II
dunque la magia del rito, unita a una grande spiritualità e una forte 
socialità. 
Lo scopo che questa ricerca si propone, è quello di analizzare la 
possibilità di tracciare delle connessioni tra il valore che tale forma di 
modificazione corporea assume presso queste popolazioni e il nostro 
piercing, ossia l’attuale e crescente tendenza dei giovani occidentali a 
perforare e ornare se stessi allo stesso modo. 
In occidente, la pratica del piercing ha conosciuto una grande 
notorietà solo da qualche anno, divenendo un vero e proprio 
fenomeno di massa la cui importanza è stata sottolineata da un abile 
sfruttamento da parte dei mass media e della pubblicità, che ne hanno 
intuito le potenzialità di impatto sull’immaginario comune. E’ bastato, 
dunque, che qualche nota fotomodella praticasse il piercing, a far sì 
che quello che, per anni, era stato identificato come il segno del 
‘selvaggio’, o come l’estremizzazione di una volontaria ribellione a 
determinati canoni estetici e sociali, divenisse moda comune, 
condivisa da un numero crescente di teen-ager. 
Un piercing ‘occidentale’, in pratica, non è nient’altro che un foro, 
prodotto attraverso la pelle con un ago chirurgico, al quale in seguito 
viene applicato un ornamento, in genere un anello o una barretta 
d’acciaio. In Italia, una forma simile di abbellimento estetico, 
prettamente femminile, è conosciuta da molti anni: i lobi delle 
orecchie delle nostre nonne erano forati e ornati dagli orecchini più 
vari, fin dall’infanzia, ma negli ultimi anni, sempre più diffusa e meno 
scioccante, è la foratura del lobo anche nei maschi, che è divenuta una 
pratica comune tra i giovani e gli adolescenti. Questa perforazione a 
 III
scopo ornamentale, di cui il piercing sembra essere una 
estremizzazione, è realizzata autonomamente attraverso un semplice 
ago e del ghiaccio o attraverso una pistola a pressione. La differenza 
essenziale tra la nostra foratura del lobo e il piercing è soprattutto 
nella tecnica utilizzata per la perforazione, che solitamente viene 
effettuata senza anestesia, e nel fatto che ogni parte del corpo può, in 
teoria, essere sottoposta a questa pratica.  
Nel primo capitolo, ho cercato di ricostruire il percorso che ha 
condotto la nostra cultura, intesa come occidentale e cattolica, a 
vedere tutte le pratiche di modificazione corporea, piercing compreso, 
in maniera negativa, relegandole a determinate categorie di  persone, 
solitamente poste ai margini della società. 
Il piercing proviene da culture frequentemente ritenute ‘primitive’, 
culturalmente poco evolute e sostanzialmente ‘selvagge’, anche 
perché legate a un’idea animistica dell’universo, popolato da 
innumerevoli divinità naturali, entità magiche, forze misteriose che 
possono rivelarsi contemporaneamente positive e negative per 
l’uomo e sulle quali l'uomo, col suo comportamento, tenta di influire.  
Forme religiose antichissime come l’animismo, o anche l’animatismo, 
si contrappongono direttamente all’idea di un dio creatore 
dell’universo e dell’uomo, una unica divinità che ha creato il corpo 
umano a sua immagine e che ha stabilito le regole sull’uso che deve 
esserne fatto. Queste regole, storicamente inscritte nella Bibbia, 
prevedono che il corpo umano non possa venire modificato, se non 
per volontà divina: il corpo  cristiano-cattolico appartiene al Dio 
creatore che identifica attraverso il segno corporeo, imposto a Caino 
 IV
per proteggerlo e allo schiavo per segnalarne la proprietà; punisce e 
redime attraverso il corpo, marchiato e afflitto da malattie e morte, ma 
consente anche all’uomo di innalzare la sua anima fino al lui 
attraverso il corpo, tramite la sofferenza e le privazioni che l’uomo 
santo si auto-infligge nella ricerca dell’estasi mistica.  
Sulla nostra visione culturale del corpo hanno poi notevolmente 
inciso i progressi medico-scientifici occidentali che, inserendolo in 
un’ottica razionalizzante, lo hanno reso una semplice e deperibile 
custodia di beni superiori come la mente, la logica, la scienza umana, 
sempre più limitato nella sua possibilità di espressione dallo 
strapotere della parola, controllato incessantemente da rigide norme 
religiose e igieniche, inscatolato in busti e altro o comunque 
perennemente coperto da abiti.  
