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Introduzione 
 
Quando uno studente arriva alle soglie della Laurea Magistrale, è naturale che si 
ponga delle domande sul mondo del lavoro, su come sarà la sua vita una volta uscito 
dall’ambiente sicuro dell’Università, se sarà in grado di lavorare bene ed essere felice. 
E, come tutti, anch’io mi sono fatto (e continuo a farmi) queste domande sul mio futuro. 
Ma, dopo due anni di studio in un Corso di Laurea che ha tra i suoi cardini la psicologia 
del lavoro, ciò che mi sono chiesto più spesso è: ma, alla fine, perché la gente lavora? 
Cosa vuol dire per le persone lavorare?  
Non avendo ancora mai lavorato, non sono in grado di rispondere a questi 
interrogativi sulla base della mia esperienza personale. Per questo mi piace ascoltare le 
persone che parlano del proprio lavoro, capire cosa ne pensano, come lo vivono, che 
emozioni gli dà (ed, in questo senso, mi affido a loro anche per immaginare me stesso 
un giorno “a lavoro”). Dai racconti delle persone, emerge spesso un quadro ambivalente 
del loro lavoro: inizialmente, ti fanno un resoconto dettagliato di tutte le loro beghe 
lavorative (i carichi eccessivi, i difficili rapporti con colleghi e superiori, i troppi 
compiti che vengono assegnati loro e via dicendo), tanto che chi ascolta potrebbe 
pensare che quelle persone odiano il proprio lavoro e che, in fin dei conti, si lavora 
semplicemente per guadagnare, perché purtroppo è necessario per sopravvivere. Un 
quadro, francamente, desolante per chi (come me) si prepara con fiducia ad entrarci in 
questo “benedetto” mondo del lavoro! Tuttavia, se poi a quelle stesse persone gli fai una 
semplice quanto importantissima domanda e gli chiedi “Ma ti piace il tuo lavoro?”, 
spesso (non sempre, ovviamente!) quelle stesse persone che ne hanno parlato male ti 
rispondono con sincerità e naturalezza di si e solo a quel punto mettono a fuoco ciò che 
di bello il lavoro offre loro. 
Riflettendo, dunque, sul rapporto della persona col proprio lavoro, avevo chiaro 
che deve esserci una qualche forza sotterranea che la spinge a lavorare. Non una spinta 
inconsapevole ma un’energia di cui, comunque, le persone a volte si dimenticano; per 
questo, spesso si concentrano soltanto sui problemi che il lavoro comporta. Però questa 
forza è presente, agisce costantemente e li motiva a lavorare, indipendentemente dai 
problemi stessi. E non si tratta di un bisogno di guadagno economico ma di qualcosa di 
più profondo, che la psicologia può comprendere e spiegare. In questa direzione,
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un’illuminazione la ebbi durante una lezione all’Università in cui, parlando di 
workaholism, si accennò al work engagement. Appena ne sentii parlare, rimasi folgorato 
dalla bellezza ed anche dalla potenza di quel concetto: era pieno di significati positivi 
inerenti il lavoro delle persone, lo descriveva come un piacere. Poteva essere quel 
qualcosa che stavo cercando che spinge le persone a lavorare nonostante tutto; e così, 
durante quella stessa lezione, decisi che ne avrei fatto un tema della mia tesi di Laurea 
Magistrale e mi trovai ad immaginare possibili disegni di ricerca per testare la sua 
effettiva portata esplicativa. Parlai di questo costrutto con la Prof.ssa Capozza ed anche 
lei condivideva il mio stesso interesse e subito immaginammo possibili legami di questo 
costrutto con alcune variabili di personalità e di clima. 
