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ABSTRACT 
 
Questo studio presenta il programma formativo, proposto dal terapista occupazionale, con lo 
scopo di educare l’operatore sanitario alla comunicazione con il paziente affetto da 
Alzheimer, utilizzando le strategie e le tecniche conversazionali proprie dell’Approccio 
Conversazionale di P. Vigorelli. Lo studio ha coinvolto 2 OSS del Centro Diurno di Tarquinia 
e i loro 8 pazienti affetti da Alzheimer di grado lieve – moderato. Ogni paziente è stato 
sottoposto ad una conversazione “basale”, cioè condotta secondo le normali regole 
dell’attività assistenziale, e ad una conversazione “tecnica”, nella quale sono stati applicati i 
principi del Conversazionalismo. Attraverso l’analisi delle conversazioni immateriali, si è 
passati dal conteggio delle forme grammaticali al calcolo degli indici testuali e, 
successivamente, mediante l’analisi statistica dei dati, alla valutazione dei risultati. Questo 
metodo conversazionale potrebbe divenire un pratico strumento operativo degli operatori 
sanitari e di tutti i caregivers, portando alla realizzazione di conversazioni felici, aumentando 
contestualmente la produzione verbale, la partecipazione e il coinvolgimento del paziente, 
nonché la percezione dell’operatore di sentirsi più esperto, nell’uso della parola, e più 
consapevole di contribuire al benessere dell’assistito.
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1.  INTRODUZIONE 
 
