1.3 – IL MONASTERO AI TEMPI DELLA RUSCA
Concentrando ora la nostra attenzione sul periodo in cui visse Suor Rusca (sec. XVII),
possiamo dire che il monastero di S. Caterina era, a quel tempo, frequentato da più di 80
persone, comprese, oltre alle suore, le educande e le addette ai servizi.
Dalle numerose documentazioni sulle monacazioni del ‘600, risulta che l’ingresso in
monastero costasse circa L. 4000. Non era una cifra particolarmente consistente, ma
sicuramente solo famiglie di ceto medio potevano permetterselo. Una volta versata questa
somma, però, la famiglia non doveva più sostenere altre spese per la figlia monaca, a
differenza del matrimonio che, oltre al notevole investimento di denari per la cerimonia,
comportava continui sostentamenti. Inoltre, elemento di fondamentale importanza, la
monacazione escludeva la figlia dall’eredità dei possedimenti familiari.
In alcuni casi la dote per l’ingresso in monastero poteva avere degli “sconti” se la futura
sorella aveva delle doti o virtù particolari; è il caso delle monache musiciste (generalmente
organiste) che si ritrovavano frequentemente nei monasteri bolognesi (Angela Venturoli venne
presa in convento per L. 1000 invece di L.4000 perché potesse svolgere il ruolo di organista e
di insegnante di canto).
Ma il vero problema dell’ingresso in monastero non era certo il lato economico, ma bensì, le
motivazioni che spingevano le ragazze ad affrontare una vita così particolare. Solitamente la
monacazione era forzata dalla volontà della famiglia (più spesso solo dal padre…la madre era
tacita spettatrice), e raramente per vocazione. Alcune testimonianze sono molto esplicite a
riguardo (ne abbiano parlato anche prima in merito a Marianna de Leyva) tra cui risalta la
storia di Arcangela Tarabotti
11
. Attraverso i suoi scritti denunciò pubblicamente la forzatura
delle monacazioni. La passione per la letteratura profana e la visione che ebbe di Dio che la
invitava a dedicarsi alla scrittura, la portò a compilare il libro “L’inferno monacale” che non
venne mai pubblicato durante la sua vita e che solo nel ‘900 venne riscoperto.
11
Il vero nome è Tarabotti Elena, nata a Venezia nel 1605 e morta nel 1652. Prese i voti a sedici anni e cambiò il
nome in Arcangela. Dal carattere particolarmente ribelle e scontenta della vita monacale, si diede alla letteratura
pubblicando alcuni libri, tra cui il più importante è : “L’inferno monacale”. In tarda età accettò le condizioni di
vita del monastero e scrisse “ Paradiso monacale”. Molto importanti sono le “lettere” del 1650, raccolta
epistolare molto vasta.
21
Una testimonianza musicale molto interessante sulla condizione delle monache è quella
riportata nel MS “Escorial IV a 24” conservato alla biblioteca dell’Escorial a Madrid. Questa
raccolta di musiche profane del secondo ‘400 comprende una composizione dal titolo: “Hora
may che fora son” di autore anonimo. La musica venne eseguita anche durante la cerimonia
del matrimonio tra Alfonso Duca di Calabria e Ippolita Sforza nel 1465 a Siena, un raro
esempio di musica a quattro parti, molto probabilmente con strumenti d’alta cappella che ben
si adattano ad esecuzioni all’aperto. Su questa musica è stato aggiunto un testo profano come
rivestimento ad un precedente testo laudistico. Il primo, preso da una raccolta di poesie
popolari del ‘400, ci racconta uno spaccato di vita monacale e la volontà di una suora di
gettare le vesti:
Hora may che fora son
Non voio esser più monica
Arsa li sia la tonica
E chi se la veste più.
Stava ne lo monastero
Chomo una cosa perduta
Senza alcuno refrigerio
Non vedea ne era veduta.
Hora may che sono usita
Non voio essere più monicha
Arsa li sia la tonicha
E chi se la veste più
Soro mia: po' ca son suta,
Suta fora de l'inferno
Damo gran festa e gaudiamo
Bona vita e bon governo.