Per questi motivi, il primo capitolo di questa tesi è totalmente dedicato al work 
engagement, a ciò che esso è, da cosa è generato ed alimentato ed alle questioni che 
nella letteratura pertinente (che ho scoperto essere molto fervida) risultano ad oggi più 
salienti e discusse. Si descrive, dunque, questo costrutto nelle sue componenti di vigore, 
dedizione e coinvolgimento nel lavoro, come questo dipenda sia dalla personalità degli 
individui che dal clima lavorativo in cui si trovano, nonché si descrive il principale 
modello su questo tema: il Modello delle Risorse-Richieste Lavorative (JD-R Model – 
Job Demands-Resources Model) di Bakker e Demerouti (2007; 2008; Bakker, 2011). È 
un modello molto interessante che sostiene come la performance lavorativa (ma anche 
la soddisfazione per il proprio lavoro, l’altruismo dei lavoratori ed altri esiti 
desiderabili) siano favoriti dal work engagement degli individui. Questo, a sua volta, è il 
prodotto delle risorse (sia personali che dell’ambiente di lavoro) e delle richieste del 
lavoro: in particolare, il work engagement (e, quindi, anche gli esiti sopra accennati) è 
più elevato in una combinazione di alte risorse ed alte richieste. Ciò vuol dire che, per le 
persone che sentono di avere molte risorse a propria disposizione, è più favorevole una 
situazione di elevate richieste lavorative perché in tale condizione possono mettere 
ancora più in gioco quelle stesse risorse e sentirsi più appagati. 
Il legame tra la persona e il suo lavoro, tuttavia, non è spiegato solo dal work 
engagement: questo, infatti, si concentra sul lavoro delle persone ma nulla dice sulla 
relazione che queste hanno con l’organizzazione in cui lavorano. A questo scopo, è di 
grande aiuto un altro concetto molto interessante ed approfondito nella psicologia del 
lavoro e delle organizzazioni: l’impegno organizzativo (organizational commitment).
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Nel Capitolo 2 di questa tesi, perciò, tratto quest’argomento, basandomi sulla 
concettualizzazione a tre componenti di Meyer e Allen (1991; 1997). Questi autori 
descrivono l’impegno organizzativo come costituito da tre dimensioni interagenti: 
l’impegno affettivo (che si riferisce all’attaccamento emotivo verso l’organizzazione in 
cui si lavora), quello normativo (legato al senso del dovere nei confronti dell’azienda) 
ed, infine, l’impegno per continuità (che si riferisce al permanere in un’azienda in 
quanto non si hanno alternative migliori). In questo capitolo, oltre alla descrizione di 
questo modello (con gli antecedenti e le conseguenze di ognuna di queste forme di 
impegno), tratto anche delle evoluzioni più recenti che questo costrutto ha subito e della 
sua relazione col work engagement così come emerge dalla letteratura.  
Il Capitolo 3 (che conclude la parte teorica della tesi) affronta un altro argomento 
importante e molto frequente nella psicologia del lavoro: il burnout. A differenza dei 
due costrutti precedenti, il burnout non esprime un significato positivo, dato che 
rappresenta una sindrome lavorativa caratterizzata da esaurimento emotivo, disaffezione 
e ridotta efficacia professionale (Maslach & Leiter, 1997). Tuttavia, ho voluto 
approfondire teoricamente quest’argomento per due ragioni: primo, perché è importante 
ed utile capire i motivi che portano al disagio lavorativo (ed, in questo senso, ci sono 
molte analisi nella tesi che hanno come variabile-risultato il burnout); secondo, perché 
esso è strettamente legato al work engagement (il quale nasce proprio come costrutto 
che volge in positivo le componenti del burnout) e mi interessava, dunque, molto 
approfondire la relazione complementare tra questi due concetti (sia teoricamente che 
analiticamente). Inoltre, in questo capitolo, ho anche inserito un interessante modello di 
burnout specifico per gli insegnanti di Byrne (1999), dato che questa era la popolazione 
di riferimento per la mia ricerca. 
Il Capitolo 4 è quello più corposo ed è relativo a tutte le analisi che ho svolto. 
Sono delineati, innanzitutto, gli obiettivi di questa ricerca ed il metodo che è stato 
seguito per realizzarla (in particolare, viene descritto il questionario con tutte le sue 
scale ). Riguardo ai risultati veri e propri, vengono descritti i punteggi medi e le varianze 
di tutte le variabili utilizzate, 
nonché le analisi fattoriali confermative per le variabili plurifattoriali. Inoltre, una parte 
rilevante delle analisi è dedicata a vari modelli di regressione che hanno come mediatori 
l’impegno organizzativo od il work engagement ed il burnout (considerati
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contemporaneamente), come variabili antecedenti sia variabili di personalità che 
variabili di clima ed, infine, diverse variabili-risultato. 
Infine, il Capitolo 5 consiste in una discussione approfondita dei risultati ottenuti: 
si considerano, infatti, sia la valenza teorica di questi ma anche la loro portata pratico-
applicativa in contesti organizzativi.
