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INTRODUZIONE 
Fluisco… 
pur restando radicata. 
 
Virginia Woolf 
 
Questo progetto di tesi è nato inizialmente da una domanda, una curiosità forse 
banale: “perché non ci sono state grandi registe donne?” La stessa che dieci anni prima si 
era fatta Linda Nochlin chiedendosi: “perché non ci sono state grandi artiste donne?” 
Forse sono domande che ricorreranno sempre, tanto più che la supremazia maschile in 
determinati campi è ancora evidente. 
Le motivazioni sono indubbiamente di carattere socio-culturale ed era impossibile 
trattarle approfonditamente in questa sede. C’è stata però la fortunata coincidenza 
dell’uscita nelle sale di un film (Me and you and everyone we know, 2005) di una regista 
esordiente, Miranda July, che secondo me ha meritato questa trattazione.  
In generale è chiaro che il cinema è sicuramente un valido strumento per capire il 
mondo in cui viviamo. Per capire la valenza culturale che può avere la macchina 
cinematografica basti pensare all’inquadratura: “il più semplice dei gesti cinematografici 
[…] equivale, niente di meno, a mettere in sospensione il mondo. E al tempo stesso in 
movimento il senso” (Comolli, 2006:203). 
In particolare questo è un film che ha delle implicazioni socio-culturali vastissime le 
quali ho cercato di trattare attraverso determinati riferimenti. Il primo è ovviamente agli 
studi etno-antropologici nell’ambito del visuale. Le origini – passaggio obbligatorio per 
poter comprendere a fondo questa strana cosa che è il cinema, la quale sembra essere tutto, 
tutto insieme: magia, industria, arte, espressione, mostro, macchina… - sono strettamente 
connesse al contributo documentaristico dei primi pionieri del settore, da Robert Flaherty, 
a Dziga Vertov, a Jean Rouch; sottolineando successivamente i fondamentali cambiamenti 
registrati grazie all’avvento delle nuove tecnologie digitali, che molto spazio avranno 
anche all’interno del film specifico. Soprattutto queste riveleranno a livello strutturale 
quelle nuove caratteristiche di moltiplicazione, fluidità e leggerezza, che, in quanto 
inserite nel post-moderno, ho ritrovato in diversi ambiti: già nel titolo parlo di frammenti,
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perché tutto sembra frammentato, a partire dallo schermo cinematografico o di un 
computer, dal mondo che riproducono, dalle tecnologie a loro sottese – è proprio “la legge 
dell’opera il trasformare le sue componenti in frammenti di se stessa” (2006:85) - fino a 
quello che può essere oggi il percorso individuale di ricerca identitaria; ancora, 
frammentaria è la comunicazione che non sempre sembra essere così impeccabile e diretta 
come sostenevano le prime teorie, come quella ipodermica o quella del modello di 
Lasswell; frammentato e multiplo è il genere. Il secondo riferimento. 
Vengono indagate per quanto superficialmente, le nuove concezioni culturali circa 
il genere, guardando in particolare alla nuova svolta post-femminista che non ha più 
quelle implicazioni in parte rivendicative del femminismo degli anni ’60 e ‘70. Grazie 
all’apporto teorico degli studi sul genere - da Teresa De Lauretis, a Donna Haraway, a 
Rosi Braidotti - vengono progressivamente smontate le distinzioni binarie e dicotomiche 
di tipo maschile/femminile non costruttive e di fatto riduttive, in quanto, la conseguenza 
ovvia delle distinzioni è ritagliare gli spazi; per giungere invece a una serie di figurazioni 
fluide e multiple, frutto di processi, che meglio sanno rendere le nuove implicazioni del 
post-moderno. Quest’ultimo, come già accennato, è la cornice di riferimento culturale 
dell’intero lavoro, anch’esso nozione fluida che sa riferirsi a ogni ambito culturale che va 
dall’arte alla vita quotidiana. Il concetto di liquidità è mutuato da Zygmunt Bauman e 
viene rapportato alla direzionalità di Sigmunt Freud, baluardo della modernità, per 
descriverne il cambiamento accorso. 
Questo cinema che “non ama né la pace né l’indifferenza” (Comolli, 2006:24) oscilla 
dunque da un genere all’altro, tesse nella stessa trama il filo del documentario e quello 
della finzione, sfugge la referenzialità, smarrisce i saperi… e questi sono tutti modi per 
prolungare il gioco. Il gioco, un’altra figurazione che rende bene questo affaccendarsi 