1.1  Panorama delle Demenze e Malattia d’Alzheimer 
 
In Europa si stima che la demenza di Alzheimer (AD) rappresenti il 54% di tutte le demenze 
con una prevalenza nella popolazione ultra sessantacinquenne del 4,4%. La prevalenza di 
questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nelle donne, che presentano valori che 
vanno dallo 0,7%, per la classe d’età 65-69 anni, al 23,6%, per le ultranovantenni, mentre per 
gli uomini i valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%
1
. L’età è il fattore di rischio 
principale. Altri fattori, ma meno significativi, sono il livello d’istruzione, le relazioni sociali 
e la familiarità. L’attività cognitiva, l’attività fisica, le interazioni sociali, insieme alla 
prevenzione e cura delle patologie cardiovascolari, sono ritenuti fattori protettivi
2
. 
 In Italia i tassi di incidenza medi per 1000 persone-anno sono stati il 12,47% (95% intervallo 
di confidenza (C I) = 10,23-14,72) per la demenza, il 6,55% (95% C I = 4,92-8,17) per l'AD, e 
il 3,30% (95% C I = 2,14-4,45) per la VaD. Le donne hanno un più alto rischio di sviluppare 
AD (hazard ratio = 1,67, 95% C I = 1,02-2,75), e gli uomini di sviluppare VaD (hazard ratio = 
2,23, 95% C I = 1,06-4,71). L’incidenza di demenza in Italia va di pari passo con la maggior 
parte dei paesi industrializzati. Sono attesi circa 150.000 nuovi casi all'anno
3
. La demenza di 
Alzheimer e quella vascolare rappresentano rispettivamente il 50-70% e il 15-25% di tutti i 
casi di demenza.  
La malattia di Alzheimer rappresenta quindi la più frequente forma di demenza nell’anziano e 
ne costituisce una delle malattie maggiormente disabilitanti
4
. È stata descritta per la prima 
volta, nel 1901, da Alois Alzheimer, neuropsichiatra tedesco, in una donna di 51 anni che 
presentava perdita della memoria, cambiamento del carattere, delirio di gelosia, incapacità a 
provvedere alle cure domestiche. L’Alzheimer colpisce le cellule del SNC ed è caratterizzata 
dalla morte di neuroni, facenti parte, soprattutto, delle aree del cervello deputate alla memoria 
e alle altre funzioni cognitive. Nelle ultime fasi della malattia, la progressiva perdita cellulare, 
si traduce, macroscopicamente, in marcata atrofia della corteccia cerebrale
5
. Le cause di 
questo processo non sono ancora del tutto note, sebbene sia certa la sua associazione con 
depositi anomali di proteina Tau e di beta amiloide nel cervello. Nella maggior parte dei casi, 
la malattia ha forma sporadica, non ereditaria. La causa non è nota, ma si ritiene che fattori
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ambientali possano interagire con una predisposizione genetica, determinando la malattia. La 
diagnosi è posta per esclusione, il suo grado di attendibilità è alto, ma si parla sempre di 
diagnosi di demenza d’Alzheimer “probabile”, in quanto la diagnosi certa si può effettuare 
solo per mezzo di biopsia cerebrale dal vivo o dopo il decesso
2
.  
L’evoluzione dell’Alzheimer può essere illustrata attraverso le fasi della Scala di 
Deterioramento Globale (GSD), sviluppata dal Dr. Barry Reisberg. Essa fornisce una 
panoramica dei livelli di declino cognitivo nelle demenze degenerative primarie, come, per 
l’appunto, quella di Alzheimer. La suddivisione prevede 7 fasi. Le fasi da 1 a 3 sono quelle 
della pre - demenza, da 4 a 7 rappresentano le tappe della demenza. Gli operatori sanitari 
possono avere un'idea approssimativa della stadiazione di un individuo, in relazione al 
processo di malattia, osservando le caratteristiche comportamentali e confrontandole con i 
livelli della GDS. Nello stadio I (nessun declino cognitivo) non si riscontra alcuna perdita di 
memoria clinica nel soggetto. Nello stadio II (declino cognitivo molto lieve) si riscontrano 
disturbi soggettivi di perdita di memoria in settori come: dimenticare il posto in cui sono stati 
messi oggetti familiari, dimenticare nomi precedentemente noti; non si riscontrano deficit 
oggettivi sul lavoro e nelle situazioni sociali; preoccupazione appropriata per la 
sintomatologia. Nello stadio III (declino cognitivo lieve) i deficit di memoria sono più 
definiti: il paziente può perdersi viaggiando in un ambiente non familiare, ha una resa 
lavorativa scarsa, può ricordare poco di un libro che ha appena letto, manifesta maggiore 
difficoltà nel ricordare i nomi di persone da poco conosciute, può smarrire oggetti di valore; al 
colloquio clinico sono evidenti mancanze di concentrazione; questi sintomi sono 
accompagnati da stati d’ansia lievi o moderati. Nello stadio IV (declino cognitivo moderato-
lieve demenza) si possono manifestare deficit di memoria riguardo la propria storia personale 
e avvenimenti attuali o recenti, difficoltà di concentrazione, incapacità di eseguire compiti 
complessi, diminuita capacità di viaggiare e gestire il denaro; sono inoltre frequenti deficit di 
orientamento spazio-temporale e di riconoscimento delle persone e volti familiari. Nello 
stadio V (declino cognitivo moderatamente grave-demenza di grado moderato) il soggetto 
non riesce più a sopravvivere senza assistenza, non necessita di aiuto nella cura personale o 
nell’alimentazione, ma può avere qualche difficoltà nello scegliere l'abbigliamento adeguato 
da indossare; durante il colloquio con il medico non riesce a ricordare aspetti rilevanti della 
propria vita attuale, ma sa il proprio nome, quello del coniuge e dei figli; è spesso disorientato 
nel tempo e nello spazio e può riscontrare difficoltà nel contare all’indietro da 40. Nello stadio 
VI (declino cognitivo grave-demenza moderatamente grave) il soggetto ha bisogno di
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assistenza nella vita quotidiana e nell’orientamento spaziale; è in gran parte ignaro di tutti gli 
eventi più recenti e delle esperienze della propria vita; può avere difficoltà nel contare 
all’indietro da 10, e talora anche in avanti; possono verificarsi cambiamenti di personalità ed 
emozionali, tra i quali: delirio, sintomi ossessivi, sintomi di ansia, agitazione, comportamento 
violento, abulia cognitiva. Nello stadio VII (declino cognitivo molto grave-demenza grave) 
tutte le capacità verbali vengono perse; il soggetto è incontinente e necessita di completa 
assistenza nella cura di sé e nella nutrizione; perde le competenze psicomotorie di base, ad 
esempio la capacità di camminare e il cervello sembra non essere più in grado di dire al corpo 
cosa fare; sono spesso presenti rigidità generalizzata e riflessi neurologici dello sviluppo
6
. 
La durata media della malattia è di 10-15 anni e la morte, nella maggior parte dei casi, è 
dovuta all’aggravarsi delle condizioni cliniche generali, derivanti dall’accentuazione della 
fragilità globale della persona, durante il decorso della demenza
2
. Data l’imponenza numerica 
e sociale di tale malattia, è importante concentrarsi sui possibili interventi. In presenza di 
disturbi comportamentali: il primo intervento deve essere non farmacologico. Un adeguato 
trattamento delle condizioni associate della malattia che possono causare agitazione, 
modificazione dei comportamenti dei caregivers, e l’intervento sull’ambiente in cui il paziente 
vive, possono in un numero notevole di casi controllare o migliorare i comportamenti 
anormali del paziente
7
. L’utilità principale delle terapie non farmacologiche è la qualità della 
vita, intesa come il miglioramento del benessere del paziente e di chi gli sta attorno. Ancora 
più importante è la relazione che si stabilisce tra l’operatore e il paziente, in quanto se il 
paziente non si sente ascoltato e rispettano, qualsiasi attività riabilitativa non avrà buoni 
risultati
8
. Il focus del trattamento deve essere quello di migliorare non solo la qualità di vita 
del paziente, ma anche quella dei caregivers. Infatti il lavoro del caregiver è una delle 
principali tutele e garanzie del malato.  
 