E’ ovvio quindi che quando la nostra cultura ebbe il suo primo 
incontro con popolazioni che facevano un uso completamente diverso 
del loro corpo, tatuandolo, perforandolo, dipingendolo e ornandolo in 
maniera talmente complessa e spesso in contrasto con la loro quasi 
totale nudità, il primo impatto fu assolutamente negativo: il diverso si 
manifestava attraverso un’alterità fisica così eclatante da significare, 
nel pensiero dei primi conquistatori e colonizzatori, un’alterità anche 
ideologica, religiosa e definita a-morale, giustificando dunque la sua 
sottomissione, la ‘redenzione’ e, spesso, l’inevitabile sterminio. In 
altri casi, l’altro diveniva la mostruosità da riportare a casa e da 
esporre al pubblico divertimento, da mostrare raccontando storie 
fantastiche e incredibili che accentuavano l’idea dell’esistenza di 
popoli selvaggi, dalle pratiche barbare e inenarrabili.   
 V
Ciò che i ‘civilizzatori’ ignoravano era che ogni singolo segno, inciso 
su quei corpi, aveva un suo preciso significato e trasformava, 
attraverso la sacralità del rituale, il corpo naturale e individuale in un 
corpo culturale e sociale, riconosciuto come tale dalla sua comunità 
che inscriveva i segni di questa appartenenza sul materiale ‘cartaceo’ 
più immediatamente disponibile.  
Il corpo occidentale, silenziosamente puro, viene a scontrarsi, dunque, 
con il corpo comunicante delle popolazioni altre che, per 
classificazione direttamente oppositiva, diviene corpo impuro. L’idea 
di purezza o impurità discende, in questo caso come in molti altri, da 
un’altra opposizione dicotomica, quella tra i concetti di sacro e 
profano che, materialmente, si manifestano nella distinzione, appunto, 
tra ciò che può essere considerato puro e ciò che è ritenuto, invece, 
impuro. In realtà, il corpo umano sembra rimanere sempre sulla soglia 
di questa distinzione, costantemente ambivalente poiché la naturalità 
che lo contraddistingue contrasta con la cultura, che lo fa 
sopravvivere alle insidie del mondo, e con la sacralità che, in molte 
religioni, lo anima.  
Partendo dunque dal presupposto che, per l’uomo, classificare 
l’universo è un’attività indispensabile all’esistenza poiché, in questo 
modo, egli ritiene di poterlo controllare ordinandolo, stabilendo i 
propri ‘campi d’azione’ e separando ciò che è ‘buono’ da ciò che è 
‘cattivo’, ho sviluppato il secondo capitolo, focalizzando l’analisi sul 
linguaggio simbolico, che discende direttamente dall’inevitabile 
‘istinto classificatorio’, dall’inderogabile  necessità di dare un senso a 
tutto ciò che ci circonda, andando anche oltre la sua materialità. 
 VI
Questa forma di codificazione, basata su una fitta rete di rapporti e 
connessioni più o meno arbitrarie, sembra scaturire direttamente dal 
mondo circostante, dall’esperienza vitale, dalla storia dell’uomo e 
della società cui esso appartiene, con l’intento di mediare tra ciò che 
l’uomo, naturalmente, è e ciò che l’uomo, culturalmente, sa.   
Nelle culture preletterate, natura e cultura trovano un loro comune 
rappresentante nel corpo individuale che, pur essendo ‘nato’ naturale, 
diviene culturale e sociale attraverso le pratiche di appropriazione 
che vengono apprese fin dall’infanzia, ossia le norme igieniche che 
determinano il corretto uso del corpo in tutte le sue funzioni, e i rituali 
che segnano sul corpo ogni momento e passaggio sia fondamentale 
nella vita umana, dalla nascita alla morte.  
La ritualità è l'affermazione più eclatante della socialità e 
particolarmente significativi sono, in questo contesto, i riti 
d'iniziazione collegati alla crescita dei bambini e degli adolescenti, i 
quali si sottopongono alle prove più disparate per dimostrare il loro 
coraggio e per apprendere quella conoscenza che consentirà loro di 
assumere un nuovo ruolo sociale. Il rito iniziatico, sia esso maschile o 
femminile, sottolinea il momento di passaggio dall’età infantile a 
quella adulta, momento materialmente inciso sul corpo del fanciullo 
attraverso i segni lasciati dalle violenze subite, attraverso i tatuaggi, le 
scarificazioni, le perforazioni o le mutilazioni genitali che 
rappresentano simbolicamente il nuovo status ottenuto. 
