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«Si dice che il Governo non dovrebbe avere il potere di emettere moneta, che esso 
quasi sicuramente, abuserebbe di tale potere […] Sarebbe un grave pericolo, lo 
confesso, se il Governo - o meglio i ministri – avessero il potere di emettere 
moneta. Io perciò propongo di attribuire questo compito a dei Commissari 
inamovibili dal loro incarico se non a seguito di una votazione di uno o di 
entrambi i rami del Parlamento. Propongo anche, per prevenire ogni relazione 
tra questi Commissari e i ministri, di proibire qualunque transazione monetaria 
tra di essi. I Commissari non dovrebbero mai, sotto nessun pretesto, finanziare il 
Governo, né essere in alcun modo sotto il suo controllo e la sua influenza. Se il 
Governo avesse bisogno di denaro, dovrebbe essere obbligato a procurarselo nel 
modo legittimo, tassando i cittadini, emettendo e vendendo titoli pubblici 
attraverso prestiti consolidati, o prendendo a prestito da qualcuna delle numerose 
banche che esistono nel Paese; in nessun caso dovrebbe essere permesso ad esso 
di avere credito da coloro che hanno il potere di emettere moneta […]» (Plan for 
the Establishment of a National Bank, in Works and Correspondence of David 
Ricardo). 
 Il pensiero di Ricardo appare ancor oggi estremamente attuale. In esso si 
ritrovano enunciati i principi cardine della teoria odierna dell’indipendenza delle 
Banche Centrali, quali la separazione della Banca Centrale dal Governo e il 
divieto di finanziare la spesa pubblica.  E’ proprio su questi principi che si basa 
oggi l’autonomia delle Banche Centrali. Negli ultimi anni, si è verificato un 
aumento dell’autonomia delle Banche Centrali sia nei paesi sviluppati che nei 
5 
 
paesi in via di sviluppo al fine di evitare che i governi strumentalizzino la capacità 
della Banca di emettere moneta. Possiamo a tal proposito chiederci, perché 
l’aumento dell’indipendenza della Banche Centrali si è registrato solo negli ultimi 
anni, se è un’esigenza già conosciuta alla fine del 1800? Le risposte possono 
chiaramente essere molte, e tutte contengono una parte della verità, ma forse la 
più importante è che questa esigenza è stata sentita più fortemente dagli anni ’70 
in poi al fine di far fronte a livelli d’inflazione elevati registrati in seguito agli 
shock petroliferi e soprattutto per evitare che i governi facciano sistematicamente 
ricorso alla monetizzazione del debito pubblico. A questo dobbiamo aggiungere 
l’affermarsi della teoria monetarista di Friedman (1963) che sottolineava il legame 
esistente tra elevata inflazione e condotta della politica monetaria da parte della 
Banca Centrale. Infatti, prima della teoria di Friedman l’analisi macroeconomica e  
la pratica della politica macro di stabilizzazione (sia monetaria che fiscale) era 
profondamente influenzata dalla Teoria Generale (1936) di Keynes e dagli studi 
successivi ad essa ispirati, secondo cui per risolvere i problemi di politica 
economica si doveva ricorrere a politiche focalizzate sulla gestione della domanda 
aggregata senza preoccuparsi eccessivamente degli effetti che queste politiche 
potessero avere sull’inflazione. In seguito agli shock degli anni ’70, quindi,  
l’intervento di tipo keynesiano ha perso di credibilità, per cui l’esigenza di portare 
avanti una politica monetaria maggiormente orientata alla stabilizzazione dei 
prezzi è diventata sempre più sentita dai vari paesi. 
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Nel primo capitolo si tratteranno i policy game di Kydland-Prescott (1977) e 
Barro-Gordon (1983), riguardo al comportamento time-inconcistency della Banca 
Centrale. 
Nel secondo capitolo si analizzeranno le possibili soluzioni al bias 
inflazionistico avanzate da Rogoff (1985), Walsh (1995), Dixit-Jensen (2000) e 
Chortareas-Miller (2004). 
Infine nel terzo capitolo si discuterà sugli indici d’indipendenza della Banca 
Centrale e le problematiche relative al loro calcolo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
7 
 
CAPITOLO I 
Inflazione e politica monetaria 
 
Introduzione  
Considerando uno schema AD-AS si può semplicemente verificare che sia 
un’espansione della domanda aggregata che una contrazione dell’offerta 
aggregata possono dar vita ad un incremento dei prezzi e quindi all’inflazione. 
 Figura n. 1 – Curve di domanda e offerta aggregata. 
                                                                                                                                 
 
 
 
 
 
 
