5
universali che erano sorte sulla penisola, alla romanità, al cattolicesimo, all’umanesimo e 
al rinascimento, i due grandi movimenti  spirituali e culturali da cui aveva avuto origine la 
coscienza dell’uomo moderno (...) il ritorno della nazione italiana alla modernità con la 
nascita dello Stato unitario, era (...) un riappropriarsi del patrimonio originario del genio 
italiano moderno, dopo che esso era stato assimilato e sviluppato da altre nazioni europee. 
Insomma, il risorgimento dell’Italia, dopo secoli di letargo, era il ritorno alla modernità e 
alla grandezza della nazione, che era stata la grande madre della moderna civiltà 
europea”
2
. Anche in arte l’idealità propria della “grandeur” professata dall’opera dei 
grandi mentori rinascimentali, tornava a rinnovare in Italia visioni di una complessiva 
rigenerazione delle arti e delle lettere. A questo processo di “secondo risorgimento” 
culturale contribuirono per vie e per modalità diverse quegli stessi “amateurs” 
anglosassoni inclini a recepire il modello italiano nella sua accezione di sacrario dell’arte 
suprema che da Dante a Piero della Francesca, da Leonardo a Michelangelo, da Perugino a 
Raffaello veniva a configurare la compagine unitaria di un’entità culturale che ai loro 
occhi sarebbe sempre valsa quale “topos” meta-temporale della perfezione, civiltà e 
moralità dell’agire artistico. Il risveglio dell’interesse per quell’era di superiori concezioni 
ficiniane e neoplatoniche datava nella letteratura inglese al 1795, anno della pubblicazione 
della “Vita di Lorenzo de Medici” di William Roscoe, ad inaugurare quello che per la 
cultura d’oltremanica sarebbe stato un secolo di edizioni, traduzioni di originali italiani, 
mostre e dibattiti critici condotti intorno al concetto medesimo di Renaissance che 
Michelet coniava nell’introduzione alla sua elefantiaca “Histoire de France”, teorizzato 
nel 1873 dagli “Studies in the History of the Renaissance” di Walter Pater, ripreso ed 
ampliato nel 1895 dal libro di Vernon Lee “Renaissance Fancies and Studies”, e 
                                                 
2
E.Gentile, La Grande Italia, Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Oscar 
Mondadori, Milano 1997 pag.44              
  6
dall’intrigante capitolo “The preraphaelism in Italy” pubblicato nel 1898 nella “History of 
modern Italian Art” da Willard Hashton Rollins. Per una sorta di riflesso condizionato 
favorito dai parallelismi storici istituibili tra le due culture pure così distanti (è 
significativo che Swinburne conosca Mazzini nel ‘67 a Londra e gli dedichi i canti 
repubblicani di “Songs before Sunrise”), nella penisola, negli anni che vedono la 
risurrezione dell’idea di nazione, nuovi spettri femminei cominciano ad aggirarsi tra gli ex 
libris, le illustrazioni e le tele di alcuni giovani cultori di una nuova realtà ricostruita 
sull’esempio del medioevo perduto della propria anima estetica, dove il “vero” per 
esplicarsi artisticamente viene chiamato a farsi “ideale” se non addirittura “spirituale”. 
L’Italia alla quale sempre fecero ritorno dalle incursioni su suolo inglese quel Giovanni 
Costa di sangue etrusco, inviso ai pittori filo-ispanici che a Roma si raccoglievano intorno 
all’ oracolo della pittura “da pennellate” Mariano Fortuny, dimesso cantore delle amenità 
forastiche di una “Ninfa del Bosco”, fantasma carnale di un ‘idea pensata dal sentimento; 
gli etruschi di elezione come gli inglesi George Mason e Charles Coleman, l’americano 
Elihu Vedder, newyorkese che (come avverrà per il suo connazionale Lovecraft), evoca il 
sogno/incubo di un’antica Roma esoterica; dell’inglese George Howard, ligio emule degli 
allievi di leonardesca memoria; Matthew Corbett, George Leighton, poderoso evocatore di 
raffinate morfologìe neoclassiche; Charles Fairfax Murray, stacanovista della tecnica 
trecentesca; Maria e Lisa Spartali Stillman, due languide sirene del pennello. Tutti a vario 
titolo legati a filo doppio alla trama europea intessuta dal vagheggiamento di un fare 
artistico tanto purificato dai vizi accademici quanto anacronistico nei suoi esiti estremi. 