Il rituale iniziatico ha dunque un chiaro scopo inculturativo, ossia ha 
come intento quello di consentire a ogni partecipante alla comunità di 
apprendere e condividerne le norme e, soprattutto, di riconoscere se 
 VII
stesso come suo appartenente, costruendo così la propria identità e 
immagine sociale. 
Nel terzo capitolo, viene sottolineata l'importanza del riconoscimento: 
perché l'identità individuale possa divenire sociale, la soggettività 
viene mutata in oggettività e il corpo, individualmente differente, 
diviene corpo socialmente riconoscibile. Il sé si contrappone all'altro 
da sé, all’alterità che quando è esterna al gruppo, è quasi sempre a 
esso opposta e dunque negativa; l'alterità interna è invece alla base di 
ogni forma di settorializzazione e ha la sua prima fonte nella naturale 
distinzione sessuale.  
L'alterità si legge immediatamente sul corpo e, soprattutto attraverso 
il corpo, passa la ricerca di differenziazione, attraverso la sua capacità 
di modificarsi, travestirsi, trasformarsi assumendo identità diverse e 
contrastanti. L'identità di chi non condivide regole e concetti 
cristallizzati intorno a una struttura sociale, si manifesta 
necessariamente nella diretta opposizione a quelle stesse imposizioni, 
e si traduce spesso in un atteggiamento antagonista individuale o, 
altrimenti, organizzato in vere e proprie sotto-strutture sociali, dotate 
di proprie norme e modelli solitamente opposti a quelli egemoni.  
Da questi presupposti si sviluppa ogni forma di vita contro-culturale 
che, nel tentativo di creare una propria conoscenza, un proprio stile, 
un codice comportamentale opposto a quello egemone, genera 
conflitto e apporta mutazioni all'interno della struttura precedente.  
L'adesione al gruppo controculturale presuppone, implicitamente, una 
forma di riconoscimento che, paradossalmente, si realizza proprio 
nell'essere totalmente diversi dal gruppo egemone, diversità questa 
 VIII
che si esprime facilmente e direttamente attraverso l'intervento sul 
corpo. Tale intervento può andare dalla semplice ricerca di un 
abbigliamento stravagante, alla violenza dei segni corporei del punk, 
dalla modificazione corporea più o meno permanente del moderno 
primitivista, alle performance artistiche più recenti e 
drammaticamente spettacolari dei nuovi body artists.  
Partendo dunque da un’ottica controculturale, in senso più ampio, si 
potrebbe interpretare la recente affermazione di alcune pratiche di 
modificazione corporea, piercing compreso, come il tentativo di 
recuperare forme alternative di espressione simbolica, che vadano 
oltre il linguaggio verbale e siano immediatamente leggibili, proprio 
perché materialmente inscritte sul corpo.  
Al di là della moda, cui frequentemente si fa riferimento parlando del 
piercing, non bisogna dimenticare che praticare un foro attraverso il 
proprio corpo, è un’usanza antica, le cui origini si rintracciano in 
culture diverse del passato e del presente. Tra le motivazioni 
principali del ricorso alla modificazione corporea, vi sono quelle 
legate alla ritualità, al ruolo sociale del riconoscimento, alla 
dimostrazione di coraggio, alla ricerca spirituale, o anche al semplice 
ornamento, motivazioni queste che, in parte, sembrano riscontrarsi 
anche nel piercing attuale.  
Sulla base di questi presupposti teorici, ho sviluppato la ricerca sul 
campo, seguendo una metodologia che ho riportato nel quarto 
capitolo. Dalla valutazione dei dati raccolti, è emerso che il piercing 
può essere visto come una pratica ‘presa a prestito’ dalle altre culture, 
con l'intento di riadattarla alle nostre necessità occidentali, siano esse 
 IX
di ordine spirituale, rituale, magico o semplicemente estetico. Il 
piercing diviene, allora, un convogliatore di significati, poiché esso 
non si carica mai di un unico significato, ma può racchiuderne molti 
essendo legato all'esperienza vitale di ognuno.  