Que si campase in eterno
Non voio esser più monicha
Arsa li sia la tonicha
E chi se la veste più.
Soro mia vi che ti diqua
Ffrat'e pret' e seculari
Cuy me vole per amica
Bazunya aga dinare.
Que ma voio maritare
Non voio esser più monicha
Arsa li sia la tonicha...
E chi se la veste più.
Soro mia: io maritere
Me vorrìa si potesse.
Senza roba e dinare
Non se cantano le messe.
.
22
Tornando alla relazione tra i monasteri e le ricche famiglie del paese, se da una parte i primi
avevano i loro interessi a legarsi a queste famiglie, anche quest’ultime avevano i loro
tornaconti. Si trattava di conservare un posto in monastero che poteva tornare utile ad altri
membri della famiglia e, attraverso i “legati di messa”, permettevano il benessere della propria
anima dopo la morte. Questi “legati” garantivano un certo numero di messe dette a nome del
contrattuale per un periodo di anni. La famiglia (o anche il singolo individuo) lasciava al
monastero un bene liquido o immobile la cui rendita era utilizzata per le spese organizzative
delle celebrazioni. Oltre agli introiti del bene, il monastero usufruiva anche delle offerte ( a
volte cospicue) che lasciavano i familiari del defunto.
L’organizzazione di tali cerimonie doveva attenersi alle richieste espresse nel contratto. Se il
personaggio in questione desiderava un coro durante la celebrazione, per l’intonazione di
salmi, o la presenza di un particolare chierico o di particolari addobbi, le spese sarebbero state
superiori. Col passare degli anni l’impegno preso dal monastero diminuì fino all’estinzione
totale, a causa di difficoltà organizzative e per il divario tra le sempre più crescenti spese per la
messa e il costante introito dai beni lasciati.
Nel XVII secolo comparve un “legato di messa” di un tal Carlo Francesco Rusca,
probabilmente zio di Claudia Francesca, che chiese 260 messe all’anno per 354 lire. Proprio
da uno di questi “legati” della famiglia Rusca, si scoprì che attraverso l’investitura di un bene
di Fagnano nel 1626, si conobbe l’ingresso in monastero della Rusca. Ma prima di allora il suo
nome comparve in altri contratti simili e il più antico fu quello del 1620. Se questa operazione
economica servì alla famiglia Rusca per la monacazione di Claudia Francesca, si presume che
abbia preso le vesti intorno al 1618-1620….quindi a 24 anni circa! Questo lascia spazio a
diverse interpretazioni: la prima, che non obbligatoriamente l’investitura del bene sia stata
utilizzata per la presa dei voti, oppure che la Rusca non sia nata nel 1593 o, infine, che sia
entrata in monastero a tarda età proprio per meriti musicali.
Il monastero di Santa Caterina venne annesso a quello di S. Erasmo nel 1778. Siamo in un
periodo di grosse difficoltà per i monasteri milanesi. Nel 1769 24 su 47 avevano un bilancio
fortemente negativo. Questo e altri motivi porteranno le autorità ecclesiastiche a cominciare a
smantellarne le organizzazioni fino alla loro soppressione. Quello di Santa Caterina
sopravvisse alla crisi, anche grazie al bilancio economico positivo (caso eccezionale) e in virtù
di questo “benessere” dovettero accogliere ben 31 sorelle del monastro di S. Erasmo, da
aggiungersi alle 52 già presenti. La priora Teresa Margherita Beccaria scriveva al vicario delle
monache denunciando “…le monache converse sono costrette a travagliare per il pranzo e
23
per la cena con fornelli posticci all’aria aperta…” e “…un considerato notabile maggior
consumo di legna…”.
Il 31 marzo del 1786 il monastero di Santa Caterina venne definitivamente soppresso.
L’amministratore del vacante fornì il bilancio delle entrate e delle uscite e si occupò anche
della riscossione dei crediti e dei canoni d’affitto.
Una parte dell’utile venne utilizzato per le pensioni delle monache che in quell’anno erano 47.
Alle sorelle venne offerta l’alternativa di trasformare il monastero in una sorta di scuola in cui
si impegnassero ad educare le fanciulle del paese nei lavori domestici e altre mansioni simili.
