6
famiglie. Gli altri 60.000, sulla base della documentazione custodita negli archivi 
dell’ex URSS, trovarono drammatica morte nelle fasi successive alla cattura a 
seguito delle marce dette del davai (avanti) e dei trasferimenti in treno (22.000 
circa) e nei primissimi mesi dell’internamento (38.000 circa). La percentuale di 
prigionieri dell’ARMIR restituita dall’URSS è stata pertanto bassissima (14,3%), 
assolutamente non raffrontabile alle percentuali di prigionieri italiani restituiti da 
Stati Uniti (99,8%), Impero britannico (98,6%), Francia (98,4%), Germania 
(94,4%),  Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia e Svizzera (90,6%). 
Ciò nondimeno era stata proprio la Radio sovietica all’indomani del 
completamento della ritirata dell’ARMIR a infondere tranquillità alle famiglie e 
alle Autorità italiane annunciando di aver catturato decine di migliaia di militari 
italiani. Le stesse Autorità sovietiche tuttavia, dopo tale iniziale informativa, 
fecero cadere sui prigionieri il silenzio assoluto anche dopo la ripresa dei rapporti 
diplomatici italo-sovietici, silenzio venuto meno solo in occasione del rimpatrio 
dei circa 10.000 prigionieri dell’ARMIR nel 1945-1946, e solo limitatamente ad 
essi, e proseguito per gli altri 85.000 dispersi (60.000 prigionieri e 25.000 caduti 
in combattimento) fino alla cessazione dello Stato sovietico, nonostante le 
reiterate richieste del governo italiano. 
Anche i dirigenti del Partito comunista italiano, rifugiati in Unione 
Sovietica all’epoca della disfatta dell’ARMIR, ebbero conoscenza diretta della 
sorte dei prigionieri dell’Armata italiana in virtù dei talora elevati incarichi 
ricoperti in quel Paese e per la prolungata opera di propaganda antifascista e 
proselitismo comunista da alcuni di essi svolta nei campi di prigionia. Quegli 
stessi dirigenti rientrati in Italia e assunte responsabilità di governo non portarono 
 7
a conoscenza della nazione (Autorità di governo, famiglie dei dispersi e, più in 
generale, la pubblica opinione) la dolorosa verità solo ad essi nota, ma si 
allinearono pedissequamente ed acriticamente alla linea del silenzio di Mosca. 
Se il PCI tacque, anche i governi di unità nazionale ebbero sul problema 
dei dispersi ARMIR un atteggiamento particolarmente cauto e sostanzialmente 
pragmatico dettato dalla volontà di preservare - al di là delle contrapposizioni 
partitiche - la loro coesione e ciò a ragione forse dei pesanti obblighi che 
sarebbero derivati all’Italia dal trattato di pace (obblighi che l’URSS avrebbe 
potuto contribuire ad alleviare) nonché dalla consapevolezza di dover affrontare 
importanti scadenze nazionali (pronuncia istituzionale e Assemblea Costituente). 
Per tali ragioni se da un lato i governi di unità nazionale sembrarono accogliere le 
istanze avanzate dalle famiglie e dall’opinione pubblica sulla sorte dei dispersi 
dell’ARMIR, nei fatti evitarono che tali istanze si riverberassero nei rapporti con 
l’URSS (e con il PCI) e, conseguentemente, relegarono il problema dei dispersi in 
ambito diplomatico e, dove ciò non fu possibile, non esitarono a ricorrere al 
silenzio, come nel novembre 1944, allorché il capo del governo Bonomi occultò al 
Paese la notizia importantissima quanto dolorosissima che in URSS era rimasto in 
vita un numero esiguo di prigionieri militari italiani. Quanto già noto al governo 
Bonomi trovò conferma con il rimpatrio negli anni 1945-1946 di poco più di 
10.000 reduci ARMIR e con la dichiarazione ufficiale del governo sovietico che 
in URSS non vi erano più prigionieri militari italiani, eccetto poche decine 
trattenuti perché sospettati di crimini di guerra. Se il limitato numero di prigionieri 
ARMIR restituito non ebbe immediate conseguenze nei rapporti italo-sovietici né 
ripercussioni nella compagine governativa, ne ebbe invece a livello di pubblica 
 8
opinione che, delusa per l’esiguità di militari restituiti rispetto alle aspettative, 
cominciò a manifestare per la prima volta diffusi sentimenti di ostilità sia nei 
confronti dell’URSS che del PCI. 
Però ormai grandi mutamenti si andavano delineando in campo 
internazionale con lo scoppio della “guerra fredda” ed essi non potevano non 
riflettersi nella politica interna ed estera italiana e pertanto, inevitabilmente, sulla 
soluzione del problema dei dispersi, soluzione che la svolta di campo occidentale 
attuata da De Gasperi e l’allontanamento del PCI dal governo rendevano, al 
momento, obiettivamente ancora più difficile. 
Il silenzio dell’URSS sui 75.000 dispersi dell’ARMIR (tale era la stima dei 
dispersi all’epoca) tornò particolarmente utile nelle importantissime elezioni 
politiche dell’aprile 1948 dove esso fu ampiamente ed efficacemente utilizzato 
propagandisticamente dai partiti anticomunisti per colpire l’URSS e di riflesso 
l’immagine del PCI, anche con attacchi diretti ai suoi dirigenti (processo 
D’Onofrio). 
L’azione del governo italiano sul problema dell’ARMIR, di fronte al 
categorico rifiuto delle Autorità sovietiche di aprire una qualsivoglia trattativa sui 
75.000 militari dell’Armata italiana non restituiti, si concentrò sulla liberazione 
delle poche decine di prigionieri dell’ARMIR condannati per crimini di guerra 
ottenendone la liberazione nel 1954. Solo con la cessazione dello Stato sovietico 
nel 1991 e il conseguente accesso ai relativi archivi segreti la sorte degli 85.000 
(la cifra reale successivamente accertata) dispersi è stata svelata in tutta la sua 
tragicità. 
 9
 Il tema di fondo di questa indagine, articolata in quattro capitoli, riguarda 
la vicenda dei militari dell’ARMIR rimasti in territorio russo in conseguenza della 
vittoriosa offensiva contro l’Armata italiana sferrata dai comandi sovietici nel 
dicembre 1942 - gennaio 1943 ed ha come scopo primario di aggiungere un 
ulteriore contributo alla comprensione della vicenda attraverso l’apporto delle 
carte diplomatiche - per larga parte inedite - dell’Archivio storico-diplomatico 
italiano del ministero degli Esteri, dal marzo 1944 (ripresa rapporti diplomatici 
italo-sovietici) al febbraio 1954 (rimpatrio dall’URSS degli ultimi prigionieri 
ARMIR) e attraverso il contributo storiografico e memorialistico sull’argomento. 
Il filo conduttore dell’intero lavoro sarà costituito in particolare dal ruolo che nella 
vicenda hanno avuto a vari livelli di responsabilità l’URSS, il governo italiano, la 
rappresentanza diplomatica italiana a Mosca e, infine, il PCI. 
 Il primo capitolo sarà essenzialmente un capitolo introduttivo, in cui si 
cercherà di illustrare le circostanze che portarono alla guerra tra Germania e 
Unione Sovietica e alla partecipazione italiana al conflitto. Inoltre si cercherà di 
illustrare la realtà sovietica nei primi anni del dopoguerra e i rapporti italo-
sovietici dalla ripresa dei rapporti diplomatici al rimpatrio dell’ultimo consistente 
scaglione di prigionieri dell’ARMIR. 
 10
Nei capitoli successivi invece si cercherà di dimostrare le seguenti tesi: 
 
