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INTRODUZIONE 
 
Nell’odierna “società del rischio”, l’elemento del pericolo 
potenziale per l’incolumità pubblica è socialmente accettato e condiviso, 
entro certi limiti, come una componente ineliminabile che diventa il 
normale prezzo da pagare in corrispondenza dello sviluppo tecnologico, 
scientifico e produttivo. 
La parola “rischio” è diventata, infatti, ormai una delle più diffuse 
nel nostro lessico anche per la sua immediata efficacia evocativa: 
espressioni come “rischio nucleare”, “rischio ambientale”, “soggetti a 
rischio” sono ormai comuni e aumentano quel senso di incertezza che 
accompagna la vita umana.  
Anche se il concetto di rischio e di pericolo non possiedono una 
connotazione penalistica esclusiva, identificandosi piuttosto in un tema 
sul quale il legislatore impegna una pluralità di strumenti giuridici di 
natura differente, alla scienza del diritto (a quella penalistica in 
particolare) tocca il compito di fissare il grado massimo di esposizione a 
pericolo dei beni giuridici e fornire adeguata tutela contro quei 
fenomeni dannosi derivanti dall’incombenza dei vari rischi. 
Si comprende bene, quindi, l’importanza odierna della previsione 
dei reati di pericolo attraverso i quali il legislatore anticipa la tutela 
penale dalla fase della realizzazione del danno al bene tutelato a quella 
della sua semplice messa in pericolo; ovviamente, poiché ciò comporta 
un allargamento dell’area dell’illecito penale, tale anticipazione deve 
costantemente confrontarsi con l’indispensabile requisito della 
necessaria offensività in quanto soltanto un pericolo oggettivamente 
rilevabile e verificabile può legittimare un’anticipazione della tutela 
penale evitando fenomeni di abusive iper-criminalizzazioni.
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Nel nostro ordinamento, la categoria dei reati di pericolo è in 
continua espansione, come dimostrano i numerosi interventi in sede di 
legislazione speciale ma anche in sede extracodicistica tendenti a 
sanzionare l’esposizione a pericolo di determinati beni collettivi o 
superindividuali. 
 La presente analisi prende spunto dal modello dei reati di 
pericolo, che sta alla base dei reati contro la pubblica incolumità quale 
bene di primaria importanza, riguardando il complesso delle condizioni 
garantite dall’ordine giuridico che assicurano la vita, l’integrità 
personale, la sanità e il benessere della collettività, per concentrarsi in 
particolare sul reato di incendio. Tale fattispecie, che rappresenta un 
tipico reato di pericolo offensivo della incolumità pubblica, ha sempre 
ricevuto da parte dell'ordinamento giuridico un atteggiamento di grande 
severità; nel diritto romano, ad esempio, in base ad una sorta di legge 
del “contrappasso”, il soggetto responsabile di aver cagionato un 
incendio veniva condannato alla pena capitale al rogo.  
Anche nel diritto attuale il legislatore dimostra un certo rigore nei 
confronti del reato di incendio in ragione della considerazione che tale 
delitto ha caratteristiche del tutto peculiari per la facilità della sua 
esecuzione e i suoi possibili effetti devastanti. Tra l’altro, la tematica 
risulta sempre più delicata ed attuale in considerazione anche dello 
sviluppo del “diritto penale dell’ambiente” finalizzato alla tutela 
specifica del nostro patrimonio forestale e delle aree protette che 
puntualmente, ogni estate, viene aggredito da numerosi eventi di 
incendio boschivo. 
  L’analisi proposta nel seguente contributo si suddivide in 4 
capitoli.
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Nel capitolo primo, partendo dal principio generale 
dell'ordinamento penale della  necessaria offensività dell'illecito (nel suo 
duplice livello di operatività giudiziario-interpretativo) si affrontano le 
premesse delle ragioni che giustificano il ricorso alla categoria dei reati 
di pericolo per la realizzazione della tutela penale anticipata. 
Nel capitolo secondo, viene enucleata la nozione di incolumità 
pubblica costruita sul modello dei reati di pericolo con alcuni cenni 
all’evoluzione penalistica in tema e si svolgono alcune sulla 
classificazioni operate dal codice che distingue fondamentalmente, nel 
titolo sesto del libro secondo del codice penale, fra delitti di comune 
pericolo mediante violenza e mediante frode. 