Si può sicuramente affermare che, nel suo ‘trasferimento’ nella nostra 
cultura, il piercing ha perso molto del valore originario che lo legava, 
a doppio filo, alla vita culturale della popolazione da cui esso 
proveniva. Attraverso un lento processo di decontestualizzazione e 
ricontestualizzazione, che ha condotto verso una progressiva 
desimbolizzazione del piercing, esso è divenuto una risposta possibile 
a quel bisogno di espressione corporea che la nostra cultura ha 
ignorato per secoli, caricandosi di nuovi significati e valori più 
corrispondenti alle nostre necessità.  
L'indicazione più chiara che sembra derivare dall'analisi dei dati 
raccolti, sia nella parte teorica che in quella pratica, è la ricerca di una 
nuova affermazione del controllo sul proprio corpo e del suo 
possesso: modificandolo a seconda dei propri desideri, esso diviene 
fonte di nuove sensazioni, fautore di una nuova identità in continua 
mutazione, che fugge i marchi e le imposizioni seguendo invece 
l'ispirazione e i cambiamenti del momento. L'esperienza della 
perforazione, anche quando sia superficialmente interpretabile come 
‘moda’, parte comunque da una forte volontà, legata a desideri, 
elaborazioni e conoscenze differenti, e messa in atto da individui che 
decidono di loro stessi, esprimendosi attraverso un linguaggio innato 
e universale che la nostra cultura ha forse, troppo spesso, 
sottovalutato.  
 1
Capitolo Primo 
 
1.1-Il corpo sacro e il corpo impuro  
La distinzione tra sacro e profano caratterizza qualsiasi approccio di tipo 
religioso, per la necessità che l’uomo ha di ordinare ciò che lo circonda, 
determinando i propri campi d’azione e distinguendoli da quelli che egli 
non può totalmente conoscere e dominare. Sostanzialmente l’uomo 
religioso tende a inscrivere, nell’ambito del sacro, tutte le manifestazioni 
di quei poteri incontrollabili che sembrano circondarlo, siano esse di 
ordine naturale o di ordine trascendentale.  
Tra le forme religiose che  potremmo definire originarie, ossia la cui 
diffusione è stata riscontrata in numerose popolazioni del passato e del 
presente, prima per importanza e, appunto, diffusione è sicuramente 
l’animismo, che si basa sull’idea dell’esistenza, in ogni singolo essere 
vivente o anche evento naturale, di una forza misteriosa che lo fa vivere. 
Questa forza misteriosa è l’anima, la cui nozione si sarebbe sviluppata 
proprio dall’incapacità dell’uomo di spiegare fenomeni come lo 
sdoppiamento dell’esperienza onirica, la morte e la vita stessa,  ossia da 
“semplici antecedenti (...) elementi sconnessi e informi: ombre, anime 
organiche, anime esteriori, totem, spettri, genii”
1
.  
L’originarietà della nozione di anima si celerebbe proprio nel suo essere 
alla base di ogni pensiero religioso, ma spesso essa è sostituita dalla 
nozione di mana, potenza magica e impersonale dalla quale scaturisce 
una seconda  forma di pensiero religioso arcaico, l’animatismo. Ritenuta 
                                                           
1
Mauss M., L’origine dei poteri magici, Roma, New Compton editori, 1977, p. 34 
 2
anche antecedente all’animismo
2
, questa forma di religiosità si basa sul 
presupposto che il mondo, organico e inorganico, sia animato da potenze 
intangibili e misteriose, positive o negative, che possono essere 
umanamente controllate solo attraverso una rigida serie di norme rituali, 
magiche, religiose e sociali. La forza misteriosa che deriva da queste 
potenze, il mana, è presente allora in ogni attività comunitaria, può 
sprigionarsi da qualsiasi evento e ritrovarsi in ogni persona o cosa; 
tant’è che le anime stesse non sarebbero altro che “particolari mana, che 
la società attribuisce all’individuo secondo le sue parentele, le sue 
iniziazioni e le sue associazioni con morti, meteore, pietre, alberi, astri, 
animali, ecc.” 
3
.  