1.2  Letteratura dei Programmi formativi per caregivers e operatori 
 
Nelle fasi iniziali della malattia le attività quotidiane strumentali (IADL, Instrumental 
Activities of Daily Living), come ad esempio la gestione delle proprie finanze, i compiti di 
cura della propria casa (cucinare, stirare, pulire), la guida di veicoli e la lettura, si rivelano 
problematiche. Durante la fase intermedia si dimostrano più difficoltose le attività di vita 
quotidiana di base (BADL, Basic Activities of Daily Linving) come fare il bagno, la
5 
 
vestizione, il rassetto al lavandino e la mobilità. Inoltre la persona sperimenta la deprivazione 
occupazionale poiché viene a mancare sempre più l’iniziativa per intraprendere attività del 
tempo libero, oltre che la volontà di partecipazione a momenti collettivi e di socialità. In 
particolare, nella transizione tra la fase IV e V (Gentlcare- Moyra Jones), il paziente ha 
perdite di memoria, ridotta capacità di esprimersi con il linguaggio, ridotta capacità di 
orientarsi e ridotto riconoscimento di luoghi, oggetti e persone. Negli stadi più avanzati 
sopraggiungono la totale dipendenza nelle ADL di base, l’incontinenza e i disturbi del ritmo 
sonno-veglia, che possono portare al vagare notturno
9
.  
L'American Occupational Therapy Association Review ha svolto una revisione sistematica di 
lavori sulle strategie educative e di sostegno ai caregivers delle persone affette da malattia di 
Alzheimer (AD) e demenze. I risultati suggeriscono che gli interventi che impegnano 
congiuntamente, con formazione domiciliare, le persone con malattia di Alzheimer ed i loro 
caregivers sono più efficaci delle strategie che si concentrano esclusivamente sulle persone 
con AD. Fondamentale è costruire un metodo di comunicazione efficace paziente-assistente, 
in cui entrambi si sentano liberi di discutere e siano ascoltati attivamente. Nel caregiver la 
frustrazione nel non riuscire ad aiutare il suo assistito in maniera adeguata, crescerà al pari 
dello sconcerto e della nostalgia per le conversazioni che si potevano fare con lui un tempo
10
. 
All’interno del Piano di Indirizzo per la Riabilitazione, del Ministero della Salute (2011), 
viene citato il caregiver, familiare o persona di riferimento, come avente diritto a rientrare 
all’interno del team riabilitativo, e quindi gli deve essere garantito, per l’azione riabilitativa, 
un relativo addestramento. Nel 2009 è stato sperimentato con un trial randomizzato, il 
Tailored Activity Program (TAP), un programma di intervento domiciliare basato sulla 
terapia occupazionale che si è mostrato in grado di ridurre i sintomi comportamentali e l'onere 
per il caregiver. I caregivers hanno aumentato la propria fiducia utilizzando attività, hanno 
constatato di avere meno rabbia e sintomi comportamentali (86%), hanno migliorato le 
competenze (93%) e il controllo personale (95%). Sono stati osservati maggiore impegno 
(100%) e piacere (98%) nei soggetti con demenza
11
. 
I programmi educazionali rivolti ai caregivers sono abbastanza ampi, ma l’aspetto che spesso 
viene tralasciato riguarda la comunicazione con il paziente AD. Poche in letteratura le 
pubblicazioni scientifiche a riguardo. Da una ricerca su Pubmed sono emersi dati confortevoli 
sui programmi formativi rivolti ai caregivers. Uno studio randomizzato è stato intrapreso da 
Friedman e Tappen
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 al fine di determinare se un planned walking è in grado di migliorare la 
performance comunicativa di pazienti con Alzheimer mederato-grave, residenti in due case di
6 
 