Le monache scelsero la soppressione del monastero. A questo punto poterono decidere se
tornare a vivere in famiglia o presso un benefattore; oppure entrare in altri monasteri o nelle
Regie case. Ognuna di queste scelte venne ricompensata da una pensione.
Va da sé che, a parte la questione economica, il danno subito dalle monache era perlopiù
morale. Abituate a vivere in comunità, solo tra donne, senza un reale lavoro, con scarsissimi
contatti con la società laica, ma soprattutto abituate a vivere in un ambiente fortemente
spirituale, dove il silenzio scandiva il ritmo delle giornate, il ritrovarsi tutto ad un tratto a
doversi separare e riorganizzarsi la vita secondo schemi estremamente diversi fu per loro
fonte di gran dolore. Inoltre, la società del tempo non offriva alle donne grandi possibilità di
realizzazione lavorativa; spesso l’alternativa alla vita in monastero era solo il matrimonio. Il
monastero di Santa Caterina fu venduto al conte Emanuele di Kevenhuller, questa è l’ultima
notizia in proposito. Tutt’oggi non ne rimane nulla se non il giardino che fa parte dell’attuale
orto botanico.
Nelle fig. 4, 5 e 6 vengono riportate la pianta del Monastero
12
, tratta dal disegno dell’ing.
Carlo Francesco Ferrari del 22 maggio 1786 presa dall’Archivio di Stato di Milano, Fondi
Camerali.
12
Presa dalla tesi di A. FARÈ: op. cit.
24
Fig. 4
25
Fig. 5
26
Fig. 6
27
2 – I CARTEGGI DEL CARDINALE FEDERICO BORROMEO
Federico Borromeo (nato a Milano nel 1564 e morto nel 1631), cugino di Carlo
Borromeo
13
, fu una figura molto importante nell’ambito della vita delle monache di clausura.
Il suo predecessore Carlo, uno dei fautori del Concilio di Trento, oltre alla revisione delle
regole della vita di clausura , che prevedeva l’innalzamento dei muri di cinta e la totale
chiusura alle visite esterne, pose severe limitazioni anche in campo musicale. Il timore di
tumulti all’interno dei monasteri a causa del divieto di suonare l’organo, lo portò a decidere
che ad impartire lezioni di organo si chiamasse qualche anziano organista del paese di
irreprensibile vita, che svolgesse il proprio compito dal parlatorio esterno con le suore nella
parte interna. Si raccomandava che ogni monaca avesse il proprio clavicordo e che non ci
fossero contatti di nessun tipo con l’anziano maestro organista. Ovviamente ogni abuso veniva
punito severamente. A Suor Angela Serafina, che aveva offerto del cibo al maestro, le venne
vietato di tenere il cembalo in camera per tre mesi e di suonare polifonia per tre anni. A
Prospera Bascapè e alle sue amiche suore, colte ad intonare due “Canti alla bergamasca” che
“..avevano in intavolatura, le più dishoneste parole si dicono, et le monache cantavano cioè le
stesse canzone tra loro, et si tiene fosser mandate dai frati..”, fu vietato di cantar polifonia per
sei anni. Va detto che spesso queste restrizioni non venivano poi applicate dalle monache
poichè la vita di clausura permetteva loro di non essere facilmente controllabili dall’esterno.