Questa è anche I’Italia incensata, durante l’era degli autoritarismi liberali d’ispirazione 
inglese, dall’eburneo metro parnassiano del giovane d’Annunzio che si fa cesellatore di 
preziose larve come quelle delle “Due beatrici”, la “Isaotta dalla bianca mano”
3
 e la 
                                                 
3
 G. d'Annunzio, Due Beatrici, in L'Isotteo e la Chimera, Oscar Mondadori, Milano 1995 pag.70 
  7
“gelida virgo preraffaellita”
4
 o la “Gorgon dal sorriso fulgidissimo e crudele”
5
 discendente 
delle donne avernali del Keats e di Rossetti e la “Melusina” che “le braccia vede coprirsi 
di pallida squama /le braccia che fiorìan sì dolcemente”
6
, incarnata dal tetro erotismo 
decorativo dell’illustrazione di Cellini pubblicata nel 1886 per l’editio picta dell’“Isaotta”. 
Illustratore del poema dannunziano con l’apparizione di Beatrice allo scrittoio di Dante è 
anche il Sartorio che, ancora nel 1922, nelle sue platoniche “Conversazioni d’arte”, torna 
a ribadire come Rossetti, “disegnatore scorretto, affettato, coloritore penoso ed esasperato” 
sognasse l’Italia attraverso la fantasia di Dante e fosse l’unico in grado di generare in sè 
una crisalide nella concezione della femminilità sulle orme leonardesche dei disegni di 
Windsor Castle, accomunato al suo predecessore dall’appartenenza ad “un mondo proprio, 
interiore” che li distingueva dagli autentici ritrattisti, anime meno solitarie, partecipi “della 
vita rappresentativa come ad uno spettacolo necessario”
7
. Uno spettacolo pagano allestito 
dentro il tempio bizantino dell’arte romana di fine ottocento si ripromettevano invece, 
quanti si venivano scoprendo irretiti dall’edonismo formale propugnato dal giovane vate 
reduce dall’esperienza cicognina (la mitopoietica del paesaggio toscano familiare al Costa 
fusa alla materia ctonia dell’Abruzzo primevo), asceso agli onori delle cronache mondane 
ed artistiche sulle pagine del “Fanfulla”, della “Cronaca Bizantina” e de “Il Convito”. 
Vivificato dall’estro sprovincializzante e misticheggiante dei poeti e degli intellettuali 
romani dell’epoca come Adolfo de Bosis, Angelo Conti, Diego Angeli, lo scenario romano 
degli anni ‘80-‘90 offriva a d’Annunzio l’occasione di assurgere, più che al ruolo di vero e 
proprio critico d’arte, a quello di eclettico “arbiter elegantiarum” di quel nuovo alambicco 
di arti e politica nel quale la Roma dei trasformismi depretini andava tramutandosi, come 
                                                 
4
 G. d'Annunzio, 1995 pag.72 
5
 G. d'Annunzio, Gorgon, 1995 pag.75 
6
 G. d'annunzio, Melusina, 1995 pag.146 
7
 G. A.Sartorio, Flores et humus, Conversazioni d'arte, Città di Castello 1922 pag.152-153 
  8
cinque secoli prima richiamando da varie parti d’Italia nuove e vivaci maestranze di 
personalità pronte a metabolizzare e diffondere i semi di una seconda renaissance. 
Rinascita che lo scultore Ximenes celebrava in nome di Botticelli, incorporandone la 
carica idealista entro il recupero della tradizione verrocchiesca, complice delle effusioni e 
dei parossismi nei quali Gabriele/Sperelli si produceva tra sale stipate di sublimi coacervi 
quattrocenteschi, favoleggiando l’avvento dell’era del sogno “poichè la scienza è incapace 
di ripopolare il disertato cielo. Dateci il sogno. Riposo non avremo se non nelle ombre 
dell’ignoto”
8
. Un “trait d’union”, quello dell‘“eterno femminino” proposto in apertura, che 
certo non dev’essere equivocato quale semplice pretesto ai fini della designazione di una 
delle isotopie iconologiche più organiche alla “fenomenologia preraffaellita” (perché di 
quest’ultima in sostanza occorrerà occuparci, non di scuole o movimenti o decaloghi 
estetici). D’altra parte furono gli stessi fondatori della prima “confraternita” londinese nel 
1848 a porsi la questione di una “deontologia” creativa che, paradossalmente, non dovesse 
tener conto di dogmi bensì di un libera ridefinizione del gusto: auspicio considerato valida 
scappatoia dall’algida assiomatica dei Nazareni che, circa trent’anni prima proprio 
dall’Italia, avevano invece scelto di procedere alla passiva riesumazione delle maniere 
raffaellesche e fiamminghe nell’intento di dare vita ad un’arte sintonizzata con il clima 
contemporaneo, nonché rispondente al superficiale risveglio di una vocazione per la 
religiosità affidata all’atto creativo che sembrava spirare dalle ceneri del neoclassicismo. 
