Se conosci la tua storia sai da
dove viene
il colore del sangue che ti scorre
nelle vene.
Gennaro Della V olpe
Introduzione
Una premessa che è quasi un chiedere scusa.
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Affrontare un elaborato di tesi sul tema dell'emigrazione, quando si è figlio di
emigrati e quando si è personalmente coinvolti nel definirsi del “viavai calabrese”,
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presenta una duplice difficoltà: da un lato si deve necessariamente essere
emotivamente il più distaccati possibile dall'oggetto di indagine, dall'altro ci si rende
conto che si è, per forza di cose, più che un osservatore partecipante (participant
observer), un osservatore coinvolto (involved observer).
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A complicare ulteriormente il compito si aggiungeva la mia passata conoscenza
1 Parafrasando “una premessa che è quasi una giustificazione” di Harrison (1979, p. 5) e
l'”introduzione: quasi una precisazione” di Pitto (1988, p. 9).
2 Harrison, 1979.
3 Il riferimento è alla posizione che il ricercatore deve assumere nel realizzare il suo metodo di
indagine: “Nella ricerca antropologica l'osservazione partecipante non è però l'unico strumento del
quale il ricercatore si serve. Il metodo dell'involved observer, per esempio, è simile all'osservazione
partecipante, la differenza risiede nel fatto che il ricercatore participant studia un gruppo estraneo
e gode della protezione concessa allo straniero, al quale il gruppo deve mostrare un certo grado di
rispetto e di ospitalità. Quando il ricercatore è involved, invece, la realizzazione del metodo
diventa ancor più laboriosa perché quando si partecipa alla vita della comunità presa in esame e si
tenta di applicare il metodo con chiarezza ed obiettività scientifica, ci si trova ad affrontare
l'ulteriore ostacolo di avere un «passato in comune», che lega il ricercatore agli individui che cerca
di studiare” (Farina, 2008, p .44).
Per la distinzione tra le due modalità di osservazione sul campo cfr. i testi di Pitto, 2009, p. 2 e
segg. e Clark, 1969, p. 10 e segg.
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di luoghi, persone ed avvenimenti oggetto di indagine, visto il personale
coinvolgimento nel medesimo processo di migrazione. Ciò mi ha attribuito un ruolo
definibile di osservatore consapevole.
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Dopo aver ammesso di essere “più emotivamente compromesso”
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in questa
ricerca, è doveroso chiarire i motivi per i quali la riflessione sull'emigrazione in
Svizzera, che qui si propone, è stata occasione per approfondire e interpretare i
meccanismi di composizione e ricomposizione identitaria.
Sono nato in Svizzera, ad Aarau (nel cantone Argovia, Svizzera tedesca), da
genitori calabresi, ed i primi 14 anni della mia vita li ho trascorsi tra Niedergösgen e
Schönenwerd, nel canton Soletta (in tedesco Solothurn), emigrando poi in Calabria
durante l'adolescenza.
Il mio arrivo in Calabria, nel luglio 1975, è stato traumatico: lasciare scuola ed
amici nella preadolescenza, quando il gruppo dei pari assume un'importanza
fondamentale, tornare in un luogo dove si era trascorso al più un mese all'anno nel
periodo estivo, non essere stati coinvolti in alcun modo nella decisione familiare di
rientrare definitivamente nel luogo di origine dei propri genitori e trovare un
ambiente molto diverso da quello che si era lasciato alle spalle, non è stato facile.
Ho impiegato qualche anno per integrarmi definitivamente nel nuovo paese e,
con molta probabilità, solo la nascita dei miei due figli mi ha permesso di costruire le
mie radici nella terra dove ero “immigrato”. Allo stesso modo, forse, con la quasi
certa emigrazione dei miei figli per motivi di lavoro, sarò di nuovo un fiore senza
radici.
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Quando si è prospettata la possibilità di approfondire la riflessione, da un punto
di vista antropologico, non ho esitato un attimo, scegliendo nell'ambito dei processi
migratori una sortita antropologica tra gli emigrati italiani in Svizzera, avendo, tra
l'altro, la possibilità di tornare per alcuni mesi in Svizzera, per motivi di lavoro oltre,
4 “...un'osservazione partecipante che noi oggi definiamo consapevole, perché i ruoli delle parti
erano già ampiamente inseriti in un contesto di relazione...” (Pitto, 2009, p. 4).
5 Ibidem, p. 19.
6 Forse hanno ragione gli Almamegretta, quando cantano “'o sciore cchiù felice è 'o sciore senza
radice” ('O sciore cchiù felice, 1993).
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ma questo lo decisi al momento, che di studio.
Il presente lavoro mi ha aiutato, senza alcun dubbio, a riannodare i fili spezzati
della mia storia, a mettere ordine e definire più precisamente la mia identità, ma
anche ad esplorare quella che Hobsbawm definisce la zona crepuscolare, ossia quella
zona che “si stende dal punto d'inizio delle tradizioni o memorie familiari ancora
vive (diciamo dalla più antica fotografia di famiglia che il familiare più anziano è in
grado di identificare o spiegare) fino al termine dell'infanzia”.