continuo dell’essere umano con la casualità in un mondo sempre più ibrido.  
È un tempo questo di ambiguità, cambi di ruolo, metamorfosi, smarrimenti, tutto 
ciò che insomma il cinema ci insegna. È tempo di cinema dunque, ma è anche tempo di 
gioco identitario, sociale, culturale, di ricerca del sé e di una posizione che sia la più stabile 
possibile. Un gioco che spesso si gioca paradossalmente in solitudine. Cambi, giochi di 
ruolo che non hanno allora senso se abbandonati a se stessi. Eppure tutta la 
contemporaneità è costruita sui paradossi e il cinema aiuta a rifletterli perché su simili 
paradossi strutturali e di rappresentazione esso si basa.
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La strada tutta dritta verso la meta del pellegrino si è sostituita con il tavolo 
immaginario della partita che può essere vinta e può essere persa, continuamente. In 
pellegrinaggio si va una volta nella vita, i giochi invece si esplicano ogni giorno. È questa 
l’incertezza data dall’assenza di direzionalità. 
E questo particolare nomadismo caratterizza anche il cinema e infatti, ciò che 
Comolli definisce un “gioco erratico, ma ben reale” (2006:73) è il rapporto tra i corpi e le 
macchine e dunque la relazione cinematografica. E sembra proprio suggerire quell’ibrido 
tra il giocatore e il nomade post-moderni. La relazione dell’essere umano con le proprie 
istanze di vita. 
Comolli tra l’altro definisce nomade proprio il documentario che “non avendo casa 
in nessun luogo, è di casa dappertutto” (2006:75). Nel caso del documentario è “il mondo 
[che] pressa ed è solo strofinandovisi addosso che si fabbrica questo cinema” (2006:76) 
mentre è l’altro cinema, quello di finzione, quello che pressa il mondo: non ha pretese di 
rappresentarlo, ma di farlo suo per qualche ora. 
Ciò che si vuole sostenere con questo lavoro è che il cinema femminile non è un 
cinema di genere e non è un cinema di nicchia.  Se il genere nel peggiore dei casi è ormai 
una categoria svuotata e nel migliore è multipla, non abbiamo più bisogno di affidarci ad 
esso per definirci o definire un film esclusivamente secondo questo parametro. La 
posizione da ricercare è eccedente, eccentrica, nomade e cyborg. E questo film eccede, 
eccede in tutto, eccede qualsiasi piatta categoria. È il processo ciò che deve interessarci e 
dunque il posizionarci sempre sull’onda del movimento. 
Dunque il film di una regista è auto-evidente tanto quanto quello di un regista. 
Dunque non ha senso parlare di cinema di genere, la nicchia si (auto)creerebbe 
inevitabilmente.  
Le mie domande prima dello studio di questa trattazione erano dunque 
ingenuamente di quel tipo: “perché questo film sembra piacere enormemente di più a un 
pubblico femminile?” Perché quando ho cercato di capire facendo domande ai ragazzi le 
risposte erano tutte del tipo: “non mi è piaciuto perché le donne sono sempre morbose” 
oppure “perché le donne non hanno senso dell’umorismo”? 
L’impostazione che volevo era molto difficile da sondare e anche molto rischiosa: 
da una parte potevo ricadere nel più banale femminismo, dall’altra rischiavo di 
allontanarmi dall’oggetto di analisi, dal film. E in generale, sia da una parte che dall’altra,
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rischiavo di banalizzarmi orrendamente. Allora ho pensato che l’unica cosa che possiamo 
domandarci è: è presumibile ipotizzare una sensibilità e una peculiarità comunicativa? 
Ma la risposta che ho trovato non si riferisce solo alla donna. In una logica molto 
semplice: una personalità è tanto più ricca se accoglie in sé e accetta di sé molti dettagli, 
sfaccettature, risvolti. E il fatto che oggi come oggi siamo tutti sottoposti a questa modernità 
liquida, che prevede incertezze, cambi repentini di rotta, disfunzioni e leggerezze, ecco che 
ci siamo incontrati tutti sulle frequenze più femminili della vita: la fluidità, la leggerezza, 
la ciclicità. Il maschile e il femminile, la mascolinità e il femminino che si incontrano. Non 
è il rendersi “unisex” nell’interpretazione di Pascal Bruckner, l’appiattirsi su una linea 
comune. È arricchirsi. Anche, o in particolar modo, nello svolgersi della propria arte. 
Soprattutto se con “ricco” intendiamo quello che intende Ralph in “Ritratto di 
signora”, film di Jane Campion del 1996. 
 