Ma i tedeschi Cornelius, Pforr, Veit, Overbeck, Schadow, rientravano loro malgrado 
ancora nel novero di quei prosecutori del romanticismo filosofico-letterario attecchito in 
Germania alla fine del settecento intorno al circolo winckelmaniano e goethiano, e che 
sotto il dominio napoleonico aveva scoperto il nervo della rivendicazione nazionale, dai 
nazareni per prima identificato nel primitivismo dell’arte tedesca ed italiana antecedente al 
                                                 
8
 G. d'Annunzio, La morale di Emile Zola, “La Tribuna”,1893 
  9
cinquecento. Fu però indipendentemente dagli artisti provenienti dall’accademia di 
S.Luca, fondata da Overbeck a Vienna nel 1809, che in Italia gli indirizzi neoclassici e 
rinascimentali poterono sussistere, grazie anche all’opera di pittori come Camuccini e 
Benvenuti, nel rispetto di una tradizione tecnica rinverdita piuttosto dalla rilettura 
“distaccata” del cinquecentismo che negli stessi anni Ingres esprimeva attraverso la 
salvaguardia dell’onestà del disegno. Eppure Overbeck figurava tra coloro che nel 1842 
firmavano il pretenzioso “Manifesto del Purismo” insieme a quel Francesco Hayez che se 
ne faceva garante in virtù della sua ammirazione per il “grande purista” Ingres, 
indebitamente assunto a nume tutelare tanto dei nazareni che dei puristi come Minardi, 
Tenerani, Mussini (i “puristelli” come li definiva Camuccini), liddove invece del tutto 
assente risultava essere l’impronta personale che il francese aveva saputo infondere nel 
suo “raffaellismo”.e nei suoi ritorni alle sintassi neogotiche. E se da un lato non si può 
certo sostenere che Rossetti e i primi condivisori della sua idea non risentissero dei 
modelli comportamentali della vita ascetica e comunitaria del gruppo tedesco (senza 
comunque arrivare a vestirsi e pettinarsi alla “nazarena”), della loro passione per il 
soggetto religioso e del lenticolarismo fiammingo (in questo senso Madox Brown e Dyce 
in visita in Italia tra il ’45 e il ’46 furono i più contagiati dal nazarenismo), dall’altro è 
altrettanto innegabile quanto distante fosse dalle loro intenzioni eminentemente “puriste” e 
formaliste il desiderio dei rossettiani di rivivere (non replicare) nella “forma mentis” della 
sensibilità moderna il rapporto con la verità naturale sperimentato dai primitivi. Come 
infatti ricorda Holman Hunt, i giovani ribelli inglesi concordarono sull’appellativo di 
seguaci dell’arte antecedente alla corruzione del “vero” individuata nella pittura pre-
raffaellita, preferendolo a qualsiasi riferimento a quell’“Arte Cristiana” già 
massicciamente plagiata dalla pittura “esangue e smorta” dei tedeschi, rifiutando quella 
iniziale definizione di “Early Christian Style”. suggerita dalla pittura filonazarena di 
  10
Madox Brown. Così nel settembre del 1848 al n.83 di Gower Street i sette confratelli (tutti 
ex-studenti della Royal Academy tranne il fratello di Rossetti) Dante Gabriele e William 
Rossetti, Holman Hunt, John Everett Millais, Thomas Woolner e James Collinson, 
ventenni imbevuti della poesia miniata di William Blake, del fascino delle incisioni per il 
Campo Santo di Pisa realizzate dal Lasinio, dei manuali dell’incisore secentesco Nicholas 
Hilliard e l’opera dei fratelli olandesi Van Eyck, si professavano in prima istanza ostili alla 
deroga dall’aderenza alla natura che, dal manierismo all’arte accademica e 
tardobaroccheggiante di primo ottocento, aveva finito con l’affermarsi come conseguenza 
della priorità ascritta alla “bellezza” a detrimento dei valori di autenticità della primitiva 
sensibilità naturalistica. Il filosofo Georg Simmel nel saggio del 1916 “Il cambiamento 
delle forme culturali” avrebbe definito il naturalismo artistico diffuso verso la fine 
dell’800 quale “segnale del fatto che le forme artistiche diffuse fin dalla classicità non 