Sia nell’animismo che nell’animatismo, il campo del sacro e quello del 
profano non sono dunque ben delimitati, per via dell’ambiguità che 
connota il mondo naturale: le potenze che lo animano, infatti, possono 
agire in maniera positiva o negativa, a seconda dei casi e 
dell’interpretazione che ne viene data. Il sacro, allora, può proiettarsi su 
qualsiasi oggetto, animale o evento che abbia un valore importante 
all’interno di una determinata cultura, o anche solo all’interno di un 
gruppo sociale, un clan, una famiglia.   
Sacro e profano si confondono nel concetto di tabù, il divieto che 
caratterizza un atto, una persona, un oggetto e che può essere 
determinato dalle sue caratteristiche peculiari, dalla ‘quantità’ di mana 
che viene messa in gioco, prodotta, gestita, o manipolata; o ancora dal 
valore rituale e simbolico che l’atto-persona-oggetto assume all’interno 
                                                           
2
Marett R. R., in The thresold of religion, (London, 1914),cit. in Cerulli E., Le culture arcaiche oggi, 
Torino,Utet, 1986, p. 188 
3
Mauss M., L’origine..., op. cit., p. 34 
 3
della comunità stessa. Se dunque una donna mestruata può essere 
considerata tabù, intoccabile, perché la  dispersione del suo sangue la 
rende impura, può essere considerato tabù anche il re sacro, 
rappresentante divino in terra, intoccabile per via del suo ‘contatto’, 
appunto, con le potenze supreme dell’universo.  
Un esempio di questo modo di intendere il mondo è fornito da M. 
Douglas, che rintraccia questa labilità di confini nel concetto di hama
4
,  
col quale i Lele del Congo identificano tutto ciò che genera disgusto. Il 
disgusto però non equivale all’impuro, in quanto l’hama può avere un 
valore positivo per determinate persone, in determinati contesti (per 
esempio rituali) o per determinate categorie sociali. Uomini e donne 
possono aver a che fare con oggetti, luoghi, cibi hama, che possono 
essere indifferentemente puri per gli uni, impuri per le altre.  
Dove non esiste una teologia, un “corpo dottrinale”
5
 che delimiti i campi 
e costituisca opposizioni, a distinguere il sacro dal profano, l’intangibile 
dal materiale, il puro dall’impuro saranno, allora, l’esperienza vitale, il 
contesto sociale, quei rapporti di natura simbolica, che operano in 
maniera più o meno conscia, e che si strutturano in una serie di divieti e 
di norme che l’uomo sociale deve imparare a rispettare, per il suo 
benessere e per quello della comunità.  
M. Eliade riassume chiaramente questa visione: “...il sacro e il profano 
sono due modi d’essere nel mondo, due situazioni esistenziali assunte 
dall’uomo nel corso della storia. (...), i modi d’essere sacro e profano 
dipendono dalle differenti posizioni che l’uomo ha conquistato nel 
                                                           
4
Douglas M., Antropologia e simbolismo, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 33-34 
5
Ibidem, p. 31 
 4
Cosmo”
6
. Questa ‘conquista del cosmo’ si sostanzia nel controllo che 
l’uomo crede di operare su ciò che conosce, e ciò che conosce deve 
necessariamente essere catalogato, classificato, legato a qualcos’altro 
anche di ordine superiore e trascendente, strutturando quel sapere, 
pratico e teorico che permette all’uomo di difendersi dalla naturalità del 
mondo, ossia la cultura.  
Soglia perenne tra cultura e natura, sempre al confine tra sacro e 
profano, è il corpo, che assume un ruolo centrale ed estremamente 
ambiguo poiché  esso rappresenta il nostro contatto con il mondo 
esterno, la parte naturale, l’espressione dell’umanità animale; ma, al 
tempo stesso, il corpo umano vive grazie a una presenza animatrice, a 
un soffio che può essere di natura divina, e sopravvive grazie 
all’intelligenza umana e alla cultura, in un mondo ricco di insidie dalle 
quali esse lo difendono. La necessità di proteggere la totalità dell’essere 
umano comporta, allora, il rigido controllo sociale, culturale e religioso 
delle funzioni corporee più naturali e importanti come il nutrimento, la 
sessualità, la riproduzione, la nascita e la morte, perché esse non vadano 
a scontrarsi con la parte più spirituale e sacra dell’esistenza umana, 
generando confusione tra due campi così poco distanti tra loro.  