Ricco è chi può soddisfare gli impulsi della propria immaginazione.
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1. Antropologia del cinema di genere 
 
Un giorno il regista… chiamerà a sé tutte le arti, 
le magnificherà, costruirà la loro sintesi, 
che getterà animata, vivente, all’umanità. 
…Il cinema totale sarà il mezzo di espressione del genio. 
 
Nicholas Negroponte, 
Essere digitali 
 
Il cinema è “la passione della figura umana. Arte figurativa per eccellenza, arte 
della messa in gioco (in crisi) del soggettivo da parte del meccanico, il cinema non si 
rivolge a noi nella sua sola dimensione antropologica” (Comolli, 2006:6). Il cinema ha 
anche “una posizione politica [che è] la relazione tra l’isolamento e l’implicazione” 
(2006:7). D’altronde le sue implicazione vanno dalla vita all’arte. In comune con la pittura 
per esempio ripropone “l’antico esercizio […] di interpretare le immagini, di scoprire i 
significati nascosti sotto le evidenze del visivo” (Costa, 2002:7). Sarà pur vero, ma con 
Flaherty e Rouch è chiaro che la questione cinematografica non è più quella del quadro, 
ma semmai quella del corpo. “È la relazione del filmare. Da una parte e dall’altra della 
macchina c’è corpo” (Comolli, 2006:141). Inoltre, se l’arte ha sempre avuto la tendenza alla 
separazione, è proprio lo spettacolo che invece tende a riunire -  e non a caso con esso 
nacque la nozione collettiva di pubblico. 
Le sue origini vengono spesso fatte risalire alla pittura e in particolare alla 
prospettiva. In realtà le sue implicazioni più forti sono con quei dispositivi ottici che non a 
caso vengono definiti sotto la stessa etichetta di pre-cinema. Un esempio sono i Panorami e i 
Diorami ottocenteschi di Da guerre, “espressioni d’una esigenza di nuovi modelli 
d’esperienza visiva a partire dai quali prenderanno forma nuovi linguaggi” (Costa, 2002: 
148). 
Oggi si parla invece di post-cinema grazie al processo di informatizzazione 
cinematografica che dal 1994 sta sovvertendo i vecchi dualismi produttivi del prima e del 
dopo tipici del cinema classico. Le nuove tecnologie fondamentalmente si basano sul
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concetto dell’ibridazione la cui icona è il blue screen, tecnica che consente di riportare in un 
unico fotogramma immagini riprese in momenti diversi. Già il digitale da solo rende 
dunque il cinema più leggero e più agile dimezzando i tempi realizzativi e allontanando 
inesorabilmente il cinema dalla pesante nozione di apparato industriale. 
 
Antropologia e cinema 
 
Gli inizi non sono solamente confusi, 
sono ideologici, fantasmatici. 
Il cinema è stato sognato prima di essere inventato, 
la parte del sogno non si è mai ridotta. 
 