Si affronta quindi, nel capitolo terzo, la tematica del reato di 
incendio quale figura capostipite dei diritti contro l’incolumità pubblica. 
In particolare, partendo dalla nozione di incendio, e dalla sua riferibilità 
ai diversi reati previsti da numerose disposizioni del codice penale, si 
illustra la sua essenza di reato di pericolo (affrontata dalla 
giurisprudenza anche in sede di verifica di legittimità costituzionale) per 
poi procedere ad una disamina della fattispecie codicistica di cui all’art 
423 c.p. sotto il profilo del bene giuridico tutelato, del soggetto attivo, 
dell’elemento oggettivo e soggettivo, delle condizioni di punibilità e del 
suo rapporto con altri reati. 
Infine, nel capitolo quarto, sempre nell’ottica del diritto penale, si 
fa un cenno al ruolo del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco quale 
organo deputato alla prevenzione degli incendi e alla tutela, in genere, 
della pubblica incolumità anche sui luoghi di lavoro con un breve 
riferimento al “caso ThyssenKrupp”.
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CAPITOLO 1 
 
REATI DI PERICOLO E ANTICIPAZIONE DELLA TUTELA    
PENALE 
 
1. Principio di offensività, concetto di pericolo e distinzione fra i 
c.d. reati di danno e reati di pericolo. 
 
Nel nostro sistema penale, il principio di offensività riveste senza 
dubbio un ruolo cardine. 
Si tratta di un principio, espresso con il brocardo latino “nullum 
crimen sine iniuria”, il quale impone che un fatto umano sia penalmente 
rilevante quando, oltre ad essere conforme a quanto previsto da una 
norma penale, è dotato di quella idoneità offensiva tale da ledere o 
porre in pericolo un certo bene giuridicamente tutelato.  
La ricostruzione del reato in termini di necessaria offensività 
costituisce una notevole forma di garanzia per il reo e segna il 
superamento della concezione del reato come mera disobbedienza 
(propria dei sistemi totalitari e repressivi) richiedendo che il fatto, oltre 
ad essere considerato in astratto come socialmente pericoloso dalla 
legge, si concretizzi altresì in una condotta che sia effettivamente lesiva. 
Il ruolo di garanzia svolto dal principio di offensività incide anche 
sul piano delle scelte sanzionatorie operate in sede legislativa, nonché 
sulla concreta determinazione della pena da parte del giudice penale; in 
questa ultima dimensione, il principio di offensività si atteggia a  
principio di proporzionalità in forza del quale la pena edittale deve 
essere proporzionata al reale grado di offesa e non alla condotta astratta 
realizza; da questo punto di vista la Corte costituzionale ha anche
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valorizzato la stretta connessione tra il principio di proporzionalità e il 
c.d. finalismo rieducativo della pena nel senso che il primo costituisce 
corollario del secondo (se la pena non è congrua non viene avvertita 
come "giusta" dal condannato); emblematico è il caso la censura del 
reato di oltraggio ex art 341 c.p. che in violazione degli artt. 3 e 27, 
comma 3, Cost. prevedeva come minimo edittale di pena 6 mesi di 
reclusione diversamente dai casi di offesa all'onore e alla dignità per i 
comuni cittadini.  
Il riconoscimento, nel nostro ordinamento, del principio di 
offensività non è stato da sempre condiviso ed accettato anche per la 
mancanza  di una norma di portata generale che espressamente sancisca 
la centralità del principio cui agganciare la previsione dell’offensività. 
Tuttavia, sebbene l’ordinamento sia carente di un siffatto dato 
normativo che ne riveli il fondamento e la portata, va evidenziata la 
presenza di alcune disposizioni - cui il diritto vivente fa spesso 
riferimento - che suggeriscono la presenza indefettibile e il ruolo 
primario del principio di offensività. 
Secondo una prima ricostruzione, esso affonderebbe le proprie 
radici nell’articolo 13 Cost. il quale, nel tutelare la libertà personale, 
comporta l’irrogazione di una sanzione penale limitativa di tale bene 
solo come reazione ad una condotta che offende un bene di pari rango; 
ciò ovviamente vale non solo quando si è in presenza di sanzioni che 
limitano la libertà personale, ma anche, alla luce del meccanismo della 
convertibilità di cui all’art  136 c.p., quando ricorra una semplice pena 
pecuniaria. 