potevano più racchiudere in sè la vita che tende a manifestarsi”
9
 e vi avrebbe indicato 
l’ennesimo tentativo d’inclusione della vita (continuamente mutevole, fluida) 
nell’immagine immediata dalla realtà, non contaminata da nessuna intenzione umana. La 
tragica dicotomia che sta alla base dell’arte, tra essenza creatrice e le forme nelle quali 
essa viene a cristallizzarsi e quindi ad annullarsi in altro da sè, nell’esperienza 
preraffaellita, prima ancora del simbolismo e dell’espressionismo, si tingeva di un 
estremo, neoplatonico rimpianto per quell’unità di vita ed espressione anteriore a tutti i 
conflitti dell’essere (un tema sviluppato in seguito da Nietzsche e Wagner), tanto nella 
storia che nella cultura. E la complessità di questo momento artistico meglio si comprende 
tenendo conto di come tale presa di posizione a favore del naturalismo di stampo primitivo 
non venisse mai ridotta a scarna direttiva programmatica, se è vero com’è vero che l’unico 
                                                 
9
 R. Garaventa, A. Terlingo, a cura di, G. Simmel, Il cambiamento delle forme culturali, 1916 citato in 
Nichilismo e modernità, Piccola Biblioteca Troilo, Bomba 2001 
  11
a conservare l’iniziale assetto stilistico arcaico e a tutelarne i risvolti mistici ad esso sottesi 
(con esiti tuttavia contraddittori dagli anni ‘60 in poi nell’oscillazione tra stilismi 
tizianeschi ed epifanìe erotico-letterarie michelangiolesche stimolate dal cloralio) resterà il 
solo Rossetti mentre, dal canto loro, Holman Hunt e Millais si riveleranno acclini ad 
un’arte di più flessibile accezione naturalistica nell’allontanamento dal primo 
“romanticismo interiore”, interessata più all’aspetto tecnico e formale che ai suoi contenuti 
(sconfinante negli anni ‘60 specie per Millais nel più commerciabile accademismo 
vittoriano). Era in questa originaria rivendicazione di uno spirito libero dai gineprai 
dell’arte ufficiale (quell’arte scevra di mordente morale e votata alla pittura “sporca “ o 
“sloshy “ fangosa) chiamata a visualizzare luoghi letterari ed evenemenziali estrapolati dai 
testi biblici ed evangelici, ma anche da Omero, Dante, Chaucer, Shakespeare, Browning, 
Poe, poeti definiti forieri di significati universali, che grande rilevanza veniva ad assumere 
la polemica lanciata contro il fenomeno dell’industrializzazione forsennata che alla metà 
del secolo laureava l’Inghilterra prima potenza industriale e finanziaria europea, rea di 
aver introdotto quella triviale considerazione seriale del prodotto artistico propria 
dell’ethos borghese, arrivando ad azzerarne l’intrinseca moralità e la valenza di medium 
espressivo legato al concetto di unicum estetico. Così negli scritti degli anni ‘50 il 
“padrino” John Ruskin, riscopritore del vero gotico antico di Amiens e Venezia, 
commenta la portata dirompente della “devianza” artistica incarnata dai preraffaelliti: 
“Questo scisma, o piuttosto l’eresia che condusse ad esso, come probabilmente sapete, 
venne introdotto da pochi uomini molto giovani; consiste soprattutto nell’asserzione che i 
criteri, in base ai quali l’arte è stata insegnata in questi ultimi tre secoli, sono 
essenzialmente sbagliati; i principi che dovrebbero guidarci invece, sono quelli che 
prevalsero prima dell’epoca di Raffaello. Adottandoli, quei giovani, in una sorta di legame 
tra di loro, presero l’infelice e alquanto comico nome di Preraffaelliti. Dovete anche sapere 
  12
che ci si è opposti a questa eresia con tutto il peso dell’arte e la severità della critica ma, a 
dispetto di queste, l’eresia ha guadagnato terreno ed i quadri dipinti in base questi nuovi 
principi, hanno ottenuto una popolarità vastissima”
10
. E’ altresì ben noto come l’anima 
preraffaellita sia stata in sè stessa combattuta tra moralistica ripulsa e attrazione 
sperimentale nei riguardi delle nuove risorse tecniche concesse all’artista, sopra tutte la 