Jean Louis Comolli, 
Vedere e potere 
 
Immaginazione e possibilità 
 
L’antropologia visuale nasce intorno alla metà dell’’800 in seguito alla nascita della 
fotografia, la quale riuscì a regalare la possibilità di fissare il movimento e quindi di 
analizzarlo in maniera più approfondita e sistematica. La collezione fotografica etno-
antropologica più antica risale a quel periodo ed è legata al nome del naturalista inglese 
Charles Darwin, il quale aveva condotto uno studio sulle espressioni delle emozioni 
(L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, 1872). 
Muovendosi dalle prime pratiche fotografiche, successivamente si rende al 
contrario tangibile, con l’avvento del cinematografo dei fratelli Louis e Auguste Lumière 
verso la fine dello stesso secolo, la possibilità di rappresentare il movimento in favore di 
un’analisi sempre più ricca e verosimile. Da qui nasce il cinema che noi conosciamo – per 
molti, l’unico che esiste - e cioè il cinema-spettacolo, di intrattenimento, nato muovendo i 
passi da un primo tipo di cinema: il documentario, la semplice riproduzione della realtà. Ma 
agli inizi del XX secolo risultava sconvolgente. Si pensi solamente a uno dei loro primi film 
a pagamento: in L'arrivée d'un train en gare de la Ciotat (1985) l’effetto di quella locomotiva 
era dirompente, sembrava lacerare lo schermo bianco e travolgere la platea.
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La neonata antropologia visuale non si fa sfuggire questa incredibile possibilità 
facendo da quel momento del documentario realizzato attraverso il mezzo 
cinematografico il suo fondamentale strumento. Il fisiologo francese Félix Regnault, 
antesignano delle prime applicazioni della cinematografia in ambito etnografico, agli inizi 
del secolo dichiarava che solo il cinema forniva validi documenti oggettivi “più studiabili 
delle stesse azioni che essi rappresentano” (cit. in Chiozzi, 1993:38) poiché, scomponibili 
come sono in tante immagini, sono più facilmente analizzabili. Il legame tra antropologia e 
cinema è oggi talmente stretto che l’antropologo visuale Jay Ruby ritiene che per poter 
elaborare un buon “lessico antropologico-visuale […] è necessario tradurre le teorie 
antropologiche della cultura in teorie del cinema” (p. 75). Una necessaria trasformazione 
della disciplina che la conduca a diventare antropologia della comunicazione visuale dato il 
continuo intrecciarsi tra la cultura, la comunicazione e l’ambito visuale. D’altra parte è 
fuori discussione che tutta la serie di documenti visuali che appartengono a una cultura 
siano un prodotto, attivo e passivo, di quella cultura stessa. Contemporaneamente 
messaggio intenzionale e prodotto riflesso. Nelle parole di Massimo Canevacci “anziché 
consumo passivo, il visuale spinge a moltiplicare le trame della comunicazione all’interno 
delle rispettive culture” (Canevacci, 2001:183). 
 
