7 
programma politico organico a livello europeo, ed anzi si trasfigurò in un mezzo 
per procedere ciascuno lungo le proprie vie nazionali. In questo senso la 
definizione forse più calzante è quella proposta da Antonio Rubbi, che, nel 1978, 
scriveva che l’‘eurocomunismo’ era “semplicemente, ma significativamente, un 
complesso di idee e di obiettivi sui quali si è constatata una convergenza politica, 
la quale non annulla i tratti specifici delle vie nazionali al socialismo e la loro 
autonoma elaborazione da parte di ciascun partito, ma che muove dal 
riconoscimento che, per quanto grandi possano essere le differenze tra vari paesi 
dell’Europa occidentale, non ce n’è uno solo nel quale la politica del movimento 
operaio possa discostarsi da certi tratti comuni, caratteristici di una strategia di 
effettiva avanzata al socialismo”
7
. Fu una strategia, un’intuizione, una speranza. 
Non fu mai, però, una politica compiuta, per quanto potessero essere brillanti i 
principi attorno ai quali aveva preso corpo. Da più parti si disse, e si dice tuttora, 
che l’“eurocomunismo” fu in realtà un mero tatticismo, volto a guadagnare la 
legittimità democratica che i sistemi partitici europei sorti nel dopoguerra 
negavano ai partiti comunisti e un espediente elettorale con cui i PC tentavano di 
conquistarsi le simpatie dei ceti medi emergenti
8
. Tale interesse costituì, senza 
dubbio, un fattore non marginale nel definirsi e nell’affermarsi della nuova 
strategia. Ridurre a ciò le intenzioni dei comunisti europei, tuttavia, sarebbe 
limitativo e non rispecchierebbe la reale portata del fenomeno. 
L’“eurocomunismo” formò parte, effettivamente, delle strategie di “adattamento 
democratico” con le quali i dirigenti dei partiti, per superare gli ostacoli insorti nel 
processo di integrazione democratica e dunque di accessibilità alle cariche 
governative, procedettero ad un cambiamento di alcuni ambiti della rispettiva vita 
partitica
9
. I leader “eurocomunisti”, tuttavia, avvertivano sinceramente che si era 
giunti al momento in cui la tradizione comunista doveva esser riformata, e 
ritenevano che fosse possibile attingere alle sue stesse risorse politiche e culturali 
                                                
7
 RUBBI A., I partiti comunisti dell’Europa occidentale, Teti, Milano, 1978, p. 25.  
8
 Un’impostazione di questo tipo è proposta da María del Pilar Sánchez Millas, la quale sostiene che 
l’“eurocomunismo” non fu altro che una forma di propaganda, neanche troppo convinta, da parte di partititi 
che si mantenevano molto più interessati alle circostanze dei loro rispettivi Paesi che non a stabilire una 
strategia comune; cfr. SÁNCHEZ MILLAS, Eurocomunismo, ¿estrategia conjunta o coincidente mecanismo 
para tres condiciones internas diferentes?, in BUENO M., HINOJOSA J., Historia del PCE, I Congreso”, 
FIM, Madrid, 2007, vol. 2, pp. 385-411.  
9
 Questo processo di “adattamento democratico” e di integrazione nel sistema politico è spiegato chiaramente 
in BOSCO A., Comunisti, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 50-57. 
 8 
per affrontare tale compito. La strategia del “comunismo democratico”, dunque, 
non fu e non volle essere un momento di rottura rispetto ad una tradizione 
ideologica di lunga durata, ma fu piuttosto il punto di arrivo di un cammino 
politico ed intellettuale, che affondava le sue radici nelle esperienze degli anni ’30 
e ’40. L’“eurocomunismo” fu espressione di una reale fiducia nella possibilità di 
dare un indirizzo socialista allo sviluppo delle democrazie occidentali, di un 
effettivo entusiasmo rispetto alla prospettiva di definire un socialismo europeista 
qualitativamente differente dal socialismo realizzato in Unione Sovietica o in 
Cina e, infine, di una vocazione, forse un po’ onirica, che consentì a molti, in 
quegli anni, di rintracciare nelle società nelle quali vivevano le avvisaglie della 
società utopica nella quale avrebbero voluto vivere. L’“eurocomunismo”, dunque, 
rimaneva tutto interno al comunismo, non conteneva ancora i germi della 
polemica degli anni ’80 sull’opportunità o meno di mantenere il nome e l’identità 
comunista. Con esso si intendeva, viceversa, riformare l’idea di comunismo, 
anche con la segreta speranza di poter indicare un nuovo percorso per i Paesi 
socialisti dell’Est. La nuova strategia comunista degli anni ’70 fu segnata da 
un’ambivalenza di fondo, che vedeva tutti i partiti che ne erano protagonisti 
impegnati nel gioco politico su un duplice fronte, nazionale ed internazionale. 