Quest’eccessivo uso punitivo in campo musicale ci ostenta una politica restrittiva molto
evidente. Se da una parte Carlo Borromeo si mostrò anche interessato alla vita musicale nelle
13
Carlo Borromeo, nato nel 1538 ad Arona e morto a Milano nel 1584. Di famiglia nobile e ricchissima divenne
cardinale di Milano. Insieme allo zio Papa Pio IV formularono le sessioni dell’ultima parte del Concilio di Trento
(1562-1563), ove si parla della musica (sessione XXII): [Tutto deve essere regolato in modo tale che, sia che le
messe si celebrino parlando sia cantando, ogni cosa,chiaramente ed opportunamente pronunciata, scenda
dolcemente nelle orecchie e nei cuori degli uditori. Quanto alle cose che si suole trattare con musica polifonica o
con l’organo, nulla vi deve essere di profano in esse, sì soltanto inni e divine lodi […] In ogni modo, tutta questa
maniera di salmodiare in musica non deve essere composta per un vacuo diletto delle orecchie, bensì in modo
tale che le parole siano percepite da tutti (ut verba ab omnibus percipi possint), affinché i cuori degli ascoltatori
siano conquistati dal desiderio delle armonie celesti e dal gaudio della contemplazione dei beati […] Espellano
dalla chiesa quelle musiche, nelle quali, sia tramite l’organo sia tramite il canto, si mescoli alcunché di lascivo e
d’impuro […] sì che la casa di Dio sembri e possa esser detta veramente la casa della preghiera]. Ma si parla
anche delle nuove regolamentazioni dei monasteri (sessione 25 del 1563 ). Al suo arrivo a Milano nel 1565
riordinò la città dalla situazione di degrado culturale e religioso. I suoi tentativi di regolamentazione investirono
anche l’ordine degli umiliati in quanto, secondo lui, si stava sempre più allontanando dal pensiero cattolico.
Combattè anche il protestantesimo nella svizzera tedesca, soprattutto nelle valli dove si stava diffondendo la
stregoneria e l’eretismo. Intensificò il rapporto con le varie curie anche attraverso le visite pastorali. La sua
umiltà e castità, nonché lo spiccato senso assistenziale, lo portarono alla canonizzazione nel 1610.
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grandi città, dall’altra si evince la sua intenzione di limitare la pratica musicale nei
monasteri, soprattutto in quelli femminili. La musica, soprattutto quella polifonica e
strumentale, poteva suscitare pensieri non in linea con la condotta di vita spirituale, ma questa
era anche uno dei pochi svaghi nella vita di queste suore e il rinunciare a praticarla costava
molta fatica.
Alla morte di Carlo l’ambiente musicale nei monasteri si rilassò molto anche e soprattutto
grazie all’intervento del cugino, Federico Borromeo, che tra le prime cose approvò la
riduzione della “dote spirituale” per quelle novizie promettenti (sarà il caso anche della
Rusca).
Oltre alla sua ben nota carriera in ambito ecclesiale Federico Borromeo si è distinto nella
storia per alcune opere prestigiose: in primis l’istituzione del “Collegio Ambrosiano” e della
“Biblioteca Ambrosiana”. Proprio attraverso quest’ultima si è potuto risalire alle fonti della
maggior parte dei documenti relativi al presente lavoro, comprese quelle musicali.
Nella sua città natale difese con fervore il rito ambrosiano e continuò l’opera di riforma
cattolica già avviata dal cugino. E come lui si occupò molto anche dell’attività caritativa,
soprattutto nei periodo della peste (1630).
Sulla sua personalità i numerosi biografi e ricercatori si sono divisi in opinioni contrastanti Il
Guenzati
14
e il Rivola
15
lo descrissero come uomo “tutto fuoco nel temperamento” e di “natura
calda e collerica”. Il Manzoni, che lo elogiò dedicandogli quasi l’intero capitolo XXII dei
“Promessi sposi”, lo citò come uomo dall’indole viva e risentita ma anche con una grande
capacità di vincere e dominare le sue ire. Una visione più moderna fu quella di Bell,
16
che
analizzò lo scritto di Borromeo: “Vita della venerabile serva di Dio suor Caterina Vannini di
Siena” e ci illustrò un personaggio dal tratto psicologico molto diverso da quello descritto dal
Manzoni. Secondo Bell non era così “razionale e insensibile ai vezzi femminili…ma invece
pieno di turbamenti, incline alla malinconia e bisognoso di affetti e attenzioni…”.Le sue
lettere con le monache, il suo controllo sulla loro esistenza, sulla loro condizione spirituale e
psicologica e la necessità di mantenere segreti questi rapporti epistolari, delineavano un uomo
lacerato da forti tensioni esistenziali.
14
G. BIAGIO, “Vita di Federico Borromeo cardinale di S. Maria degli Angeli”, (inedito della fine del ‘600, nel
codice G 137 inf. della Biblioteca Ambrosiana).