fotografia, sfruttata parossisticamente da Rossetti e Holman Hunt ed affiancata alla 
rivalutazione di tecniche antiche come l’incisione e la pittura ad affresco su tela bianca, 
nonchè verso il complessivo miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle 
offerte dalle botteghe nelle quali operarono i maestri antichi tanto ammirati. La dialettica 
interna alla confraternita, la cui prima formazione è destinata a sfaldarsi nel giro di soli 
quattro anni (“The Germ” chiude i battenti nel ‘51, Millais viene eletto nel ‘53 membro 
della Royal Academy, anche se per alcuni il preraffaellismo termina solo nel ‘57 con le 
decorazioni dell’ Union Debating Hall a Oxford), sopravvive e contrassegna anche il 
capitolo successivo della vicenda preraffaellita negli anni della seconda generazione, 
“capitanata” dalle due distinte vocazioni degli allievi del poeta-pittore italiano, Edward 
Burne-Jones e William Morris, malgrado l’isolamento nel quale Rossetti inizia a 
sprofondare dopo la morte della moglie Elizabeth Siddal dagli anni ‘60 fino alla morte, 
sempre più alienato dal mondo circostante e sordo agli utopistici livori coi quali Ruskin 
riconvertiva in arte il pensiero saint-simonista per fare dell’attività estetica norma di 
miglioramento della vita sociale. Sebbene proseliti di Rossetti, entrambi si rivelano fervidi 
esploratori del paese mitizzato ed estensori dei modelli agli artisti post-raffaelleschi come 
Tiziano e Michelangelo, ma se per Burne-Jones la regressione al medioevo e alle effusioni 
plastiche del rinascimento decreta un moto senza ritorno dalla realtà caotica e sempre 
                                                 
10
 J. Ruskin, Pre-raphaelitism. Lectures on Architecture and Painting 1851-1859, Ed. J.M. Dent & Co. 
Londra 1906 citato in M. Durbè, L'Arte Moderna, Il Post-Impressionismo, Fabbri Editore, Milano 1967 
pag.114  
  13
meno poetica della Londra di fine ‘800 ai languori fantastici di un universo trans-corporeo 
ed esotizzante, in William Morris quell’anfibologia d’intenzioni di cui si diceva si riscatta 
nell’interazione col presente sulla strada del marxismo riletto attraverso le illuminazioni 
ruskiniane e il neomedievalismo che lo conducono alla fruttuosa epopea delle arti 
applicate, tanto nel campo dell’architettura che del design e dell’editoria. Ed è proprio 
intorno agli anni dell’“Hogarth Club” frequentato da Burne-Jones dal ‘58 e della “Firm” 
che Morris dà a battesimo nel ‘61 che è dato d’avvertire i primi palesi effetti della 
penetrazione in Italia degli ideali antichizzanti del preraffaellismo che, mescolandosi alle 
vertenze liberali e di rivalsa irredentista delle guerre d’indipendenza, giunge a contrastare 
il nascente verismo di maniera ad opera della cerchia costiana che si viene costituendo tra 
Roma e Firenze a partire dagli anni ‘50 intorno a George Mason, Elihu Vedder, Leighton e 
il pittore romano di solida fama garibaldina. A cominciare dal sesto senso di Vedder che, 
con largo anticipo rispetto al simbolismo e al surrealismo, lavorando a Firenze nel ’60 
sotto l’influenza degli inglesi Simeon Solomon e Mrs.Hay, meglio e ancor prima degli 
“Etruschi” arriva a subodorare il “perturbante freudiano” nascosto nell’enigma 
anacronistico dei confratelli, per poi spanderne l’ombra decadente sugli artisti italiani 
dell’“Isaotta” negli anni ‘80, tutto il portato di onirismo, arcaismo, spiritualismo, 
riferimenti esoterici va propagandosi per contagi contigui nel tempo e nello spazio 
irrorando l’Europa del take-off industriale e spingendosi talvolta oltre l’atlantico (si pensi 
al caso del testo visionario del poeta persiano Khayyam ammirato da Rossetti, tradotto in 
Inghilterra e poi ristampato in America con le illustrazioni di Vedder ispirato dal suo 
soggiorno romano) sorta di filigrana fantasmatica in cui la società positivista esprime la 