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1. Il work engagement 
 
Nell’ambito della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, il work 
engagement è un concetto molto affascinante, sia da un punto di vista teorico e di 
ricerca, che applicativo. È difficile darne una traduzione esaustiva in italiano: 
letteralmente, potrebbe significare “impegno lavorativo”, vale a dire l’impegno che una 
persona mette nel proprio lavoro. Ma – come si vedrà in seguito dalle definizioni fornite 
da vari autori che si sono interessati dell’argomento – questa traduzione risulta 
estremamente riduttiva e “mortificante” per un costrutto articolato che ha la propria 
bellezza nel fatto di abbracciare una vasta gamma di significati positivi per il lavoro 
delle persone, che vanno al di là del semplice impegno. Per questo, anche nel contesto 
italiano si preferisce parlare di work engagement e di lavoratori work engaged (o anche 
solo di “engagement” e di lavoratori “engaged”). 
 
1.1 Cos’è il work engagement 
Il costrutto di work engagement nasce nel filone di studi sul burnout, come 
concetto positivo opposto a quest’ultimo. Il primo a parlare di work engagement fu 
Kahn (1990) e tutti gli autori che se ne sono occupati in seguito, in qualche modo sono 
partiti dalle sue considerazioni. Kahn parla di engagement personale, uno stato in cui la 
persona porta il proprio sé nel lavoro, investendovi energie personali e vivendo il lavoro 
con grande connessione emotiva. Sono due i punti fondamentali della 
concettualizzazione di Kahn, anche in termini operativi: primo, il work engagement si 
riferisce ad una connessione psicologica con la performance dei compiti lavorativi, 
piuttosto che ad un’attitudine verso caratteristiche dell’organizzazione o del lavoro 
(Christian, Garza, & Slaughter, 2011); secondo, il work engagement concerne 
l’investimento di risorse personali nel proprio lavoro (cioè, l’engagement rappresenta 
un’unione di energie fisiche, emotive e cognitive che l’individuo porta nel proprio ruolo 
lavorativo) (Rich, LePine, & Crawford, 2010). Il work engagement rappresenta, quindi, 
un investimento di diverse risorse (cognitive, fisiche ed emotive); tale investimento 
avviene in modo simultaneo ed olistico. Un lavoratore engaged, quindi, investe tutto se 
stesso nel suo lavoro.
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Schaufeli, Salanova, González-Romá e Bakker (2002) descrivono il work 
engagement come una “condizione psicologica associata al lavoro, positiva e 
soddisfacente, caratterizzata da vigore, dedizione e coinvolgimento” (p. 74). Questa è 
anche la definizione alla base della scala più utilizzata a livello internazionale per 
misurare questo costrutto, la Utrecht Work Engagement Scale (UWES; Schaufeli & 
Bakker, 2003) e viene regolarmente ripresa come punto di partenza da tutti gli altri 
studiosi che si occupano di work engagement. Il vigore risulta caratterizzato da elevati 
livelli di energia e resistenza mentale allo stress durante il lavoro, dall’essere disponibili 
a investire energie nel proprio lavoro, e dalla persistenza anche di fronte alle difficoltà. 
La dedizione si riferisce alla sensazione di dedicarsi con passione al proprio lavoro e, 
conseguentemente, esperirne entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida. Il 
coinvolgimento riguarda l’essere pienamente concentrati e felicemente assorbiti nel 
proprio lavoro: per esempio, quando il tempo passa velocemente e si ha difficoltà a 
interromperlo. I lavoratori engaged hanno alti livelli di energia ed autoefficacia nel 
proprio lavoro; sentono la stanchezza dopo una lunga giornata di lavoro come uno stato 
piacevole perché è associata a risultati positivi; hanno una forte passione per il proprio 
lavoro e per loro lavorare è divertente.  
Ecco l’ampia gamma di significati di cui parlavamo a proposito della difficoltà di 
traduzione del termine work engagement: energia, resistenza mentale, passione, 
significato, entusiasmo, sfida, assorbimento. Questa è la bellezza del work engagement: 
chi non vorrebbe un lavoro che gli desse tutte queste sensazioni positive? Essere 
lavoratori engaged significa, quindi, vivere il proprio lavoro con passione e con grande 
energia (non come un necessario mezzo di sostentamento) e – perché no? – anche con 
divertimento (quasi un’eresia ai giorni nostri). Significa impegnarsi con tutte le proprie 
forze per risolvere i problemi lavorativi legati al proprio ruolo ed ai propri compiti; 
problemi che però vengono vissuti non in modo ansiogeno e stressante ma come 
occasioni di crescita per mettersi in gioco. E ciò conferisce significatività e piacere 
personale al proprio lavoro. 