Penetrazione e trasformazione 
 
L’antropologia visuale nasce dunque come un programma di documentazione 
scientifica. Si lega fortemente al mezzo cinematografico, nonostante una prima resistenza 
da parte dell’antropologia ufficiale, preoccupata di veder contaminato il proprio settore di 
studi. Da subito incontrò quindi una certa difficoltà a tracciare un proprio percorso 
esclusivo: affiorò anche in questo settore quella che l’antropologo Clifford Geertz ha 
chiamato la natura volpina dell'antropologia, per sottolineare la mancanza di uno statuto 
rigoroso della disciplina e la caratteristica, al contrario, di far interagire concetti, 
precognizioni, paradigmi propri del suo spazio tempo, con eventi e documenti della vita. Nel caso 
di questa disciplina essa ha intrapreso un dialogo con il linguaggio cinematografico della 
fiction, la cinematografia scientifica e la tradizione documentaristica. 
Ancora oggi comunque l’antropologia visuale non è considerata una disciplina a sé 
stante, essendo uno l’essere umano, una è la disciplina, l’antropologia. Potremmo dire
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però, come per tutte le antropologie aggettivate, che si tratta solo di un punto di vista 
particolare e privilegiato: un punto di vista visuale. Secondo Paolo Chiozzi essa “è da un 
lato interpretazione visuale di una data realtà e, dall’altro, interpretazione dei dati visuali 
propri di questa realtà” (Chiozzi, 1993:10).  
Il suo contributo si rese comunque immediatamente prezioso dal punto di vista 
della ricerca sul campo di culture diverse, attraverso la realizzazione di vari documentari 
etnografici. Gli equivalenti dinamici delle moleskine. Si videro importanti nomi e 
particolari bio-macchinari: dalla camera partecipante di Robert Flaherty, al cine-occhio di Dziga 
Vertov, all’occhio meccanico di Jean Rouch. 
L'impressione della camera partecipante era un’impressione di realtà ottenuta proprio 
attraverso una costante ed umile attenzione allo svolgersi dei fatti, senza pretese di 
liricizzare o di adornare le immagini che si ponevano di fronte... un'intenzione di 
comunicare dati di fatto, di privilegiare l'aspetto antropologico più che quello psicologico. 
È proprio da Flaherty che si ha un punto di svolta fondamentale nell’approccio 
visuale. Generatosi da una sua originale intuizione, nel suo film più noto (Nanook of the 
north, 1922) cercò appositamente il vero coinvolgimento del popolo eschimese degli Inuit. 
Questo nuovo punto di sguardo - non il suo verso di loro, ma il loro verso di loro - fa di 
Flaherty un antenato totemico, proprio nelle parole di Rouch, del nuovo modo del 
riprendere antropologico. Questo fu l’elemento più interessante del suo progetto: riteneva 
estremamente contraddittorio utilizzare il tipico metodo scientifico di oggettificazione 
anche sull’essere umano, che non dovrebbe essere mai considerato oggetto, ma sempre 
soggetto di studio dell’antropologia: un’oggettificazione che lo de-umanizza disperdendo 
inevitabilmente tutto ciò che può costituire l’interesse della disciplina. 
Da qui iniziò il vero sconfinamento della fiction nel documentario che tuttavia non 
può più essere classificato come un banale errore di ambiguità, ma come una più sensibile 
ricerca e più in profondità. D’altra parte i confini tra i due generi cinematografici, 
documentario e fiction, non furono mai così ben definiti. L’elemento ambiguo è presente in 
molti lavori, in Joseph Dixon per esempio e nello stesso Flaherty. Scene messe in scena di 
vita quotidiana e tradizionale. Flaherty ne fece però un metodo necessario per non 
svuotare il significato più profondo, addirittura etimologico, dell’antropologia. Secondo 
alcuni addirittura, come il noto documentarista Jean Louis Comolli, la distinzione netta tra 
cinema di finzione e cinema documentario non rispecchia la realtà in quanto spesso questa
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contrapposizione viene contraddetta, “da Vertov, Murnau o Flaherty fino a Kiarostami, 
passando per Welles, Rossellini e Godard, la parte più vitale dell’energia cinematografica 
circola fra i due poli opposti […] per ibridarli, intrecciarne il flusso, invertirli, farli 
rimbalzare uno sull’altro” (Comolli, 2006:19). 
Nella definizione del critico culturale Dean MacCannell si può definire il suo 
metodo come una “staged authenticity, un’autenticità messa in scena” (1993:48). Quella 
stessa che possiamo vedere in un moderno film di intrattenimento che tratti una storia di 
vita possibile. A questo punto è molto difficile distinguere tra documentario e fiction: la 