15
Rivola, Francesco, “Vita di Federico Borromeo”, Milano, 1656
16
R.M. BELL, “La santa anoressia”Bari, 1998.
30
A parte questi aspetti, della sua vita risaltarono anche interessi per l’arte, per la scienza e per
la scrittura. Lasciò molte opere, tra cui “De pictura sacra” ove viene evidenziato il suo amore
per quest’arte; tra le sue corrispondenze ve ne sono alcune con il Brueghel in qualità di
consigliere e frequentò anche il Rubens. Scrisse anche di musica all’interno di alcune sue
opere, come in “Delle laudi divine”. A proposito di musica nella biografia di Giovanni Maria
Vercelloni
17
si dice che il cardinale, durante il soggiorno a Bologna in giovane età, suonava il
liuto con perizia, ma una volta divenuto arcivescovo donò lo strumento ad una monaca di
clausura (vedremo poi che sarà Suor Confaloniera del Monastero di santa Caterina!).
La politica restrittiva di Carlo Borromeo, a cui ho accennato prima, non trovò continuazione in
quella del cugino. Se Carlo aveva imposto un anziano organista di paese quale insegnante
delle monache, Federico preferì che la didattica venisse gestita dalle monache stesse; questo
comportava una buona conoscenza musicale delle “maestre” che dovevano sapere anche di
polifonia.
Nella prima biografia del Mongilardi
18
si legge che tra le volontà di Federico c’era quella di
vedere le suore di buon umore, permettendo loro di fare salmodia con gruppi musicali usando
organi e altri strumenti. In questo modo le suore potevano essere tenute lontane dalle porte del
monastero e dalle conversazioni con i laici. Ma è attraverso il suo carteggio con le monache
che risalta maggiormente la sua personalità e in particolare, il suo rapporto con la musica.
Presso la Biblioteca Ambrosiana sono conservate oltre 30.000 lettere, ma, mentre di quelle
scritte dal cardinale si può avere facile accesso in quanto pubblicate, rimangono ancora da
scoprire quelle inviate dalle monache. In queste lettere mai si intravede un cedimento nella
forte personalità del Borromeo, d'altronde lo stesso Manzoni lo descrisse come uomo
integerrimo e totalmente dedito alla vita religiosa ma anche come appassionato di questioni
umaniste, invece si ritrovano frequentemente le problematiche legate alla vita di clausura, sia
di carattere pratico che spirituale. Tra quelle scritte con le suore del Monastero di Santa
Caterina spicca il carteggio con la Confaloniera, descritto anche nella “Biografia”. In questo
rapporto epistolare il Borromeo si raccomandava che le lettere “.. non vi cascassero in terra
per caso, e fuori di cella non le portate mai, né leggete se non in cella..”, quasi a voler
difendere l’intimo rapporto spirituale che si veniva a creare con queste donne. Rivolgendosi
sempre alla Confaloniera, che, come già detto, era “soprano dolcissimo” del monastero, in
17
G. M. VERCELLONI , Miscellanea carmina et nonnulla alia ad Cardinalem Federicum Borromaeum
spectantia , in Biblioteca Ambrosiana, Milano
18
G. B. MONGILARDI, “Vita Cardinalis Federici Borromei” in C. MARCORA, “La vita del Cardinale
Fedrico Borromeo scritta dal suo medico personale Giovanni Battista Mongilardi”, Milano, 1968
31
riferimento alla possibilità di fare musica con vari strumenti le scriveva “..del sonar fate
quello che volete, che me ne rimetto..”; era una testimonianza dell’amore nei confronti della
musica e di una forma di libertà concessa alle monache. In un’altra lettera le fa dono di un
canto sopra “Super Flumina Babilonis” dicendo che era bellissimo e chiedendole di sonarlo e
cantarlo. In risposta lei si lamentava che le voci di alcune suore erano “..roche e rozze e dure e
ingrate all’orecchio..”
Il carteggio tra la Confaloniera e il cardinale viene ripreso anche in un lavoro biografico di
Saba.