1. La conoscenza del governo italiano del limitato numero di prigionieri 
ARMIR trattenuti in URSS e le ragioni della sua occultazione al Paese. 
Per dimostrare questa tesi si prenderanno in esame le missive 
sull’argomento inviate dal vicepresidente della Camera dei deputati 
Giuseppe Micheli al capo del governo Bonomi e all’Alto commissario per 
i prigionieri, generale Pietro Gazzera, e se ne verificheranno i riscontri 
nelle carte diplomatiche e nella pubblicistica. 
2. I limiti di intervento della diplomazia italiana a Mosca sui dispersi 
dell’ARMIR. Gli argomenti che si utilizzeranno per verificare questa 
ipotesi verranno desunti dal carteggio diplomatico dei tre diplomatici 
avvicendatisi nel dopoguerra a Mosca e dalle memorie di due di essi. 
3. La conoscenza del PCI sulla sorte dei dispersi e la scelta di mantenere il 
silenzio su di essi. Per dimostrare questo assunto si prenderanno in esame i 
comportamenti assunti dai dirigenti del PCI  in Italia e in URSS a riguardo 
dei prigionieri dell’ARMIR. 
4. L’impossibilità per le Autorità sovietiche di preservare la vita a larga parte 
dei militari dell’ARMIR arresisi e presi in custodia e la necessità del 
silenzio sugli 85.000 dispersi. Gli argomenti che verranno utilizzati per 
queste ultime due tesi sono stati desunti dalle testimonianze dei reduci e 
dalla storiografia sul tema. 
 11
Capitolo primo 
 