sua controparte ancestrale. E’ questa dopotutto l’età in cui l’ Es, la dimensione oscura 
della psiche sondata alla fine del settecento dalle opere della Radcliffe, Walpole e Lewis, 
poi affacciatosi alla ribalta nei primi del secolo dalle tele di Fussli e Goya, dai notturni di 
  14
Novalis ed Hoffmann, riacquista voce nell’opera letteraria di un Oscar Wilde autore di 
“Salomè” ed “Il ritratto di Dorian Gray” e nell‘erotismo satanico dell’Algernon 
Swinburne della trilogia di Maria Stuarda (1865-1881), ripristinandosi nell’ansia per una 
bellezza eterna concessa alla sola arte; nel d’Annunzio degli anni ‘80 recupera i lineamenti 
della “Bella sottratta al Cavaliere della Morte che va contro maghi e draghi a la 
battaglia”
11
 nelle opere dell’“Isaotta Guttadauro”, “Il Piacere” ed “Il Poema 
Paradisiaco”; in Iginio Tarchetti, Arrigo Boito e la scapigliatura lombarda rivive 
attraverso le più torbide e morbose incarnazioni della sensualità e del senso dell’ignoto ; 
per Giovanni Costa si risveglia nel respiro ieratico mutuato da un panismo spirituale di 
radice romantico-sturmeriana; in Angelo Conti, autore di “Giorgione” e la “Beata riva”, 
accende le virtù ascendenti dello spirito preservato nella purezza di una tensione creativa 
confluente nel mistero musicale. “La morfologia preraffaellita si riassume nella gravità 
tiepida, debole delle “catenarie” depressive della biancherìa, modellata, sotto il più 
terrificante, stretto e rigoglioso abbigliamento, sulle curve geodetiche dei corpi scultorei, 
delle carni turgide, inquietanti, imperialiste”. Le “geometrìe sanguinarìe” e le “profondità 
viscerali dell’anima estetica”
12
 diagnosticate da Dalì negli anni ‘30 del ventesimo secolo, 
non sembrano discostarsi di molto dall’interpretazione che sul finire dell’800 i più scoperti 
recettori dell’afflato preraffaellita in Italia seppero offrire nella prassi artistica, subendo in 
quel periodo l’effetto dell’ aggiornata poetica diffusa dall’“Aesthetic Movement” elaborata 
negli anni ‘70 dagli amici di Rossetti, Walter Pater e Algernon Swinburne, reincarnazione 
imborghesita della prima confraternita, sacerdozio artistico che veniva a depurare 
l’originaria idea preraffaellita da qualsiasi velleità politico-sociale per decantarne il mero 
artificio esteriore nel culto del linearismo botticelliano e del decorativismo floreale. Tra 
                                                 
11
 G. d'Annunzio, Il cavaliere della morte, in L'Isotteo e la Chimera, 1996 pag. 163        
12
 S.Dalì, 1980 pag.290 
  15
questi il romano Giulio Aristide Sartorio e il bolognese Adolfo de Carolis, svezzati proprio 
dalla bibbia etrusca del Costa negli ultimi lustri del secolo militando nella sua filo-inglese 
“In Arte Libertas” (società di natura elettiva come le era stata la confraternita inglese), 
figurano nella storia italiana come gli artisti maggiormente implicati nella definizione 
della temperie dannunziano-anglosassone (ruolo che al De Carolis, sorta di alter-ego 
figurativo del vate, negli ultimi anni della sua carriera varrà però l’ostracismo della critica) 
e che sopra tutti dimostrano di assecondare il culto della formula “classico-rinascimentale” 
di ascendente burne-jonesiano, nonchè la predilezione per quei grafismi michelangioleschi 
travasati dalla membrana favolistica dell’autore del ciclo di Perseo e dei mosaici neo-
bizantini per S.Paolo dentro le mura a Roma. E’ per merito del contributo estetico fornito 
da Sartorio e De Carolis che l’internazionalismo costiano promosso attraverso le vicende 
associative del “Golden Club” (1875-6), del “Circolo artistico degli italiani” (1879), della 
“Scuola Etrusca” (dal 1884) e della “In Arte Libertas” (1886-1902) esauriva i tempi 
d’incubazione della sua seconda fase, quella di “arte nazionale” incaricata di rappresentare 
di fronte al mondo la ritrovata unità e potenza economico-sociale dell’Italia in forza della 