Per comprendere ancor meglio cos’è il work engagement, possiamo rivolgere lo 
sguardo a quei costrutti che (spesso nella pratica aziendale e talvolta anche in quella 
empirica) vengono confusi con esso. Possiamo quindi dire cosa il work engagement non 
è.
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La UWES definisce il work engagement come l’opposto del burnout. 
Quest’ultimo è definito dall’incapacità (esaurimento) come pure dalla riluttanza a 
lavorare (ridotta realizzazione) (tale costrutto verrà descritto meglio nel Capitolo 3). In 
contrasto rispetto a questa definizione, il work engagement è caratterizzato dalla 
capacità (vigore) e dalla disponibilità (dedizione) a lavorare. Queste due dimensioni 
sembrano centrali nel definire il costrutto di work engagement; invece, riguardo alla 
dimensione del coinvolgimento, non è ancora del tutto chiarito se essa sia una terza 
componente del work engagement (del tutto indipendente dalle prime due) o piuttosto 
sia il prodotto di vigore e dedizione (Schaufeli, Taris, & van Rhenen, 2008; Bakker, 
Albrecht, & Leiter, 2011a). In ogni caso, non essere burned out non vuol dire essere 
conseguentemente engaged, e viceversa: infatti, work engagement e burnout possono 
essere compresenti, almeno fino a un certo punto. Una recente meta-analisi 
(Halbesleben, 2010) ha mostrato che le correlazioni tra work engagement e burnout 
variano tra -.24 a -.65, molto lontane dal -1.0 che dovrebbero avere se fossero 
perfettamente opposte. D’altronde, la relazione tra burnout e work engagement verrà 
approfondita in maniera più esaustiva successivamente (vedi Capitolo 3, Paragrafo 3.3), 
dato che essa rappresenta un importante argomento del presente lavoro di ricerca. 
Tornando a parlare di cosa il work engagement non è, alcuni autori (Bakker et al., 
2011a; Sonnentag, 2011; George, 2011) ritengono che il suo lato oscuro sia costituito 
dal workaholism, una “dipendenza da lavoro” caratterizzata dal lavorare eccessivamente 
e compulsivamente (Schaufeli, Taris, & Bakker, 2008). Il lavoratore eccessivamente 
engaged, infatti, può cominciare a portarsi il lavoro a casa, a percepire un’interferenza 
della sua vita familiare in quella lavorativa e viceversa. Interessante, però, a tal 
proposito, è la posizione di Schaufeli e Salanova (2011), due autori che hanno studiato 
in maniera estesa sia il workaholism che il work engagement. Essi sostengono che 
lavorare tanto (come fanno le persone engaged) non vuol dire essere workaholic: 
passare molto tempo lavorando o pensando al lavoro è una condizione necessaria ma 
non sufficiente per il workaholism. Infatti, oltre al lavorare eccessivamente (work 
excessively), il workaholism è caratterizzato anche dal lavorare compulsivamente (work 
compulsively); e nel work engagement non c’è alcuna compulsione a lavorare. Quindi, i 
significati dei due costrutti sono ben diversi. Inoltre, sembra che le dinamiche 
motivazionali che sottostanno al work engagement ed al workaholism siano molto
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diverse (Taris, Schaufeli, & Shimazu, 2010): mentre i lavoratori engaged sono attratti 
dal lavoro perché per loro lavorare è divertente, i workaholic sono spinti a lavorare 
perché non possono resistere alla loro pulsione a lavorare compulsivamente. Il work 
engagement è caratterizzato primariamente da motivazioni intrinseche, mentre il 
workaholism da motivazioni estrinseche (per esempio, l’internalizzazione di standard 
esterni di valutazione di sé e di approvazione sociale). Date le differenze motivazionali 
di fondo, è piuttosto improbabile che il work engagement possa generare workaholism. 
Christian e collaboratori (2011) spiegano che il work engagement è distinto 
teoricamente ed empiricamente anche da altri costrutti tipici della psicologia delle 
organizzazioni, quali: la soddisfazione lavorativa (Weiss, 2002), l’impegno 
organizzativo (Meyer & Allen, 1991) ed il coinvolgimento nel proprio lavoro 
(Kanungo, 1982).  