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Ad essere sincero l'esigenza primaria del presente studio è stata quella personale
ed auto-terapeutica, ma naturalmente non si tratta solo di un'autobiografia, ma la
lettura di un processo complesso ed articolato come l'emigrazione, interpretato dalla
posizione di chi sta tra l'analisi e l'autoanalisi, quella di un emigrato/immigrato, delle
sue difficoltà di reinserimento, di uno “svizzero” in Italia e di un “italiano” in
Svizzera, combattuto a definire le potenzialità della sua double consciousness.
Al bisogno catartico personale si è affiancata la necessità di approfondire la
ricostruzione storica dell'emigrazione roglianese verso la Svizzera, ma anche di
inscrivere il tutto nella cornice più ampia della storia dell'emigrazione e degli
avvenimenti storico-sociali che vanno dai secondi anni '50 agli anni '90 del secolo
scorso.
Infine, e necessariamente, si troveranno osservazioni, confronti ed indagini
rilevate attraverso gli strumenti dell'antropologia culturale, che hanno imposto la
progettazione di una discesa sul campo di circa 4 mesi per osservare, più da vicino,
persone e luoghi protagonisti della presente ricerca. Il breve soggiorno trascorso è
stato utile per confrontare l'attuale condizione degli emigrati italiani con quella
vissuta negli anni '60-'70: ormai in Svizzera sono presenti tre diverse generazioni, e
le ultime due, ossia figli e nipoti degli emigranti oggetto del presente studio, non si
possono più considerare strettamente emigranti.
L'elaborato, quindi, è strutturato come un intreccio tra considerazioni personali,
riconducibili al proprio vissuto, o alla propria memoria, ricostruzioni storico-sociali
del periodo considerato, ed interpretazioni dei dati rilevati sul campo.
7 Hobsbawm, 1975, p. 5.
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Per quanto riguarda la progettazione della discesa sul campo, oltre a far
riferimento ai miei ricordi personali, mi sono avvalso di alcuni informatori, fra i quali
mio padre, vissuto in Svizzera dal marzo 1957 al dicembre 1991, al quale spesso ho
chiesto informazioni riguardo a sé ed alle quotidianità di quegli anni.
Durante il mio soggiorno svizzero ho avuto modo di intervistare alcuni emigrati
tutt'ora residenti a Schönenwerd, in particolare Aldo Domanico, roglianese emigrato
nel 1970, a 21 anni, e fondatore, nel 1986, dell'Associazione Roglianesi Emigrati in
Svizzera (ARES).
Il ruolo degli informatori è stato determinante perché essi hanno rappresentato gli
strumenti privilegiati per entrare in comunicazione con le realtà oggetto
dell'osservazione
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e per definire il confronto per la rielaborazione delle esperienze
che, fino ad allora, vivevano solo in me.
La possibilità di intervistare persone di generazioni diverse, o comunque
emigrate nell'arco di quasi 30 anni, mi ha permesso di ricoprire, con le indagini,
l'intero arco temporale dell'emigrazione dei roglianesi in Svizzera, che arriva ormai a
60 anni (dal 1954 al 2014).
Non solo per fare chiarezza sulla mia zona crepuscolare, ma soprattutto per
comprendere meglio come è iniziato l'esodo roglianese verso la Svizzera, è stato
necessario iniziare dalla metà degli anni '50 del secolo scorso.
8 Cfr. Farina, 2008, p. 50.
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Pazienza...
Chi vi capisce!
Vi infastidisce
la nostra presenza.
Vi stupisce
la nostra partenza.
Pierino Gabriele
Capitolo 1
IL VIAGGIO DA ROGLIANO A SCHÖNENWERD
L'emigrazione italiana non è iniziata nel secondo dopoguerra, se si pensa che già
nel tardo medioevo mercanti e artigiani dell'Italia settentrionale partivano, per periodi
brevi, in direzione dei più importanti centri di traffico europei
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ed alla fine dell' '800
contadini ed operai lasciavano la propria terra per affrontare lunghi viaggi
transoceanici, in cerca di una vita migliore, spesso senza fare più ritorno in patria.
Si può concordare con l'affermazione di Pitto, quando scrive che “la Calabria è la
regione che in valori assoluti di più ha dato al processo migratorio, in termini di
esseri umani e di cultura”.
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In questo ampio e lunghissimo processo di migrazione, sia il breve periodo
storico, sia il numero degli emigrati considerato in questo studio, non è paragonabile
agli esodi ed alle centinaia di migliaia di calabresi migrati in epoche precedenti, ma
rappresenta bene uno spaccato di un'emigrazione che per certi versi è simile, ma che
9 Pizzorusso, 2002, p. 5 e segg.
10 Pitto, 1990a, p. 13.
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