Ciò, da un lato, costituiva un punto di forza dell’impostazione “eurocomunista”, 
che vedeva consolidarsi a vicenda i due elementi che la costituivano, ossia una 
proposta di politica interna, basata sulla via democratica al socialismo e su ampie 
coalizioni, e una collocazione internazionale autonoma e progressivamente 
europeista. Dall’altro lato, però, questa ambiguità provocava squilibri e 
disattenzioni ora nell’una, ora nell’altra direzione, e tale disequilibrio, in ultima 
analisi, ne determinò l’insuccesso. Come detto, la nuova corrente proponeva tanto 
una linea per la politica interna ai singoli Paesi di riferimento, quanto una 
completa visione della politica e del posizionamento internazionale. Per quanto 
riguardava il primo aspetto, nella proposta “eurocomunista” si mescolavano due 
suggestioni teoriche fondamentali, ossia le riflessioni gramsciane e la teoria 
economica keynesiana. La questione nodale, a livello politico, risiedeva nella 
compiuta introduzione della democrazia in seno alle teorie socialiste dell’accesso 
al potere della classe lavoratrice. Il giudizio sul concetto di democrazia perdeva 
 9 
gli usuali connotati negativi, che la volevano strumento nelle mani delle classi 
dominanti per meglio esercitare il proprio potere, per assurgere a valore 
universale di cui i partiti comunisti si facevano portavoce e difensori. 
L’estensione della democrazia e di tutte le libertà civili e personali era l’unico 
percorso attraverso il quale sarebbe stato possibile raggiungere nuove forme di 
socialismo a partire dalle esistenti società a capitalismo sviluppato. La via da 
percorrere, dunque, implicava l’abbandono della violenza rivoluzionaria come 
arma politica e il riconoscimento del valore del suffragio universale e 
dell’alternanza al potere. Non negare validità al pluralismo del sistema politico 
comportava anche accantonare la pretesa di esaurire, come partito comunista, 
l’intero spettro politico della classe operaia e riconoscere invece legittimità alle 
posizioni espresse da socialisti, socialdemocratici e democratici cattolici. La linea 
tradizionale volta alla costruzione di un asse a sinistra imperniato sulla centralità 
comunista veniva messo da parte e in primo piano passava la proposta di grandi 
coalizioni governative basate su più ampie alleanze sociali. L’apertura a correnti 
progressiste di varia natura e di varia provenienza sociale si rendeva sempre più 
necessaria, nell’ambito di una mutata struttura di classe delle società a capitalismo 
maturo nelle quali nuovi strati di ceto medio e di forze della cultura andavano 
assumendo un ruolo sempre più rilevante. A livello economico, gli 
“eurocomunisti” negavano che misure stataliste imperniate sulla completa 
collettivizzazione dei mezzi di produzione potessero essere applicate nelle società 
occidentali. Per la società futura che essi prospettavano, dunque, proponevano 
un’economia mista, nella quale alla permanenza del privato fosse affiancata una 
pianificazione economica e una statalizzazione dei settori monopolistici 
dell’economia.  
Gli aspetti legati alla politica internazionale catalizzarono, però, le attenzioni sulla 
nuova strategia. Dal 1968-69, infatti, le scelte dei partiti “eurocomunisti” rispetto 
alla propria collocazione nel panorama mondiale seguirono un crescendo che li 
portò dall’affermazione del diritto di ciascun partito alla definizione autonoma del 
proprio percorso per il raggiungimento del socialismo fino alla critica aperta delle 
scelte operate nei Paesi del socialismo realizzato e alla negazione di quei sistemi 
come modello valido per i Paesi occidentali. Nel giro di dieci anni, dunque, si 
 10 
partì dal negare a Mosca il ruolo dirigente che, esplicitamente o implicitamente, le 
si era riconosciuto e si giungeva a sconfessare fermamente qualsiasi ipotesi di 
organizzazione comunista sovranazionale, anche eurocomunista. Il tentativo di 
preservare il concetto di non ingerenza all’interno del movimento comunista 
internazionale, tuttavia, si tradusse in un ripiegamento su se stessi che ne minò le 
possibilità di successo.  