 
1.1 L’Operazione Barbarossa. 
 
 
Il patto tra la Germania nazional-socialista e la Russia bolscevica firmato il 
23 agosto 1939 dai ministri degli Esteri Joachim von Ribbentrop
1
 e Vjačeslav 
Molotov
2
 è considerato in genere dagli storici come chiave di volta della politica 
espansionistica hitleriana: apre infatti la strada all’invasione della Polonia e allo 
stesso tempo porta con sé i germi del futuro scontro tra Germania e Unione 
Sovietica. Il patto prevedeva la non aggressione tra i due Stati, scambi 
commerciali e un protocollo (segreto) di delimitazioni di zone d’influenza e di 
spartizioni territoriali. 
Nei giorni antecedenti la firma dell’accordo, Stalin, nonostante l’URSS 
fosse stata l’anno prima esclusa dagli accordi di Monaco
3
, aveva tentato 
nuovamente di uscire dall’isolamento continentale cercando di raggiungere, sul 
problema di Danzica, un’intesa antitedesca con la stessa Polonia e con Francia e 
Gran Bretagna. L’ambiguo atteggiamento anglo-francese nelle trattative confermò 
                                                 
1
 Joachim von Ribbentrop (1893-1946) iscritto al partito nazista (1932), ambasciatore a Londra 
(1936), ministro degli Esteri (1938). Processato a Norimberga fu condannato a morte e impiccato 
(1946). 
2
 Molotov, pseudonimo di Vjačeslav Michajlovič Skrjabin (1890-1986) Presidente del consiglio 
dei commissari del popolo (1930-1941), ministro degli Esteri (1939-1949 e 1953-1956). Dopo la 
morte di Stalin fu il principale esponente del cosiddetto gruppo “antipartito” che si oppose a 
Chruščëv. Privato di tutte le cariche politiche (1957) fu espulso dal PCUS (1961).    
3
 Il Patto di Monaco del settembre 1938 tra Germania, Italia, Francia e Inghilterra sancì la cessione 
alla Germania da parte della Cecoslovacchia (ingiustificatamente esclusa dalle trattative) del 
territorio dei Sudeti, abitato in prevalenza da cittadini di lingua tedesca. 
 12
i dubbi di Stalin sul fatto che i due interlocutori non avrebbero mai tenuto testa 
alla Germania
4
. 
La parte del trattato resa pubblica contemplava l’impegno dei due 
contraenti di non attaccarsi. Se uno di essi, inoltre, fosse stato oggetto di 
aggressione da parte di una terza Potenza, l’altro non avrebbe dato in alcun modo 
appoggio a questa terza Potenza. L’accordo era provvisto anche di un protocollo 
segreto che prevedeva la spartizione della Polonia e degli Stati baltici (alla 
Germania la Lituania; all’Unione Sovietica la Lettonia e l’Estonia) e l’opzione 
sovietica per la Bessarabia rumena e la Finlandia
5
. Ancora una volta, come ai 
tempi dei re prussiani e degli imperatori russi, Germania e Russia si erano 
accordate sulla spartizione (la quarta) della Polonia
6
. 
Una volta accordatosi con L’URSS, Hitler aveva finalmente la possibilità 
di portare a termine il progetto di invasione della Polonia senza correre alcun 
rischio sul fronte orientale. Anche Stalin doveva considerarsi soddisfatto visto che 
l’accordo prevedeva il reintegro nei confini russi della Bessarabia rumena e 
l’acquisizione della Bucovina settentrionale rumena, della Galizia ma soprattutto 
di alcune regioni della Bielorussia e dell’Ucraina, sottratte alla Russia dalla 
Polonia a seguito della guerra del 1920 (trattato di Riga del 18 marzo 1921)
7
. Nel 
corso dell’incontro del 27 settembre 1939, tenutosi a Mosca tra Molotov e 
Ribbentrop, per discutere dei problemi sorti dopo la spartizione della Polonia 
emersero, durante la trattativa, i primi dissidi tra i due Stati. La Lituania che, in 
base al trattato spettava alla Germania, fu richiesta inopinatamente da Stalin 
                                                 
