4
scoprire se da esso potessero dipendere 
caratteristiche specifiche della personalità del 
bambino e conseguenze sul suo futuro approccio 
alla vita e agli altri. Per uno studio di questo tipo 
è necessario, pertanto, considerare sia il 
bambino, con i suoi bisogni, sia la madre, con la 
sua esperienza passata e il suo modo di 
relazionarsi al figlio, sia l’ambiente all’interno 
del quale si crea il rapporto; ambienti diversi, 
infatti, possono offrire, o negare, tanto alla 
madre quanto al bambino, stimoli differenti, con 
conseguenti reazioni diversificate, tali da 
influenzare positivamente, o negativamente, lo 
sviluppo del bambino, il comportamento della 
madre e lo stesso rapporto madre-figlio. Se la 
relazione, infatti, si sviluppa all’interno di un 
ambiente sereno che offre alla madre la 
possibilità di rispondere alle esigenze del 
bambino e al bambino stesso di fare esperienze 
positive, il suo sviluppo sarà sicuramente 
 5
diverso rispetto alle possibilità che potrebbero 
essere offerte da ambienti “chiusi”, che 
obbligano al rispetto di rigide regole e non 
offrono al bambino gli stimoli necessari che lo 
spingano a fare nuove esperienze di 
apprendimento. 
Nel presente lavoro, pertanto, saranno 
considerate le diverse variabili che possono 
influire sul rapporto madre-figlio, in riferimento 
allo sviluppo di tale relazione all’interno di 
istituzioni totali, più specificamente il carcere. 
Si partirà dunque proprio dalle istituzioni, nel 
Primo Capitolo, considerando le definizioni che 
di esse hanno dato autori classici della disciplina 
sociologica, da Goffman a Foucault. Le 
istituzioni hanno precise caratteristiche 
attraverso le quali si mantengono stabili nel 
tempo, obbligano gli individui, che di esse fanno 
parte, al rispetto di precise regole e possono 
arrivare, come sosteneva Weber con la sua 
 6
definizione di “gabbia d’acciaio”, a prendere il 
sopravvento sull’uomo stesso, che le ha create, 
riducendolo in schiavitù. Sarà considerato, a 
questo proposito, il processo attraverso cui esse 
si costituiscono, definito da Berger e Luckmann 
di “istituzionalizzazione”, e il loro modo di 
rapportarsi agli individui che ne fanno parte. 
Le istituzioni totali in particolare, quali istituti 
psichiatrici e prigioni, si caratterizzano per la 
netta chiusura nei confronti del mondo esterno; 
tali istituzioni rischiano di caratterizzarsi come 
“istituzioni della violenza”, non offrendo 
all’individuo un percorso di guarigione o di 
miglioramento, dal punto di vista psicologico o 
prettamente legale, in base al tipo di istituzione 
all’interno della quale l’individuo stesso è 
“internato”. 
Lo sviluppo del carcere come istituzione può 
essere diviso in tre fasi: 
 7
1. la prima fase riguarda la nascita della 
grandi “case d’internamento”, utilizzate 
non per sostituire le punizioni ma come 
loro supplemento. I primi internati erano 
in genere vagabondi, mendicanti e gente 
senza lavoro e senza dimora che 
commettevano, generalmente, reati 
contro la proprietà e che venivano 
obbligati, all’interno dell’istituto ai 
lavori forzati (cfr. Mathiesen, 1996: 32-
33); 
2. la seconda fase va dal 1750 al 1825 ed è 
caratterizzata dalla nascita di vere e 
proprie carceri, istituti, cioè, prettamente 
per i criminali. In tal modo l’istituzione 
assume caratteristiche proprie e non 
viene più interpretata, dunque, come 
supplemento delle punizioni, con una 
notevole diminuzione, anche, delle 
punizioni stesse; 
 8
3. l’ultima fase si sviluppa tra gli anni ‘70 e 
‘80, anni in cui si è assistito, in molti 
Paesi compresa l’Italia, a un 
considerevole aumento della 
carcerazione, con un conseguente 
sovraffollamento delle strutture (cfr. ivi: 
34-44).  
Se il carcere attuale, dunque, si caratterizza 
come luogo di “internamento” di criminali è 
necessario fare, comunque, una differenziazione 
dei soggetti che si trovano al suo interno per 
capire se esistono dei “modelli” di criminali e 
che cosa li spinge ad avere comportamenti 