magniloquenza neocinquecentista profusa nell’architettura, nell’arredo e nella pittura 
celebrativa. Il monito dell’“eterno vero” che aveva ispirato i primi “etruschi” erranti tra 
l’Agro Pontino e la Black Country si ritrovava così eclissata dal ritorno dell’“eterna 
retorica” che lo scultore Zanelli avrebbe portato all’esasperazione nel fregio del 
Monumento a Vittorio Emanuele II. E non va dimenticato come quell’ambizione 
all’empirismo filtrato dal sentimento, maturata da Costa negli anni ‘50 insieme a George 
Mason, fosse stata in parte sostenuta anche dalle convinzioni teoriche del critico-patron 
preraffaellita. Difatti il pensiero ruskiniano che predicava il motto dell’ “andare verso la 
natura con onestà di cuore” e del “camminare con lei laboriosamente e fiduciosamente”
13
, 
                                                 
13
J.Ruskin, Modern Painters, citato in M. T. Benedetti, I Preraffaelliti, Art Dossier, Giunti, 1999 pag.17 
  16
risuonato nel 1843 con la pubblicazione di “Modern Painters” a salutare la felice prova 
dell’arte di Turner e Constable, e poi ribadito nel 1852 a difesa dei confratelli nella lettera 
al “Times”, perveniva in Italia lungo i canali culturali aperti da Costa all’epoca dei primi 
contatti con i giovani artisti inglesi Leighton e Mason, ed in seguito grazie al “network” 
d’interscambi creativi che cominciò ad attivarsi tra le due nazioni durante i numerosi 
viaggi intrapresi dal romano in Inghilterra tra il 1862 e il ‘96, facendo la spola tra le “due 
etrurie” della evanescente “scuola etrusca”, mappa “sinaptica” di una nuova gilda pittorica 
pseudoquattrocentesca; l’amicizia diretta dell’architetto Giacomo Boni collaboratore 
anche di Philip Webb e William Morris, le frequenti visite di Charles Fairfax Murray, 
William de Morgan e Burne Jones e il viaggio da questi compiuto con lo stesso Ruskin nel 
1862 che lo accompagna nel famoso pellegrinaggio a Venezia, città eletta ad ideale 
architettonico e coloristico dell’esteta inglese (forse non è del tutto casuale che in questa 
città i preraffaelliti vengano ufficialmente presentati al pubblico italiano nell’esposizione 
del 1895), all’interno della sua personale antinomìa con la deprecata Roma 
michelangiolesca che Burne-Jones avrebbe negli anni seguenti rivalutato. Traspare dalle 
soluzioni generative della prima formazione del toscano Galileo Chini giovane artista 
“polutropos”, già dal ‘93 membro in contumacia dell’“In Arte Libertas” costiana, al 
momento di fondare nel 1896 l’“Arte della Ceramica”, esperienza cruciale per l’arte 
decorativa nazionale perseguita lungo quel solco tracciato dall’insegnamento di risonanza 
ormai europea della “Firm” creata da Morris e dell’“Arts and Crafts movement” che da 
essa eredita le parole d’ordine, nella misura in cui il suo insegnamento sollecitava 
l’“impetus” verso il compimento dell’opera d’arte totale sottratta ai vincoli delle gerarchìe 
accademiche. A suo modo Chini non fa che inverare i principi di ritorno all’onestà creativa 
degli artisti di bottega del rinascimento toscano, affinità che si esprime nella sua individua 
ricerca stilistica proiettata nella proteiformità dei codici artistici, senza disdegnare la 
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citazione dai modelli rossettiani come nell’eterea stilizzazione di sapore incisorio di un 
quadro quale “Ritratto della sorella Pia” (1896) e i linearismi calligrafici appresi dal 
Lasinio, Hilliard e Beardsley per la decorazione ceramica. Pure non si comprenderebbe 
appieno in che modo questa rivalutazione dei costumi tecnici ed estetici rinascimentali da 
parte della manifattura chiniana, si muova entro la logica internazionale di una 
“renaissance” delle arti applicate che investe non solo l’Italia ma anche la Germania, la 
Francia e l’Austria sottoforma dei fenomeni dello “Jugendstil”, dell’“Art Deco” e 