Al di là della realtà tangibile, esiste dunque un mondo fondante cui 
l’uomo appartiene solo in parte, per via di quella carnalità che è 
destinato ad abbandonare se, come uomo religioso, vuole raggiungere il 
reale del sacro: “l’uomo religioso non può vivere che in un mondo 
sacro, poiché solo questo partecipa dell’essere, esiste realmente”
7
. I 
                                                           
6
Eliade M., Il sacro e il profano, Torino, Bollati Boringhieri, 1984, p. 16  
7
Ibidem, pp. 44-45 
 5
campi del sacro e del profano dovranno essere ben distinti, affinché il 
sacro possa essere interpretato come l’aspetto reale dell’esistenza, e 
possa manifestarsi anche  attraverso il profano, inteso come ciò che è 
materialmente terreno. Avendo, dunque, entrambi a che fare con la 
materialità dell’esistenza umana, sacro e profano si riveleranno nella 
relativa e necessaria distinzione tra il puro e l’impuro: sarà compito 
dell’uomo religioso tentare di tenere separati i due campi, ricorrendo 
all’arbitrarietà, spesso solo apparente, delle classificazioni.  “Il 
significato di puro e impuro raggiunge la sua piena risonanza solo 
quando è completa la classificazione dell’intero universo”
8
, 
classificazione questa che può essere determinata dalla conoscenza 
mitica orale, tramandata nel corso di generazioni, conoscenza all’interno 
della quale “...il mito è reale poiché racconta le manifestazioni della vera 
realtà: il sacro”
9
. In culture e religioni differenti, questa conoscenza è 
inscritta (e spesso materialmente scritta) in un sistema di leggi e norme 
vero e proprio, accompagnato dalla spiegazione delle cause che hanno 
determinato un certo orientamento e hanno dato vita a istituzioni, forme 
rituali e ‘discriminazioni’ di vario genere. In questo sapere classificato, 
codificato e trasmesso, si cela anche l’idea e l’immagine che la cultura 
in questione ha del proprio corpo, e da esso si possono estrapolare le 
norme riguardo all’uso che deve esserne fatto.   
Nostra (occidentale e cristiana) fonte eziologica più importante e antica 
è la Bibbia, che fornisce un essenziale punto d’appoggio al tentativo di 
                                                           
8
Douglas M., Antropologia..., op. cit., p. 130 
9
Eliade M., Immagini e simboli, Milano, Jaka Book, 1981, p. 40 
 6
comprendere l’idea di corpo che più ci appartiene.  Nella Genesi
10
 sta il 
primo e più importante riferimento alla sacralità del nostro corpo, un 
corpo perfetto perché fatto, per volontà divina, a immagine e 
somiglianza divina, e dunque necessariamente immodificabile. 
“Finalmente Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a norma della nostra 
immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci 
del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su 
tutti i rettili che strisciano sulla terra’” (Genesi, 1-27). Dio classifica 
l’uomo e lo pone al di sopra delle altre creature terrestri per dominarle, 
proprio perché egli è “la rappresentazione più viva di Dio”
11
: il suo 
corpo è l’immagine stessa della divinità. Questo è ciò che Adamo 
avrebbe dovuto apprendere e che invece inevitabilmente ignora quando, 
ormai peccatore, egli lo copre pudicamente.  
“Il simbolo della nudità indica l’essere uomini al livello di base, alla 
radice stessa di questa qualità. L’uomo non peccatore è sereno e si 
accetta come uomo. Dopo il peccato, la veste sarà il tentativo di 
ritrovare la dignità perduta, un tentativo artificioso. Il vestito nella 
Bibbia è, infatti, segno della dignità di una persona”
12
. La nudità del 
Primo Uomo è quindi il simbolo della sua perfezione di fronte allo 
sguardo del Padre ma, con il suo errore, Adamo porta il caos nell’ordine 
imposto, contravviene alla norma morale, imposta dal dio, introduce il 
peccato che sta, appunto, nell’aver generato disordine. “Ecco che 
l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene e il male” 
                                                           
10
Girlanda A., Gironi P., Pasquero F., Ravasi G., Rossano P., Virgulin S. (a cura di), La Bibbia: nuovissima 
versione dai  testi originali, Roma, Ed. San Paolo, 1987 
11
Ibidem, nota 26, p. 10 
12
Ibidem, nota 25, p. 12