Esistono molte potenziali cause dell’inflazione, ad esempio, shocks 
tecnologici negativi, spostamenti verso l’alto dell’offerta di lavoro e altre 
numerose cause che spostano la curva di offerta aggregata verso sinistra o altre 
cause, come ad esempio l’incremento dello stock monetario, che spostano la curva 
di domanda aggregata verso destra. 
AS 
AD
P 
Y
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Quando si vuole studiare l’inflazione di lungo periodo gli economisti tendono 
a focalizzare i propri studi solo sulla crescita dell’offerta di moneta in quanto essa 
dà vita ad un incremento persistente del livello dei prezzi. Ripetuti incrementi di 
prezzi richiedono ripetute cadute dell’offerta aggregata, o ripetuti incrementi della 
domanda aggregata. Ma considerando il progresso tecnologico, ripetute 
diminuzioni dell’offerta aggregata non sono possibili. 
Per mostrare più chiaramente il legame che c’è tra inflazione e moneta 
consideriamo il mercato della moneta, il cui equilibrio è: 
),( YiL
P
M
   
dove M è lo stock di moneta, P il livello dei prezzi, i il tasso d’interesse nominale, 
Y il reddito reale e L (·) la domanda di moneta reale. Questa condizione implica 
che il livello dei prezzi è dato da: 
),( YiL
M
P    
L’aumento dell’offerta di moneta ricopre un ruolo fondamentale nel 
determinare l’inflazione, infatti, considerando la (1.2) come condizione di 
equilibrio sul mercato della moneta, un aumento dei prezzi richiede o un aumento 
dell’offerta di moneta o un calo della domanda di moneta L(.). Affinché si riduca 
la domanda di moneta occorre però che o si riduca il reddito, o che aumenti il 
tasso di interesse. Dalle stime empiriche sulla reattività della domanda di moneta 
(1.1) 
(1.2) 
9 
 
a Y e a i si evince però che questa è poco sensibile alle due variabili; pertanto se la 
causa degli aumenti di P nel tempo fosse la domanda di moneta dovremmo 
osservare variazioni dei prezzi associate a grandi variazioni di Y e/o di i. Ma 
questo non si osserva nella realtà. Dunque la causa di aumenti dei prezzi và 
ricercata principalmente negli aumenti dell’offerta di moneta: infatti c’è una 
relazione forte tra offerta di moneta e inflazione  valida nel medio - lungo periodo 
e per moltissimi paesi. 
 
1. Crescita dell’offerta di moneta e tassi d’interesse. 
Possiamo analizzare attraverso un semplice modello il legame che intercorre 
tra stock di moneta nominale e inflazione. In un primo momento consideriamo 
che i prezzi siano perfettamente flessibili in modo da descrivere cosa accade nel 
lungo periodo. 
Assumiamo per semplicità che l’output reale e il tasso d’interesse reale siano 
costanti e pari rispettivamente a:Y  e r , questa idea è coerente con l’ipotesi di 
prezzi perfettamente flessibili poiché questi ultimi dipendono dall’offerta di 
moneta e dall’aspettativa del tasso d’inflazione. Per definizione il tasso d’interesse 
reale è la differenza tra il tasso d’interesse nominale e l’aspettativa d’inflazione:            
r = i - 
e
 Σ per cui si può considerare: 
e
ri  Σ   {  (1.3) 
10 
 
Questa equazione è conosciuta con il nome di “Identità di Fisher”. 
Considerando la (1.3) e la nostra assunzione che Y e r sono costanti possiamo 
riscrivere la (1.2) come: 
),( YrL
M
P
e
 Σ  
   
Assumiamo inizialmente che M e P crescano allo stesso tasso (M/P è 
costante) e che 
e
 Σ è uguale all’inflazione effettiva. Supponiamo ora che in un 
certo periodo t
0
 si ha un incremento permanente tasso di crescita di M (vedi figura 
n. 2) per il quale r  e Y  restano costanti, M/P resta costante (perché P varia dello 
stesso ammontare di M) e 
e
 Σ deve eguagliare il nuovo tasso di crescita della 
moneta. 
Ma cosa accade al momento del cambiamento? In seguito ad un aumento di 
M il livello dei prezzi cresce più velocemente di prima e l’inflazione attesa salta 
ad un livello più alto lo stesso comportamento lo ha il tasso d’interesse nominale 
i.  Poiché M non effettua salti, ma varia solo il tasso di crescita di M, ne segue che 
i P devono saltare al momento del cambiamento perché quando avviene il 
cambiamento nel tasso di crescita di M in t
0
, il livello dei prezzi P dovrà crescere 
nel tempo ad un tasso maggiore – il suo tasso di variazione, cioè l’inflazione – 
aumenta. Pertanto, nell’equazione (1.4) l’inflazione attesa π
e
, che è uguale a 
quella effettiva π deve manifestare un aumento discontinuo e discreto: un “salto” 
appunto. Ora in base all’equazione di Fisher (1.3) un salto discreto in π
e 
implica 
(1.4) 
11 
 
un salto discreto in i: anche questa variabile subisce una variazione improvvisa e 
discontinua. Dunque, nell’equazione (1.4) abbiamo che solo la variabile π
e
 
effettua un salto discreto, mentre Y e r sono costanti e M varia in modo continuo. 
Questo dimostra che al tempo t
0
 i prezzi P devono manifestare un salto discreto; 
pertanto il rapporto M/P, sempre in quell’istante di tempo manifesta un salto 
discreto – si tratta di una diminuzione poiché sono i prezzi al denominatore che 
aumentano in modo brusco. Dopo t
0
 invece, sia M che P crescono a tassi costanti 
nel tempo, quindi il rapporto M/P non varia più.