devianti. Una prima distinzione utile in questo 
senso è quella di genere. Nel Secondo Capitolo 
sarà considerata, conseguentemente, la 
criminalità femminile, partendo dalle diverse 
definizioni del concetto di “devianza”, per 
arrivare a individuare le diverse tipologie di 
criminali e i crimini da esse commessi. Come si 
 9
vedrà attraverso la lettura dei dati statistici, la 
criminalità femminile registra una netta 
differenza rispetto a quella maschile arrivando, a 
fine anno, a rappresentare solo il 5% del totale 
dei crimini commessi. I motivi alla base di 
questa differenza sono molti e, a seconda della 
disciplina, hanno origine diversa: dalla minore 
capacità bio-psichica della donna che la 
porterebbe, anche, a commettere meno crimini, 
tesi sostenuta in passato dalla criminologia, fino 
alla diversa partecipazione della donna alla vita 
sociale, ipotesi che riconduce la criminalità 
femminile alla “minore presenza” della donna in 
società. Analizzando i crimini commessi dalle 
donne è indispensabile, inoltre, un riferimento 
alla legislazione attuale in materia, argomento 
affrontato nel Terzo Capitolo nel quale si farà 
riferimento, in particolare, alle disposizioni 
legislative riguardanti le detenute con prole e le 
donne incinte. Dal 2000, infatti, con la Legge n. 
 10
40, conosciuta come legge Finocchiaro, sono 
previste forme alternative alla detenzione in 
cella, con l’introduzione della detenzione 
domiciliare speciale, per condannate con figli 
piccoli, o il rinvio obbligatorio della pena per 
donne incinte. La legge Finocchiaro ha 
modificato la precedente normativa basata sulla 
Legge 253 del 1975 che, all’articolo 11, aveva 
introdotto la possibilità, per le detenute, di 
tenere i figli in carcere fino al compimento del 
terzo anno di età, e le successive modifiche: la 
Legge Gozzini, del 1986, e la Legge Simeoni-
Saraceni, del 1998. La legge attualmente in 
vigore, tuttavia, non è applicabile a tutta la 
popolazione carceraria, ci sono casi - come 
quello delle donne rom, che non hanno una fissa 
dimora, o quello delle tossicodipendenti, 
considerate recidive - per i quali la legge stessa 
risulta di difficile applicazione con la 
conseguenza, ancora oggi, di bambini detenuti 
 11
con le madri. Proprio a questi bambini si fa 
riferimento nel Quarto Capitolo.  
Il 20 novembre 1959 le Nazioni Unite hanno 
approvato la Carta dei diritti del fanciullo (cfr. 
Meucci, Scarcella, 1984:7). In tale occasione i 
diritti dei bambini sono stati suddivisi in alcuni 
gruppi quali: il diritto alla vita, che comprende il 
diritto di essere accettato e il diritto all’integrità 
fisica; il diritto alla sicurezza, diritto ad avere, 
dunque, una famiglia che si prenda cura del 
bambino stesso, o una comunità con operatori 
specializzati; il diritto all’autonomia, che 
prevede, fra gli altri, il diritto al gioco; e i diritti 
alla socializzazione, all’adolescenza e a non 
essere considerati diversi (cfr. ivi:12). 
In alcuni casi, come all’interno delle istituzioni 
totali, i bambini non godono di questi diritti. Le 
istituzioni totali, infatti, non hanno una struttura 
e un’organizzazione interna tali da poter 
assicurare ai bambini gli stimoli e le risposte che 
 12
la loro età richiede. Un’indagine condotta da 
Gianni Biondi nelle carceri italiane evidenzia 
come la maggior parte dei bambini cha vivono 
in cella con la mamma manifesti segni di 
chiusura e insofferenza nei confronti del mondo 
esterno, disturbi del sonno, ritardi 
nell’articolazione del linguaggio e poca curiosità 
di apprendimento rispetto a bambini che non 
vivono in tali situazioni. Riconoscendo 
l’importanza dei diritti di questi bambini, anche 
grazie alla Convenzione Internazionale sui diritti 
dell’infanzia
1
, in vigore già dal 1989, si è 
cercato di creare per essi specifici progetti, su 
tutto il territorio nazionale, da parte di 
associazioni diverse, per far vivere loro 
un’esperienza che sia il meno traumatizzante 
                                                 