riposo, suddivisi in due gruppi, caso e controllo. L’analisi dei dati, post programma, ha 
indicato un significativo miglioramento della performance comunicativa del gruppo caso, 
rispetto al gruppo controllo (p = 0,024). L’articolo di un case study, redatto da Graff et al.
13
, 
afferma con successo che la terapia occupazionale, oltre che occuparsi della valutazione 
dell’ambiente, degli interessi e delle capacità dei pazienti con demenza, mira a migliorare il 
loro senso di competenza e le loro abilità, attraverso l’educazione del caregiver riguardo le 
competenze pratiche e le strategie comunicative. Inoltre, gli operatori sanitari possono 
acquisire una certa comprensione della performance quotidiana e comunicativa dei pazienti e 
dei loro caregivers. Small J.A. e Gutman G.
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 sono gli autori di uno studio che contiene la 
descrizione della letteratura sul caregiving, inerente le strategie comunicative raccomandate 
dalle associazioni della malattia di Alzheimer e da autori di libri riguardanti il caregivers del 
paziente AD. Le strategie comunicative, per i caregivers dei pazienti con AD, raccomandate 
dalla letteratura sono: utilizzare frasi brevi  e semplici, parlare lentamente, porre una domanda 
o dare un'istruzione per volta, stabilire e mantenere il contatto visivo rimanendo davanti al 
paziente, eliminare le distrazioni (ad esempio TV, radio), evitare di interrompere il paziente e 
attendere che risponda, utilizzare "sì / no" piuttosto che domande aperte, incoraggiare il 
paziente a descrivere la parola che sta cercando, ripetere i messaggi utilizzando la stessa 
formulazione, esprimere in altre parole i messaggi ripetuti. L’articolo di Clark e Lynne
15
 
documenta l’effetto degli interventi non farmacologici sulla comunicazione che aiutano le 
persone con Alzheimer ad operare al loro livello più ottimale. In un topic di riabilitazione 
geriatrica
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 si sottolinea l’importanza di personalizzare l’educazione e i programmi formativi 
per ciascun caregiver. La natura dell’insuccesso comunicativo nei pazienti con Alzheimer 
sembra dipendere dallo stadio della malattia. I risultati dello studio di Orange J.B., Miller L. e 
Johnson A.M.
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 confermano che i pazienti, nella fase precoce e media, raggiungono un 
travolgente successo nel risolvere il fallimento comunicativo, nonostante il declino cognitivo, 
linguistico e delle capacità conversazionali. Importanti implicazioni riguardano oltretutto la 
comprensione della progressione patologica rispetto alla performance conversazionale, al fine 
di favorire lo sviluppo di programmi di formazione volti al miglioramento della 
comunicazione tra i caregivers e i pazienti con Alzheimer. L’Associazione Alzheimer dello 
Stato dell’Indiana (USA) ha pubblicato un approfondimento sul miglioramento della 
comunicazione, essendo, questa, uno degli aspetti di maggiore difficoltà esistenti nella 
malattia di Alzheimer. Per il paziente, il non essere in grado di comunicare, può provocare 
frustrazione, imbarazzo e dolore. Per i caregivers diventerà sempre più difficoltoso 
comunicare con il paziente, specialmente negli stadi avanzati della malattia. Per questo