“Nouveau”, se non si considerasse come in quegli stessi anni l’inglese William de Morgan 
collabora con la ditta artigiana delle Manifatture Cantagalli inoculando le raffinatezze 
policromatiche della tradizione morrisiana nella produzione di vasellami e piatti dipinti, 
alla ricerca della pietra filosofale del misterioso lustro metallico. Per tradizione secolare 
infatti la Toscana rappresenta l’area artistica più direttamente esposta all’assorbimento 
delle mode anglosassoni esportatevi dai turisti e dai pittori britannici che la eleggono a 
loro buen retiro: non è dunque insolito che qui emergano figure sui generis che vivono al 
limite del “sacro furto” dei modi preraffaelliti, come la personalità enigmatica e 
controversa del discepolo del nazareno Luigi Mussini, il senese Ricciardo Meacci, ascetico 
pittore e acquerellista replicante dei topoi alla Burne-Jones, per tutta la vita ritirato in quei 
luoghi che il “frate”, Murray e de Morgan avevano più volte visitato e studiato, quasi 
come lo stesso Murray impegnato in Italia nella palmare riproduzione di opere preesistenti 
di Cimabue e Giotto per conto di Ruskin.  
Muovendoci a nord di Firenze, oltrepassando le Alpi Apuane fino ad addentrarci tra le 
colline piemontesi, ecco profilarsi gli spettrali incarnati muliebri evocati dallo scultore di 
Casale Monferrato Leonardo Bistolfi, composti in esuberanti teorie di rarefazioni 
anatomiche impregnate del soffio misterico dell’ultimo preraffaellismo, in quella sua 
sterminata monumentaria funebre che si snoda a cavallo dei due secoli, dagli anni anteriori 
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alla prima biennale veneta del 1895, ufficiale riconoscimento italiano tributato agli ultimi 
profeti preraffaelliti Millais, Watts, Leighton e Burne-Jones, fino all’estrema distillazione 
in senso liberty dei diafani vorticismi della materia dagli anni ‘10 al 1936. A suo modo tra 
preconizzazioni dell’arte di Klinger, Toorop, Khnopff ed ingerenze anglosassoni, si 
articola la breve ma significativa parabola di un altro scultore, il campano Giovanni 
Battista Amendola, tra il 1878 e il 1883 frequentatore degli ambienti londinesi ed intimo di 
Alma Tadema e della legacy leightoniana, autore di una prolifica e travagliata saga 
scultorea animata dalla percezione plastica delle idealizzazioni somatiche di Rossetti ed 
Holman Hunt nella ritrattistica ufficiale, come nella testa di “Ada” e il ritratto di Alma 
Tadema, ed eroico Pigmalione italiano di una nuova filo-preraffaellita “Venere Nostra”. 
Da par suo l’amico “scapigliato” di Bistolfi, il trentino Giovanni Segantini, si avvale della 
falsa-riga preraffaellita alla quale si rifanno per itinerari diversi e con diversa accezione 
simbolista anche i colleghi Pellizza Da Volpedo (più legato alla visione morrisiana di 
un’“arte per l’umanità”) e Gaetano Previati (formulatore di un divisionismo suffragato 
dalle intuizioni di Watts e Ruskin), ibridando la costante lirico-erotica con un approccio 
del tutto personale ad una “medievalità” percepita sottoforma di “atmosfera” stilistica che, 
alla ripresa degli impianti a dittico, a trittico, a saghe pseudo-allegoriche di intonazione 
onirico-orientale, fonde la passione costiana e simbolista per i risvolti spirituali di soggetti 
naturalistici vivificati da un personale misticismo che l’isolamento engadinese viene 
amplificando. Anche nel caso di Segantini il prototipo rossettiano in ambito disegnativo 
ricopre una funzione di stimolo per l’attitudine all’esotismo per ciò che attiene 
all‘introduzione degli arabeschi, dei temi letterari religiosi ed orientali, e in genere del 
clima atemporale ed onirizzante dei cicli pittorici.  
Il 4 giugno 1911 il ciclo delle celebrazioni giubilari per il cinquantesimo anniversario 
dell’unità d’Italia si conclude con l’inaugurazione dell’iper-retorico monumento a Vittorio