1
 Il Testo della Convenzione è stato approvato 
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 
novembre 1989. Tra i punti fondamentali del Testo: il 
riconoscimento dell’importanza, per lo sviluppo della 
personalità del minore, di crescere in un ambiente 
familiare, comprensivo e privo di tensioni (cfr. Calvi, 
1991:159-160). 
 13
possibile attraverso, ad esempio, la creazione di 
ludoteche o spazi neutri, o la possibilità di uscire 
dal carcere, accompagnati dai volontari, per 
giocare con altri bambini o frequentare gli asili 
comunali. 
 
 
 
 
 14
CAPITOLO PRIMO 
 
 
 Le Istituzioni 
 
 
1.1 Definizioni e caratteristiche 
 
Il termine “istituzione”, dal latino istitutiōne 
derivato di instituĕre, indica la fondazione di 
qualcosa di pubblico interesse o, comunque, 
d’importanza sociale o morale. Quando si parla 
di istituzioni ci si può riferire sia alla vita 
pubblica sia a quella privata, ma anche alla 
legge, al mercato, ai rapporti fra persone. 
In sociologia le istituzioni sono forme di 
aggregazione sociale caratterizzate da modelli di 
comportamento che, grazie ai processi di 
ripetizione, tipizzazione e oggettivazione, si 
sono cristallizzati in ruoli all’interno della 
 15
società (cfr Ferrarotti, 1986: 113). 
L’oggettivazione può avvenire tramite due 
tipologie di strutture: visibili (organizzazioni 
oppure gruppi primari) e simboliche (contenuti 
culturali condivisi, rituali e linguaggio). La 
realtà della vita comune contiene degli schemi di 
tipizzazione che permettono all’individuo di 
percepire gli altri in un determinato modo e 
porsi in relazione con essi di conseguenza; 
l’individuo, pertanto, può percepire un altro 
individuo come: “un uomo”, “un uomo 
simpatico”, “un europeo”, ecc. Le tipizzazioni 
guidano gli individui nelle diverse situazioni, 
determinando, anche, le loro azioni, in situazioni 
specifiche (cfr. Berger, Luckmann, 1969:53). 
Ogni istituzione sociale implica, inoltre, un 
insieme di norme a cui gli individui devono 
attenersi. Le istituzioni devono, quindi, 
soddisfare due condizioni: avere uno sviluppo 
 16
storico
2
 e fornire, agli individui che ne fanno 
parte, uno schema di condotta (cfr. ivi:84). È 
necessaria, inoltre, una distinzione fra le: 
istituzioni formali: strutture codificate, dotate di 
regolamenti e statuti giuridici, che gli individui 
devono rispettare; 
istituzioni informali: non formalmente 
codificate, hanno proprie norme e regole, ma 
non possiedono un apparato legislativo che 
faccia applicare, obbligatoriamente, tali regole 
(cfr. Ferrarotti, 1986:115). In tali istituzioni, 
dunque, la sanzione non dipende dalle leggi o 
dalla polizia, ma si basa piuttosto sul costume e 
sulle aspettative generalizzate (cfr. Macioti, op. 
cit.:81).  
Delle istituzioni sono state date diverse 
definizioni; generalmente, sono considerate 
                                                 
2
 Lo sviluppo storico è indispensabile perché non si 
possono capire a fondo le istituzioni se non si conosce il 
contesto storico in cui esse stesse sono state create (cfr. 
Berger, Lukmann, op. cit.:84). 
 17
organizzazioni, associazioni, che svolgono 
funzioni rilevanti dal punto di vista sociale e 
sono valutate positivamente dalla società che le 
legittima dal punto di vista ideologico e le 
sostiene economicamente. Le istituzioni sono 
state oggetto di riflessione - in periodi e contesti 
storici anche lontani fra loro - per molti studiosi 
che di esse hanno parlato in termini diversi: K. 
Marx, per esempio, precursore del 
conflittualismo, le definisce come formazioni 
sovrastrutturali che riflettono i rapporti sociali 
reali che costituiscono la struttura di base di una 
produzione all’interno di una formazione socio-
economica (cfr. Macioti, op. cit.:84). 
C.H. Cooley
3
 le considera, invece, sistemi 
simbolici diffusi, significati condivisi dai 
                                                 
3
 C. H. Cooley è stato uno dei precursori 
dell’interazionismo simbolico. Ha teorizzato la diversità 
tra gruppi primari e gruppi secondari, intendendo “l’Io” 
come risultato dell’informazione che ci giunge come 
riflesso del giudizio delle persone con le quali interagiamo 
(cfr. Macioti, op. cit.:117).