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INTRODUZIONE
Il reato di false comunicazioni sociali, noto anche come falso in bilancio,
rappresenta da sempre un tassello fondamentale del diritto penale dell’economia: il
principio di trasparenza societaria, attuato per il tramite di comunicazioni sociali – in
primis il bilancio – veridiche e scevre da condizionamenti di sorta, esige, infatti, una
tutela penalistica effettiva per garantire il necessario rispetto delle aspettative di
affidamento espresse da una moltitudine di soggetti, come i membri della compagine
sociale, i terzi che, a qualsiasi titolo, con la società si relazionano ed in generale il
pubblico degli investitori e dei risparmiatori.
A partire da tempi risalenti – già dal XVII secolo, con la nascita della società per
azioni in Olanda – di fronte all’esercizio arbitrario dei poteri gestionali da parte dei
soggetti cui è demandata la governance societaria, perfettamente in grado di disporre in
merito al patrimonio collettivo della società ed in genere poco avvezzi ad un utilizzo
oculato delle risorse sociali, si riscontra la necessità di frapporre un argine ad eventuali
comportamenti mendaci di costoro: di qui si afferma il ruolo dell’informazione
societaria come strumento che consente ai soci di minoranza di controllare l’operato
degli amministratori, i quali godono del beneficio della responsabilità limitata, ma
hanno anche l’obbligo di rendicontare ai soci in merito ai risultati economici della
società.
Nel corso del tempo, la trasparenza come baluardo al mendacio societario
guadagnerà il proprio posto nell’ordinamento italiano, come in altri ordinamenti, e
diverrà oggetto di una previsione di reato autonoma, che trova il proprio archetipo
nell’art. 247, n. 1, inserito all’interno del Codice di commercio del 1882, anche se
sanzionato con una semplice pena pecuniaria.
Successivamente, complice un clima politico figlio della svolta autoritaria
impressa dal regime fascista, il legislatore riforma il reato, concependolo in chiave
rigoristica, come strumento funzionale a garantire l’interesse pubblico dell’economia
nazionale: un bene giuridico reputato preminente in quell’epoca storica, e, in quanto
tale, da presidiare tramite sanzioni detentive estremamente rigide.
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Più avanti interviene la codificazione civilistica del 1942, che contiene anche la
disciplina penale societaria e delinea lo strumento penalistico secondo una ratio
servente e meramente sanzionatoria rispetto al diritto civile.
L’art. 2621, n. 1, c.c. è dedicato alla fattispecie di false comunicazioni sociali e,
durante i sessant’anni di vigenza del reato, la sua efficacia operativa viene plasmata
dalla magistratura in varie occasioni, tutte riconducibili perlopiù al periodo di
Tangentopoli, durante il quale avviene una vera e propria riscoperta della figura
incriminatrice, che fino ad allora aveva condiviso l’oblio insieme agli altri delitti
afferenti al diritto penale dell’economia. Spesso, infatti, anche prendendo spunto dal
dibattito sui cc.dd. crimini dei colletti bianchi ed appoggiando l’esigenza repressiva
degli illeciti da questi perpetrati, si è reso opportuno rimaneggiare la disposizione,
dilatandone l’ambito applicativo allo scopo di renderla maggiormente idonea ad
assolvere le funzioni che le competevano in quel dato contesto storico e socio-politico.
E, per dire la verità, ciò non sempre è avvenuto con risultati ortodossi e nel pieno
rispetto del principio penalistico di legalità e delle sue articolazioni di tassatività e
determinatezza.
Nel 2002 è la volta della riforma sul diritto societario, operata dal D. Lgs.
61/2002, con cui si contrappone una cesura netta alla eccessiva dilatazione esegetica del
reato di matrice giurisprudenziale, ridefinendo completamente la fattispecie di false
comunicazioni sociali.
Il reato de quo è oggetto di bipartizione negli artt. 2621 c.c., derubricato a mera
contravvenzione, e 2622 c.c., che rappresenta un delitto di danno, integrato in presenza
di un pregiudizio patrimoniale occorso ai soci o ai creditori.
Secondo il parere unanime degli studiosi e dei pratici del diritto – nonostante gli
intenti programmatici positivi espressi nei lavori preparatori (poi ribaltati nei fatti a
seguito del passaggio di legislatura) – gli esiti della riforma, che avrebbe dovuto
riportare chiarezza rispetto alle zone d’ombra lasciate dal Codice civile del 1942, si
rivelano deludenti, principalmente a causa della configurazione dell’impianto normativo
complessivo, affetto da “gigantismo” ed intaccato dalla presenza di soglie di rilevanza
quantitativa, facilmente aggirabili e mal formulate.
La situazione risulta aggravata dalla configurazione contravvenzionale dell’art.
2621 c.c., dal trattamento sanzionatorio piuttosto mite, dal regime di perseguibilità a
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querela di parte per quanto attiene alle condotte illecite represse dall’art. 2622 c.c. e
dalla previsione di termini prescrizionali fulminei.