loro compenetrazione appare non solo necessaria, ma anche inevitabile, vista la natura e la 
forma di narrazione che è tipica del mezzo cinematografico. Il cinema da quando è 
comparso è messa in scena e rappresentazione, eredità inevitabile del teatro. 
Quando Flaherty si avvicinò di più al film di finzione, collaborando con tre grandi 
registi – W. S. Van Dyke per Ombre bianche (1928) Friedrich Murnau per Tabù (1931) e 
Zoltan Korda per La danza degli elefanti (1937) – ne rimase estremamente deluso, 
nonostante si rese autore di sequenze bellissime. Il campo privilegiato di Flaherty rimane 
la realtà, certamente poetica, ma mai troppo inficiata dal lirismo. Nel leggero incontro tra 
documentarismo e finzionalità il vero Flaherty sarà quello di Nanook of the North, il primo 
documentario-opera d’arte della storia del cinema. Contro ogni tipo di intervento, che 
ricorda il primo comandamento del manifesto dei dogmatici cinematografici - le riprese del 
film vanno fatte on location – Flaherty sapeva che l’elemento narrativo sarebbe scaturito da 
solo dalla vita. La parabola di vita di Nanook effettivamente si inserisce spontaneamente 
in una sorta di curva drammatica che, arricchendosi anche di un sottile lirismo, rimane 
comunque spontanea. Flaherty era estremamente convinto che le storie vere siano molto 
più dense di significato di una sterile storia di sterili personaggi finti. D’altra parte questo 
così stretto accostamento alla sensibilità fotografica si va inevitabilmente ad ibridare con il 
fittizio, e l’incontro sembra produrre qualcosa di nuovo: l’onirico puro. 
Vertov, pionere del cinema-verità, rifiuta la messa in scena della realtà preferendo 
“filmare la vita all’improvviso” (Rouch cit. in Chiozzi, 1993:91). Il suo cine-occhio (kinoglaz) 
libera dall'umana immobilità. È in perpetuo movimento. Si avvicina alle cose e si ritrae da 
esse, scivola sotto di loro, vi entra dentro. Il suo film più esemplificativo sarà L’uomo con la 
macchina da presa (1929) proprio perché l’unica figurazione che può cogliere questa vita, 
eterno flusso di trasformazioni è proprio un uomo con la macchina da presa a spalla che
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agilmente possa cogliere, appunto, la vita in flagrante. Vertov, tra l’altro, sarà il primo a 
non considerare il montaggio come un effetto distorcente dell’essenza documentaristica, in 
quanto anche questo somiglia a un’altra metafora cine-umana: il taglia e incolla del cine-
pensiero. Negli anni ’30-’40 in cui il cinema si divideva tra il surreale e il neo-realista anche 
Vertov era assunto, come Flaherty, a riferimento dell’arte del frugare nelle particolarità 
della realtà. Acciaio (1932) di Walter Ruttmann, film-documentario con una sottile 
parvenza narrativa, si concentra sull’estetica delle macchine rese insieme umane e 
mostruose, con quel movimento e quell’armonia tipica di Vertov. 
Successivamente a Flaherty e Vertov la collaborazione delle persone nella 
rappresentazione delle loro passioni fu anche l’intento di Rouch, massimo esponente del 
nuova impostazione partecipante.  
L’occhio meccanico di Rouch è un’improvvisazione dinamica, un balletto in cui la 
macchina diventa viva come gli uomini che riprende, quella che egli definisce una “cine-trance” 
(cit. in Chiozzi, 1993:102) per analogia ai fenomeni di possessione. 
Anche per Rouch è la ripresa l’essenza e l’essenziale del suo lavoro. Il cinema è 
linguaggio e incontro e in quanto tale è rappresentazione e trasformazione. Rappresentazione, e 
non riflesso della realtà e della verità! Semplicemente una rappresentazione suscettibile di 
interpretazioni; trasformazione della situazione filmata, dei soggetti filmati e infine del 
cineasta stesso. È in fondo un usare il mezzo cinematografico per sbarazzarsene appena 
dopo nel vortice dell’invenzione. Una protesi che - come la penna dell’antropologo Ernesto 
De Martino, o ancora meglio, come la caméra stylo ipotizzata dai due cineasti Alexandre 
Astruc e Jean Cocteau
1
 - scrive il mondo. Da Flaherty, Rouch eredita ancora la convinzione 
che determinate dinamiche possano uscire fuori solamente tramite questo particolare 
modo di visione. Chronique d’un été (1962) realizzato in collaborazione con il sociologo 
Edgar Morin solo superficialmente può essere tacciato di ambiguità, in quanto nelle parole 
dello stesso Morin si trattava di fenomeni “di socialità intensiva” (1993:103) e in quanto 
tali il coinvolgimento era pieno e minima la distrazione che poteva essere indotta da una 
cinepresa, per quanto ingombrante potesse essere. Questo linguaggio diventa incontro 
                                                 