4
 Cfr. Martin McCauley, Stalin e lo stalinismo, Bologna, il Mulino, 2000, p. 63. 
5
 Cfr. William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Torino, Einaudi, 1962, p. 586. 
6
 Ivi, p. 587. 
7
 Cfr. Anthony Read e David Fisher, L’abbraccio mortale, Milano, Rizzoli Libri, 1988, p. 296. 
 13
(divenuta poi effettivamente nel 1940 una Repubblica sovietica così come 
Lettonia ed Estonia). Il dittatore sovietico in cambio avrebbe ceduto alla 
Germania la parte della Polonia comprendente Varsavia, spettante come da 
accordi all’URSS.
8
  
Il fatto che alla fine Hitler desse il consenso a cedere con tanta 
arrendevolezza un territorio, la Lituania, importantissimo strategicamente per la 
Germania, ebbe come risultato l’emergere di ulteriori sospetti da parte del 
dittatore sovietico sulle reali intenzioni del “collega” tedesco. Stalin, presente alla 
trattativa, non si lasciò ingannare dalla facilità con cui era riuscito ad ottenere ciò 
che aveva chiesto: “fu infatti sentito dire, rivolto a Molotov, che Hitler, dandogli 
la Lituania, in effetti aveva dichiarato guerra all’URSS. Stalin capiva fin troppo 
bene che l’unica ragione per cui Hitler si era comportato in quel modo era che 
intendeva riprendersela non appena fosse giunto il momento opportuno”
9
. Alla 
fine della trattativa, quando Ribbentrop proclamò che i russi e i tedeschi non 
avrebbero più dovuto scontrarsi, Stalin non rispose, poi disse semplicemente: “Le 
cose dovrebbero andare proprio così”
10
. Alcuni storici hanno cercato di mettere in 
luce la figura di Stalin e la propria celata convinzione del più o meno imminente 
attacco nazista all’Unione Sovietica. La teoria non è stata ancora suffragata da 
documenti ufficiali bensì solamente da testimonianze di stretti collaboratori quale 
quella di Nikita Chruščëv riportata in Khrushchev Remembers: The Glasnost 
Tapes in cui è riferita la significativa dichiarazione di Stalin, prima dell’invasione 
                                                 
8
 Ivi, p. 408. 
9
 Ivi, p. 412. 
10
 Ivi. p. 413. 
 14
tedesca, dinnanzi al Politbjuro: “Hitler crede di ingannarci, ma penso che noi 
vinceremo”
11
. 
Il 22 giugno del 1941 Hitler, smentendo le previsioni di Stalin (sorpreso 
per l’anticipo, ma non per l’attacco)
12
, ordinò l’invasione dell’Unione Sovietica 
con l’operazione denominata Barbarossa. Nelle prime ore di quella giornata 
avevano preso posizione lungo un fronte che andava dalla Finlandia alla Romania 
le più grandi forze d’invasione mai riunite: più di tre milioni di uomini, 
organizzati in 146 divisioni tedesche, 14 divisioni rumene e unità finlandesi, 
appoggiate da 2000 aerei, 3350 carri armati e 700.000 cavalli
13
. Sul versante 
opposto l’Armata Rossa schierava (a dimostrazione del timore di una possibile 
aggressione tedesca) quasi tre milioni di uomini
14
. 
L’avanzata tedesca fu inarrestabile. Prima della fine della giornata del 22 
giugno l’aviazione del Reich aveva distrutto a terra 1200 aereoplani sovietici 
conquistando così la superiorità aerea. Nel frattempo le truppe motorizzate 
facevano irruzione attraverso la frontiera e avanzavano profondamente all’interno, 
cogliendo ovunque i russi di sorpresa, tranne che nel fronte sud, dove la fanteria 
tedesca si scontrò con una difesa più accanita
15
. 
Fin dall’inizio il conflitto si caratterizzò per la sua estrema ferocia, 
assumendo un tono di crociata anti-bolscevica ma soprattutto anti-slava che non 
risparmiò né civili né prigionieri. La guerra era vista dal dittatore tedesco come un 
conflitto ideologico-razziale in cui la superiore razza ariano-germanica era 
                                                 
