.; sulla stessa linea Pedrazzi, il quale ha affermato 
che: “Se non ci inganniamo il momento intellettivo si propone quale zoccolo duro del dolo, filtro 
razionale senza cui non può darsi un volere consapevolmente indirizzato, ma solo un impulso cieco, 
atto a fare affiorare gli strati profondi della psiche, ma non a ricollegare il soggetto al fatto”. Da C. 
PEDRAZZI, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1267. 
6
 G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 354 ss. 
7
 B. ROMANO, Diritto penale, Pt. g
3
, Milano, 2016, 349; a tal proposito sottolinea Pecoraro 
Albani che la figura di dolo indiretto non può essere accolta nel nostro diritto poiché, dato il 
principio di fondo in base al quale la volontà della causa implica di per sé la volontà dell’effetto, 
non basta che l’agente abbia voluto l’azione, ma occorre che la volontà si riferisca all’evento, e se 
questo non è desiderato non può essergli attribuito a titolo di dolo, neppure indirettamente. Da A. 
PECORARO ALBANI, Il dolo, Napoli, 1955, 272.
9 
 
Problematiche del genere hanno reso necessario scindere suddetta definizione 
nelle due teorie della rappresentazione e della volontà che ora analizzeremo. La 
prima prospetta una impostazione che tende a valorizzare il profilo intellettivo, 
mentre la seconda attribuisce maggiore importanza al profilo volitivo, pur non 
trascurando l’elemento psichico il quale è presupposto della volontà stessa. Il 
dibattito fra i teorici si fonda, nello specifico, sulla determinazione di ciò che possa 
essere oggetto rispettivamente di rappresentazione e volontà. Entrando nell’analisi 
di dettaglio i sostenitori della teoria della rappresentazione ritenevano che il dolo 
consista nella volontà della condotta e nella previsione dell’evento, in altri termini 
la rappresentazione va intesa sia come desiderio di provocare un determinato 
evento, sia come previsione di esso. Ulteriore concezione espressa da tali autori è 
che la volontà potesse avere ad oggetto soltanto il movimento fisicamente 
compiuto dal soggetto, ad esempio l’atto di premere il grilletto di una pistola al 
fine di uccidere
8
, mentre le alterazioni del mondo esterno provocate dalla condotta, 
ad esempio l’evento-morte, potessero costituire solo oggetto di rappresentazione 
mentale anticipata. Tuttavia la teoria sin qui enunciata porterebbe ad asserire che 
per esservi responsabilità a titolo di dolo sia sufficiente la previsione, ciò 
dilaterebbe oltre misura i confini del dolo facendovi rientrare anche i casi di colpa 
cosciente. 
D’altro canto i teorici della concezione volontaristica sostenevano che, nel 
ricostruire l’istituto del dolo, fosse necessario focalizzarsi sull’elemento volitivo, 
facendovi rientrare sia l’intenzione di realizzare l’evento che il consenso a che 
quest’ultimo si concreti. 
Il dibattito su quale teoria sia più attendibile resta ancora animato, in particolar 
modo nei casi di accertamento processuale dell’elemento psicologico, il che spiega 
la tendenza dei giudici a ricorrere a schemi di tipo presuntivo; non di meno nei 
casi in cui ci si trovi a dover distinguere tra dolo e colpa
9
 e proprio su questo 
versante le due concezioni rivelano i rispettivi limiti. 
In base a tali considerazioni emerge la necessità di abbandonare la rigida 
distinzione tra le due teorie in questione interpretando il disposto dell’art. 43 c.p. 
come un’unione di quest’ultime; così facendo si può asserire che l’intenzione del 
                                                                  
 
8
 G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 353. 
9
 G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 356.
10 
 
soggetto agente, affinché abbia natura dolosa, richiede non solo una 
rappresentazione, anche vaga, del fatto costituente reato, ma anche la 
consapevolezza e la volontà di porre in essere l’azione penalmente rilevante
10
.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
                                                                  
10
 Con riferimento al requisito della consapevolezza la dottrina prevalente ritiene che il soggetto, 
perché risulti punibile, deve essere cosciente dell’illiceità dell’offesa, che si manifesta nella 
lesione, consumata o tentata, di un bene giuridico o di un interesse giuridicamente tutelati. (v. infra, 
cap. I, § 3).