19
Qui appare una delle notizie più importanti a proposito del ritrovamento delle musiche
della Rusca. Infatti in una lettera scritta dalla monaca, il cardinale viene a conoscenza del
fatto che “Vi è una monaca et è quella che ha insegnato a me a cantare e sonare et è sorella
del signor Antonio Rusca; questa monacha sa componere, e così ha composto assai moteti e
gli soi fratelli gli fanno mettere in stampa e gli vogliono dedicare a V. S. Ill.ma per segno di
gratitudine che a Lei conviene aver, per benevolenza che mostra al nostro monastero. Questa
compositione è stata molto laudata, credo che sarà di gusto alli monasteri, e così questa
giovane è molto spirituale; credo che siano con molto spirito; e così vorrebbe dedicarli a Lei
perché il nostro monastero non ha persona che più ama di Lei. Però mi farà gratia di far
saper la sua volontà, in questo particolare”.
Questa informazione incuriosì il Saba che, indagando, ritrovò la collocazione delle musiche
presso la Biblioteca Ambrosiana e così riportò nella sua biografia tutta l’intestazione
dell’edizione della Rusca, aggiungendo la collocazione: Bibl. Ambr. X, IX. 66 e sottolineando
la presenza di cinque fascicoli con la parte per le diverse voci.
Il libro del Saba, evidentemente, giunse nelle mani del musicologo ticinese Walter Jesinghaus
che ritrovò l’antica edizione e la fotografò.
Nella lettera veniva detto “ ..che sarà di gusto alli monasteri..”, rimandandoci all’idea che le
musiche composte dalle suore giravano tra i vari monasteri, e venivano eseguite da quelle che
avevano pratica di musica; questo spiega anche la volontà da parte di alcune comunità
religiose di inserire nelle loro discipline anche la didattica musicale.
Tornando al carteggio con la Confaloniera, in una lettera il cardinale comunicò di inviarle in
regalo un liuto, in modo da potersi accompagnare nel canto. La monaca espresse così la sua
gratitudine: “Padre carissimo, non posso finir di ringraziar V.S. Ill.ma del dono che mi à fatto
…..poi che per l’alegrezza che io vidi che ebero tutte le monache mi risolsi di voler far sentir
a tutte il suo suono. E così segretamente feci intuito a una che sona il violone e un'altra il
19
A. SABA. “ Federico Borromeo e i mistici del suo tempo”, Milano, 1933.
32
violino e così la notte del Santo Natale andavimo a far li matinati a tutte le monache
cantando…” In altra occasione scrisse al cardinale: “..la stessa sera che mi era venuta la
febbre maggiore delle altre volte, sonai il liuto più di un’ora ricreando molte monache, che
erano presenti; questo fu la domenica di sera..” e ancora “..una mattina che mi sentiva così,
pigliai il liuto, e messe a sonar così sola; e subito che io ebbi cominciato a sonar una parola ,
cioè Gesù, sentii nella mia mente un sono il più dolce, il più soave…”. La presenza di
strumenti musicali all’interno di monasteri, oltre all’organo, venne ben documentata da queste
lettere e il saper suonare uno strumento era sicuramente frutto di un percorso didattico
affrontato nell’ambito della vita monacale, in quanto l’ingresso in monastero avveniva
solitamente intorno ai sedici anni.
Riguardo ai vari rapporti epistolari con le suore, molto interessante appare l’unica lettera che
ci è rimasta della Rusca dove si parla di una personalità molto fragile, turbata da problemi di
coscienza “..quello che sento Padre mio carissimo è che non godo mai la conversazione in
pace, non ricreazione, niente perché il tutto mi rimorde la coscienza e pure non posso star
sola, ma questa cosa non è solo adesso, ma è più di dieci mesi..”; e il cardinale le rispose
consigliandole “..di star più sola che fuse possibile..”.
Infine va ricordato il carteggio tra Fedrico Borromeo e Antonio Rusca (il fratello di Caludia).
Narra il Bosca (biografo del cardinale e bibliotecario dell’Ambrosiana) che Antonio era
dottore della biblioteca personale del Borromeo e che un giorno scoppiò un piccolo incendio
che distrusse il MS del suo lavoro “De voluntate divina”. Federico consolò Antonio dicendo
che forse Dio voleva che nulla dei suoi arcani voleri venissero rivelati ai posteri.
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