1
 Verso la metà del XX secolo Astruc e Cocteau ipotizzarono questa caméra stylo, camcoder piccola e leggera 
come una penna stilografica adatta ad inserirsi direttamente nel mondo rendendolo un set possibile, 
descrivendolo quindi come uno scrittore descriverebbe un film. Adatta soprattutto per migliorare le 
possibilità documentaristiche, vista la dimensione talmente ridotta che non rendeva spersonalizzante un 
eventuale incontro umano, si è rivelata ideale proprio per le ricerche etno-antropologiche.
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quando Rouch, come Flaherty, ritiene fondamentale il momento di condivisione del 
materiale filmato con gli stessi protagonisti, una “partecipazione tra diversi” (1993:103) 
una restituzione, un dono. Da linguaggio a incontro a “strumento privilegiato della 
comunicazione” (1993:103). Un vero e proprio dialogo tra osservatore e osservati. 
Se si dovesse trovare una sottile distinzione tra i due, per Flaherty usare la 
cinepresa era vedere meglio, per Rouch comunicare meglio. 
Nel complesso questi tre grandi cineasti etnografici credevano nel potere che ha la 
macchina da presa di vedere, oltre la possibilità dell’occhio umano, le qualità degli esseri e 
delle cose. La penetrazione del cineasta nel suo oggetto e la sua conseguente 
trasformazione. 
Una volta che è stata appurata l’impossibilità di essere documenti realmente 
oggettivi, la comunicazione visuale non può più essere soltanto produzione di 
documentari di uso prettamente scientifico. D’altra parte, se un filmato è sempre fiction si 
arriva inevitabilmente al cinema di finzione. Fictio nelle parole dell’antropologo Clifford 
Geertz è proprio produzione, fabbricazione, modellamento dell’oggetto etnografico. 
Geertz nella sua lunga ricerca sul campo presso l’isola di Bali matura e descrive la 
connessione tra la fictio latina e il suo nuovo modo di fare antropologia: con essa intende lo 
studio antropologico nella sua rifinitura; una storia basata sulla realtà, una sorta di 
romanzo - di fiction appunto - su un mondo sociale scritto da chi a quel mondo sociale vi 
ha partecipato. L’antropologo può avvicinarsi alla vera e profonda essenza della cultura 
che sta studiando proprio creando una fiction della sua reale esperienza, ciò che può 
essere per lui davvero tangibile.  
D’altra parte nella sua impostazione umile, ma sempre tesa alla descrizione 
profonda (thick description) Geertz è colui che fa dell’interpretazione il compito primo 
dell’antropologo. Lo “sguardo polifonico” (Canevacci, 2001:185) è il ricercare questa 
interpretazione profonda nei codici, nel simbolismo e nei soggetti che si hanno di fronte 
nella rappresentazione di un film. Proprio perché l’analisi di un film si deve occupare 
dello sguardo sul visibile per scovare anche e soprattutto il non-visibile. 
In questo senso Gregory Bateson osservava che il dato antropologico non è mai un 
oggetto o un evento puro, ma sempre una registrazione o un ricordo, il che significa che 
l’oggetto d’analisi antropologica è sempre una rappresentazione strettamente collegata al