Il quadro delineato è desolante, per alcuni versi apocalittico, in quanto in termini
fattuali il falso societario viene blindato e, suo malgrado, sostanzialmente depenalizzato.
Dopo una decina d’anni – durante i quali si segnala un intervento legislativo
lievemente migliorativo, ma ad ogni modo non risolutivo, a tutela del risparmio – il
legislatore, conscio della necessità di far sì che la repressione del mendacio societario
torni ad essere uno strumento imprescindibile nell’ottica di favorire lo sviluppo
economico e la competitività nazionale e contrastare la corruzione permeante la società
a vari livelli, decide di rimettere mano alla normativa ed emana la legge 27 maggio
2015, n. 69.
Allo scopo di porre rimedio alle criticità riscontrate in passato, tale
provvedimento innova completamente la disciplina previgente, riformando le fattispecie
di false comunicazioni sociali, che tornano ad essere delitti di pericolo concreto.
Vengono soppresse le soglie di punibilità risalenti al D. Lgs. 61/2002, il regime di
procedibilità muta, così come i termini di prescrizione, e risultano meglio specificati
l’elemento soggettivo ed alcuni tratti dell’elemento oggettivo-materiale della condotta.
Il quadro normativo attuale è, pertanto, caratterizzato da un atteggiamento
dichiaratamente più rispettoso del bene giuridico della trasparenza societaria, nel
tentativo di rendere effettiva la tutela di tale interesse ed evitare quantomeno gli errori
più macroscopici delle discipline precedenti.
L’esperienza, tuttavia, insegna che un intervento legislativo non è mai perfetto,
ma perfettibile: la legge 69/2015 presenta alcune incongruenze e nodi critici, tra cui
spicca pacificamente la mai sopita querelle sulle valutazioni di bilancio.
Da questo punto di vista si ritiene che, dopo tre sentenze oscillanti della quinta
Sezione penale, la Suprema Corte a Sezioni Unite penali intervenga a breve per dirimere
il dubbio circa l’attuale portata applicativa del falso valutativo, chiarendo una volta per
tutte se uno dei profili più significativi delle condotte di mendacio societario sia privo di
rilevanza penale o meno, con gli effetti che ne conseguono.
Specialmente in tale vicenda, si coglie la straordinaria evidenza del ruolo
assunto dalla magistratura, chiamata sempre più spesso ad offrire il proprio contributo
interpretativo nei riguardi della fattispecie per aumentarne il grado di determinatezza o
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per garantire migliore tutela ad istanze di affidamento avanzate dalla collettività, di
fronte alla rinuncia, più o meno volontaria, da parte del legislatore alla definizione
puntuale di alcuni aspetti giuridici della disposizione incriminatrice.
Ad ogni modo, finora, a parere di gran parte dei tecnici si è compiuto un passo
in avanti nella repressione del mendacio societario rispetto alla novella del 2002; nel
complesso, emerge quindi un giudizio positivo sulla riforma, nella consapevolezza del
ruolo essenziale di una corretta e veritiera informazione societaria.
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di illustrare l’evoluzione normativa del
reato di false comunicazioni sociali in una prospettiva storico-cronologica,
ripercorrendo i cambiamenti avvenuti nel tempo con riferimento agli elementi costitutivi
del reato a seguito dei vari interventi legislativi susseguitisi, ma anche in conseguenza
dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che inevitabilmente ha avuto un
impatto più o meno decisivo sulla definizione dei caratteri distintivi della norma.
Quanto alla metodologia adottata, si è operata una ricognizione delle maggiori
fonti presenti in letteratura e delle pronunce ritenute più significative sul tema delle
false comunicazioni sociali, sebbene con i limiti derivanti dalla complessità e
dall’eterogeneità del tema.
L’elaborato consta di quattro capitoli, ognuno dedicato ad un determinato
intervento riformatore: il primo capitolo, dopo un breve excursus sulla nascita della
Compagnia olandese delle Indie Orientali, si occupa della fattispecie primigenia
contenuta nel Codice di commercio e dell’intervento riformatore in chiave rigoristica
avvenuto con le leggi speciali degli anni Trenta; il secondo ha ad oggetto l’esposizione
dei tratti salienti della figura incriminatrice, così come configurata nel Codice civile
all’art. 2621, n. 1; il terzo attiene alla struttura normativa impressa dalla riforma sul
falso societario del 2002 e dall’intervento parziale operato con la legge 262/2005;
infine, il capitolo conclusivo si focalizza sul provvedimento riformatore del 2015,
attualmente disciplinante la materia.
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CAPITOLO I
LE ORIGINI DEL REATO DI FALSE COMUNICAZIONI
SOCIALI
1.1 – Premessa storica: dal colonialismo mercantile alla nascita della
tutela dell ’informazione societaria
Al fine di inquadrare in maniera più completa la genesi della fattispecie delle
false comunicazioni sociali, oggetto speculativo del presente lavoro, è opportuno
effettuare un breve excursus storico, cosicché comprendere alcune dinamiche che hanno
condotto alla nascita dei reati in questione risulterà più semplice ed intuitivo.