11
Cit. da Robert Service, Storia della Russia nel XX secolo, Cerbara - Città di Castello, Editori 
Riuniti, 1999, p. 280. 
12
 Berija disse a Stalin che “continuava (Berija) a ricordare la sua (di Stalin) saggia profezia: Hitler 
non ci attaccherà nel 1941” Cfr. Robert Service, Storia della Russia nel XX secolo, cit. , p. 280. 
13
Cfr. Richard Overy, Russia in guerra 1941-1945, Milano, il Saggiatore, 2000, pp. 87 e 88. 
14
 Cfr. Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Milano, Mondadori, 1976, p. 33. 
15
 Cfr. Alexander Bevin, Hitler poteva vincere, Casale Monferrato, Piemme, 2002, p. 141. 
 15
contrapposta a quella inferiore slavo-russa. Le garanzie di Ginevra e l’opera della 
Croce Rossa furono pertanto escluse da quel teatro di guerra. Fu tollerato, e in 
alcuni casi persino incoraggiato e non punito, il crimine di guerra, l’assassinio di 
massa a danno di civili inermi e prigionieri
16
. Tale comportamento criminale si 
ricollegava ai piani tedeschi sul futuro assetto del territorio orientale una volta 
conquistato (anche la Bielorussia e l’Ucraina rientravano nei piani di espansione 
di Hitler. Da tempo peraltro il regime nazista, in gara con quello fascista, 
sosteneva i nazionalisti ucraini che aspiravano a costituire un’Ucraina 
indipendente da Mosca). Secondo alcune fonti storiografiche, sulla base del 
progetto redatto prima dell’invasione (marzo 1941) dallo «Stato maggiore per 
l’economia bellica dell’est» (Wehrwirtschaftsstab Ost), “sarebbero potuti 
rimanere soltanto circa 14 milioni di russi, mentre la rimanente popolazione, 
indicata in diverse decine di milioni, sarebbe morta oppure cacciata verso est. 
Nella regione fino al Volga si sarebbero insediati i tedeschi del Volga ai quali i 14 
milioni di russi rimasti sarebbero serviti da schiavi […] L’obiettivo era un impero 
orientale controllato dalla Germania sul piano politico, ideologico-razziale ed 
economico, con il compito di assicurare l’alleggerimento della Germania nel 
settore delle materie prime [...] Si sarebbe creato quindi un baluardo euro-
continentale a prova di blocco economico, geograficamente compatto che avrebbe 
permesso di sostenere una lunga guerra contro le Potenze anglosassoni, 
soprattutto contro gli USA (di cui si poteva prevedere l’entrata in guerra a fianco 
dell’Inghilterra)
17
. 
                                                 