Altro orientamento aggancia il fondamento costituzionale del 
principio in esame a quello di materialità affermando che l’art. 25 Cost., 
comma 2, nel subordinare la sanzione penale alla commissione di un
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<<fatto>>, implica che il legislatore punisca solo condotte materiali ed 
offensive e non le mere disobbedienze; inoltre, si afferma che il citato 
articolo, nell’assegnare funzioni distinte alla pena e alle misure di 
sicurezza, sanziona in maniera implicita solo comportamenti 
effettivamente offensivi garantendo quindi il cittadino da incriminazioni 
di comportamenti privi di disvalore penale. 
Altra dottrina richiama l’art. 27 Cost., comma 3, il quale assegna 
alla pena una funzione rieducativa il cui presupposto è la percezione per 
il condannato dell’antigiuridicità del proprio comportamento; ne segue 
che la condanna per condotte non offensive di alcun bene frusterebbe 
la suddetta funzione della pena. 
A livello di legge ordinaria, il fondamento del principio di 
offensività, viene rinvenuto nell’art. 49 c.p., comma 2, (sul reato 
impossibile) il quale esclude la punibilità quando, per “l’idoneità dell’azione 
o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.  
La dottrina tradizionale ha sempre interpretato questa norma come un 
<<doppione in negativo>> dell’art. 56 c.p. sulla figura del tentativo. 
Si è sostenuto che il reato impossibile configura un tentativo non 
idoneo e per tale motivo assolutamente non punibile (ma tale 
comunque da giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza).  
Questa interpretazione è stata però criticata sotto diversi punti di 
vista. In primo luogo si è obiettato che la previsione di due norme, 
sostanzialmente identiche, sarebbe un’anomalia legislativa difficilmente 
giustificabile (sarebbe irragionevole anteporre alla norma base anche il 
proprio doppione). A ciò si aggiunge che, mentre l’art. 56 c.p. si riferisce 
ai soli delitti, l’art. 49 c.p. riguarda più in genere i reati (e quindi anche le 
contravvenzioni). Infine si rileva che l’art. 59 parla di <<atti>>   
mentre l’art. 49 c.p. fa riferimento <<all’azione>>.
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Alla luce di queste critiche si è sostenuta l’autonomia strutturale e 
concettuale del reato impossibile rispetto al tentativo, fondando così la 
c.d. <<concezione realistica del reato>> per la quale la previsione di 
cui all’art. 49, comma 2 c.p., dimostra che può esistere un fatto del tutto 
conforme al tipo ma non offensivo dell’interesse tutelato; pertanto, la 
ricostruzione del reato, ai fini dell’applicazione della sanzione, va fatta 
non solo in termini di corrispondenza dell’azione al modello normativo 
astratto ma anche in termini di concreta lesione o messa in pericolo del 
bene giuridico tutelato. 
L’art. 49 c.p. confermerebbe, dunque, il principio costituzionale 
di offensività imponendo di interpretare in chiave offensiva i reati nei 
quali questa risulta come un elemento implicito; in altri termini, 
l’inidoneità dell’azione dovrà essere valutata dal giudice secondo un 
giudizio ex post che tenga conto della reale lesione o meno del bene 
protetto: se, a seguito di tale valutazione, il fatto risulta carente di una 
lesione allora si avrà un reato impossibile.  
Un ulteriore conferma della <<positivizzazione>> del principio 
di offensività è poi offerta dall’art. 115 c.p. che esclude la punibilità per 
le ipotesi di accordi o istigazioni non seguite dal reato. La norma 
conferma il principio per cui, ai fini dell’applicazione della pena, non sia 
sufficiente un’intenzione criminale ma sia necessaria una reale offesa del 
bene protetto; a tal proposito è significativa la conseguenza prevista 
della misura di sicurezza in evidente parallelismo con l’art. 49, ultimo 
comma. 
Sempre sul piano positivo, vi sono poi disposizioni processuali 
che prendono in considerazione il grado di offensività del bene protetto 
dalla norma incriminatrice dando in qualche modo diretta rilevanza 
all’offesa. E’ il caso dell’art. 27 del D.P.R. n. 448/1988 in tema di