Occorre in tal senso retrocedere fino agli inizi del diciassettesimo secolo.
La società per azioni nasce nel 1602, anno di fondazione della Compagnia
olandese delle Indie Orientali
1
, in seguito alla concessione da parte del sovrano di un
duplice privilegio: il beneficio della responsabilità limitata e la possibilità di incorporare
la propria partecipazione sociale in un documento facilmente trasferibile, l’azione
2
.
La responsabilità limitata era, fino ad allora, una prerogativa dei soci
accomandanti, privi di poteri gestori, all’interno della società in accomandita.
Va sottolineato che in epoca proto-capitalistica il beneficio della limitazione
della responsabilità era precluso alla classe mercantile: a prescindere dalla veste
giuridica assunta – irrilevante la qualità di mercante individuale, socio in nome
1
G. COTTINO, Diritto societario, in G. COTTINO (a cura di), Diritto commerciale. Vol. I, tomo II,
Cedam, Padova, 2006, p. 189. Per l’Autore la prima società per azioni è proprio da collocare nell’ambito
del colonialismo mercantile.
2
A. PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, Cedam, Padova, 1999, p. 62.
Per approfondimenti vedasi anche F. GALGANO, Introduzione al Trattato, in F. GALGANO (diretto
da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia. Vol. I: La costituzione
economica, Cedam, Padova, 1977, pp. 45-48. Qui rileviamo che la formazione di ciascuna compagnia
coloniale avveniva per atto di concessione sovrana; e questa speciale “carta” promulgata dal sovrano era,
per ciascuna compagnia, la fonte dello specifico “privilegio” della responsabilità limitata, oltre che di
quello di dividere il capitale sociale in azioni. Inoltre, l’Autore precisa che il beneficio della responsabilità
limitata era già ravvisabile nella società in accomandita: esso, tuttavia, riguardava, in questo più antico
tipo di società, solo una categoria di soci, gli accomandanti, esclusi dalla direzione dell’impresa sociale,
mentre i soci che dirigevano l’impresa, gli accomandatari, dovevano necessariamente assumere
responsabilità illimitata.
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collettivo o socio accomandatario – il mercante era, senza eccezioni, esposto a
responsabilità illimitata. Il vantaggio di limitare, assumendo la qualifica di socio
accomandante, la propria responsabilità al capitale conferito era, invece, offerto ad altre
classi detentrici di ricchezza mobiliare e, soprattutto alle classi fondiarie
3
.
L’elemento di novità è, quindi, l’avvento di un tipo di società nel quale tutti i
soci, e non soltanto una parte di essi, assumono responsabilità limitata. Una conquista
affatto marginale, considerate le conseguenze che si vedranno in seguito.
Con queste premesse, durante il XVII secolo è infatti possibile lo sviluppo del
colonialismo mercantile, legato all’attività coloniale di cui furono protagoniste, in
qualità di potenze guida, l’Inghilterra e l’Olanda
4
. In questo contesto, infatti, dovendo le
nazioni far fronte ad un’opera pantagruelica di penetrazione e conquista, si rendeva
necessario far ricorso, oltre alle risorse economiche dei signori più potenti, anche a
nuovi mezzi di raccolta del risparmio
5
.
«Con le Compagnie delle Indie del diciassettesimo e del diciottesimo secolo si
manifesta, per la prima volta, il fenomeno cui, in progresso di tempo, si darà il nome di
“socializzazione” del capitale, formato dagli apporti, oltre che della classe mercantile, di
altri ceti detentori di ricchezza»
6
.
La responsabilità limitata concessa dal sovrano viene salutata, quindi, con
estremo favore, in quanto una responsabilità di tipo personale ed illimitato avrebbe
costituito un vincolo
7
di per sé scomodo e poco funzionale, facendo dipendere le sorti
del singolo da quelle dell’ente giuridico; difatti, sarebbe diventato impraticabile riunire
una quantità indeterminata e numerosa di risparmiatori ed investitori, disposti a
rischiare prendendo parte ad un’impresa titanica tanto aleatoria.
Oltre alla dicotomia tra responsabilità illimitata personale, tradizionalmente
legata alle società di persone, e responsabilità limitata, è utile mettere l’accento anche
sulla circostanza per cui i mercatanti, desiderando velocizzare la trasferibilità delle
azioni per rendere più appetibile l’investimento, comprendono la necessità di sottrarsi
completamente ai vincoli posti alla trasferibilità delle quote. La durata talvolta indefinita
3
F. GALGANO, Introduzione al Trattato, cit., pp. 45-46.
4
G. COTTINO, Diritto societario, cit., p. 189.
5
A. PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, cit., pp. 62-63.
6
F. GALGANO, op. cit., p. 50.
7
A. PERINI, op. cit., p. 63.