La soddisfazione lavorativa è definita da Weiss (2002) come l’atteggiamento 
(positivo o negativo) che la persona ha verso il proprio lavoro o la propria situazione 
lavorativa; l’engagement, a differenza del costrutto precedente (che è esclusivamente 
cognitivo), consiste in un investimento simultaneo di energie psichiche, fisiche ed 
emotive (e non coinvolge, quindi, solo la sfera cognitiva). Dunque, la soddisfazione 
lavorativa è una valutazione razionale sul proprio lavoro, mentre il work engagement è 
un modo di vivere il proprio lavoro. 
L’impegno organizzativo di tipo affettivo, secondo Meyer e Allen (1991), è un 
attaccamento dell’individuo verso l’organizzazione che deriva da una condivisione di 
interessi e valori. Questo tipo di impegno si differenzia dal work engagement in quanto 
il primo si riferisce ad un tipo di attaccamento affettivo relativo ai valori 
dell’organizzazione in sé, mentre il secondo riguarda le percezioni del lavoro in sé. 
Inoltre, il work engagement rappresenta un concetto più esteso rispetto all’impegno: il 
work engagement, infatti, consiste in un investimento simultaneo di energie fisiche, 
cognitive ed emotive sul lavoro; mentre l’impegno in questa forma è solo un 
attaccamento di tipo affettivo-emotivo.  
Il coinvolgimento lavorativo è descritto da Kanungo (1982) come uno stato 
cognitivo di identificazione psicologica. Si riferisce, quindi, alla credenza cognitiva che 
quel lavoro soddisfi i nostri bisogni e rappresenta il grado in cui una persona si 
identifica col proprio lavoro. A differenza del work engagement, il coinvolgimento
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lavorativo rappresenta un costrutto esclusivamente cognitivo, che può essere 
considerato una componente del work engagement ma non può essere messo alla sua 
stregua. Inoltre, il coinvolgimento lavorativo si riferisce al grado in cui aspetti del 
lavoro siano centrali nella definizione dell’identità della persona; quindi, non si riferisce 
ai compiti lavorativi specifici ma ad aspetti più generali del lavoro che possono 
soddisfare i nostri bisogni. 
 
1.2 Le fluttuazioni del work engagement: stato versus tratto 
Uno degli argomenti più spesso dibattuti nella letteratura sul work engagement 
(Bakker et al., 2011a; Schaufeli & Salanova, 2011; Sonnentag, 2011) riguarda come 
esso cambia nel tempo, nonché la questione se esso sia un tratto di personalità stabile 
che varia da persona a persona o uno stato generale che varia anche nella stessa persona 
(a seconda di alcune sue specifiche dinamiche), oppure entrambe le cose.  
Anche se il livello generale di work engagement di una persona può essere 
relativamente stabile per un lungo periodo di tempo (Mauno, Kinnunen, & 
Ruokolainen, 2007), il grado in cui una persona si sente vigorosa, identificata ed 
assorbita nel proprio lavoro può subire fluttuazioni sia tra la singole giornate che tra le 
settimane: il work engagement appare, quindi, come un tipo d’impegno momentaneo e 
transitorio, vale a dire che cambia all’interno dei soggetti in brevi periodi di tempo 
(anche ore) (Bakker et al., 2011a). Per dirla in modo semplice, può capitare a chiunque, 
anche ad un lavoratore engaged, di avere una “giornata No”. Secondo Sonnentag, 
Dormann e Demerouti (2010), il livello giornaliero del work engagement dipende dal 
livello giornaliero delle risorse lavorative (autonomia, clima di squadra, comportamento 
del supervisore, etc.) e da processi giornalieri più distanti per il lavoratore (per esempio, 
la ripresa economica) che influenzano il livello giornaliero delle stesse risorse lavorative 
e di quelle personali (autostima, autoefficacia, ottimismo, affetto positivo). Le 
dinamiche di fluttuazione del work engagement non portano a cambiamenti soltanto di 
giorno in giorno ma anche di ora in ora (Sonnentag, 2011): il livello del work 
engagement in uno specifico momento della giornata può dipendere non solo dal livello 
giornaliero di risorse personali e lavorative, ma anche dallo specifico compito su cui la 
persona sta lavorando. Quindi, non solo le risorse ma anche il significato attribuito ad 
uno specifico compito ed il piacere ad esso legato influenzano il work engagement: è