16
 Ivi, p. 127. 
17
 Cit. Piermario Bologna e Michele Calandri, Gli italiani sul fronte russo, Istituto Storico della 
Resistenza in Cuneo e Provincia, saggio di Klaus Reinhardt, La strategia di Hitler nella guerra 
contro l’Unione Sovietica, Bari, De Donato, 1982, p. 145 (Sulla struttura e sul modo di operare del 
 16
Se nelle prime settimane i russi si dimostrarono più facili alla resa, ciò lo si 
doveva alla non conoscenza del trattamento riservato ai prigionieri dai tedeschi. 
Nel peggiore dei casi infatti il soldato sovietico veniva ucciso appena catturato 
(sembra che durante la guerra sul fronte orientale le sole forze armate tedesche 
abbiano giustiziato qualcosa come 600.000 prigionieri)
18
. Nel migliore dei casi 
veniva avviato nei campi di lavoro forzato del Reich dove il tasso di mortalità per 
i prigionieri sovietici raggiungeva il 60%, il doppio del tasso di mortalità di quelli 
tedeschi in mano russa (nettamente migliore è stato, invece, il trattamento 
riservato dai tedeschi ai prigionieri anglosassoni, la cui sopravvivenza fu del 
94%)
19
. 
L’Operazione Barbarossa prevedeva tre direttrici di attacco: a nord, 
partendo dalla Prussia orientale e dalla Finlandia, attraversare i Paesi Baltici e 
puntare su Leningrado; al centro partendo dalla Polonia, attraversare la 
Bielorussia conquistando Minsk, per poi raggiungere Mosca; a sud partendo dalla 
Polonia e dalla Romania puntare verso Kiev e il granaio ucraino. Obiettivo finale 
(da raggiungere entro otto settimane) la conquista di tutta la Russia europea lungo 
la direttrice A-A, cioè da Arcangelo nel mar Glaciale artico a Astrachan nel mar 
Caspio
20
. La prima fase dell’Operazione Barbarossa fu completata con successo, 
ma poi i tedeschi ebbero un’esitazione e cambiarono obiettivi. Hitler era sempre 
dell’opinione di colpire Leningrado, lo Stato maggiore invece insisteva sullo 
spingersi subito fino a Mosca (la conquista della capitale, centro nevralgico del 
                                                                                                                                     
Wehrwirtschaftsstab Ost si vedano gli atti del processo contro i criminali di guerra, in IMT, 
XXVIII, doc. 1743-PS pp. 3-15). 
18
 Cfr. Richard Overy, Russia in guerra 1941-1945, cit. , p. 100. Si veda anche Omer Bartov, 
Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945), Bologna, il 
Mulino, 2003, pp. 132-145. 
19
 Cfr. Harold Evans, The american century, London, Jonathan Cape, 1998, p.361. 
20
 Cfr. Martin McCauley, Stalin e lo stalinismo, cit. , p. 86. 
 17
Paese, avrebbe messo fuori uso tutte le comunicazioni, mentre la conquista di 
Leningrado, la città di Lenin, avrebbe rappresentato una vittoria psicologica). Il 21 
agosto Hitler, contro il parere del suo Stato maggiore, modificò i piani strategici: 
Leningrado anziché essere conquistata immediatamente, doveva essere assediata e 
presa per fame. La conquista di Mosca era ritardata. Ordinava pertanto che parte 
delle forze destinate a Leningrado e a Mosca venissero trasferite sul fronte 
meridionale dove si sarebbero aggiunte alle forze già in loco, per accelerare la 
conquista dell’Ucraina (d’importanza primaria a livello alimentare e minerario) e 
raggiungere i pozzi petroliferi di Baku (fondamentali per il prosieguo della 
guerra)
21
.  
Nel corso dei primi mesi di guerra emerse chiaramente che i due assiomi 
su cui la strategia tedesca si era fondata erano clamorosamente venuti meno: il 
primo, che le armate tedesche avrebbero annientato completamente le armate 
russe nel giro di poche settimane; il secondo che la sconfitta delle armate 
sovietiche avrebbe portato alla caduta di Stalin e del regime. Sia Halder
22
che 
Hitler avevano sottovalutato il potenziale umano e la forza dell’Armata Rossa. 
Lungi dal minare le posizioni di Stalin e la stabilità del regime, la crudeltà e la 
ferocia dimostrate dall’invasore erano servite a rinforzare ulteriormente il suo 
potere e la permanenza dei comunisti alla guida del Paese
23
. Soprattutto, Stalin e i 
suoi collaboratori al vertice dello Stato sovietico avevano opportunamente fatto 
appello allo spirito patriottico, non disprezzando neppure il concorso della Chiesa 
ortodossa, piuttosto che insistere sulle motivazioni di ordine ideologico che 
sarebbero servite meno a galvanizzare i cittadini sovietici. 
                                                 
21
 Ivi, p. 87. 
22
 Capo di stato maggiore dell’Esercito tedesco dal 1938 al 1942. 
23
 Cfr. Ronald Seth, Operazione Barbarossa, Azzate, Sugar, 1964, p. 95.