Il processo di “riforma” del comunismo che fu avviato negli anni ’70 coinvolse 
molti partiti, con visioni del mondo molto diverse tra loro e con esperienze 
radicate in contesti nazionali molto differenti. Questo perchè, per quanto il 
termine con cui tale tentativo raggiunse la fama sembrasse far riferimento 
esattamente ad una definizione “geografica”, l’esperienza del “comunismo 
democratico” non riguardò esclusivamente i partiti dell’Europa occidentale. I 
principali protagonisti furono, effettivamente, i partiti comunisti italiano, spagnolo 
e francese, ma erano giunti a conclusioni analoghe, attraverso autonomi percorsi 
di elaborazione teorica, anche i partiti comunisti giapponese, jugoslavo e, in 
misura minore, britannico. Il PCI, ovviamente, spiccava tra quei partner per 
elevazione culturale, organizzazione di massa e peso elettorale. Molti 
scambiarono, e scambiano, tale indubitabile superiorità con un ruolo 
predominante al momento di definire e divulgare la strategia comune
10
. Senza il 
consenso dei comunisti italiani, effettivamente, il “comunismo democratico” non 
avrebbe forse avuto il successo che invece ebbe e, chissà, sarebbe stato riassorbito 
in breve tempo da posizioni più ortodosse. Gli italiani, però, si mantennero spesso 
in bilico tra vecchio e nuovo. Essi non furono perciò, come pure può facilmente 
sembrare, motore trainante della nuova corrente, ma spesso si lasciarono 
trascinare dagli eventi o dall’entusiasmo degli altri partiti
11
. Fu il Partito 
Comunista di Spagna quello che, il più delle volte, si spinse arditamente avanti 
                                                
10
 Per un’interpretazione in questo senso cfr. PONS S., Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino, 
2006: “Fu piuttosto una strategia ed un messaggio politico fatto proprio soprattutto dal comunismo italiano”, 
p. XVI; cfr. VALENTINI C., Berlinguer: l’eredità difficile, Editori Riuniti, Roma, 1997: “Tutte queste 
vicende accrescono sempre più il prestigio internazionale di Berlinguer, che viene indicato come il vero 
animatore dell’eurocomunismo”, p. 255; SEGRE S., A chi fa paura l’eurocomunismo?, cit.: l’eurocomunismo 
fu “espressione di una realtà italiana” e “aspetti peculiari della storia nazionale spiegano perchè 
l’eurocomunismo ha lì le radici”, p. 12, in “posizioni dei comunisti italiani”, che, “anche quando potevano 
apparire esclusive, si siano sviluppate sulla base di una riflessione che andava al di là della realtà italiana”, p. 
38.  
11
 In questa direzione va l’analisi di LEVI A., in FILO DELLA TORRE P., MORTIMER E. (cura), 
Eurocomunismo: mito o realtà?, Mondadori, Milano, 1978, pp. 17- 48.  
 11 
rispetto agli altri comunisti europei. Carrillo appariva consapevole, più di 
Berlinguer, della carica rivoluzionaria che il fenomeno “eurocomunista” poteva 
assumere tanto sul piano interno quanto su quello internazionale
12
. Il PCE, 
tuttavia, è stato spesso tralasciato negli studi di chi si è dedicato alla politica 
comunista di quegli anni. Spesso, per levatura storica, gli è stata preferita l’analisi 
del fratello francese, presentato accanto al PCI come centro 
dell’“eurocomunismo”, salvo poi dover riconoscere che non fu mai 
completamente d’accordo con l’indirizzo degli altri partiti e che, anzi,  proprio la 
sua ostinata perseveranza su posizioni ortodosse fu tra le cause del tramonto del 
filone europeo. Il PCE, invece, scelse assai presto una linea fondata 
sull’adattamento democratico, e sulla promozione dei cambiamenti necessari per 
rendere credibile la propria lealtà democratica. Ancor prima di tornare alla 
legalità, modificò progressivamente programma, identità e struttura organizzativa, 
ridefinendo parallelamente la propria collocazione internazionale. Sotto certi 
aspetti, la condizione di clandestinità alla quale erano sottoposti fino al 1977 
facilitò il compito ai dirigenti comunisti spagnoli, non intralciati nei propri 
movimenti né da una ingombrante massa di militanti né dalle responsabilità e 
dalle aspettative che pesavano invece sui comunisti italiani. In questo senso, non 
si possono tralasciare i pesanti condizionamenti esterni, tanto statunitensi quanto 
sovietici, che gravavano sul PCI sempre più vicino all’accesso al potere. La 
questione del rapporto con Mosca, che ha giocato senza dubbio una parte centrale 
nella vicenda “eurocomunista”, ne costituisce, però, solo una delle sue molteplici 
sfumature.  
Si è scelto, dunque, con questo lavoro, di compiere una ricostruzione puntuale 
delle vicende che portarono all’affermazione dell’orientamento “eurocomunista” 
tra i dirigenti del PCE e del PCI e delle interazioni che legarono i due partiti. 
Molteplici ragioni hanno suscitato una curiosità personale ed un interesse 
storiografico per l’argomento. In primo luogo perchè si è sviluppato in un 
decennio, gli anni ’70, che ha segnato una cesura storica tra due distinte epoche
13
. 
Il fenomeno del “comunismo democratico” è stato, nel corso degli anni, 
                                                
12
 Cfr. VALLI B., Gli eurocomunisti, cit., p. 12.  
13
 Cfr. HOBSBAWM E., Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 471 e sgg. 
 12 
variamente definito periodizzato. Due sono, tuttavia, le tendenze principali. Da un 
lato, vi è chi ne ha ricercato le origini nelle esperienze degli anni tra le due guerre 
mondiali, definendo così una linea di continuità che ha l’“eurocomunismo” come 
punto culminante di un lungo percorso di rivalutazione della democrazia da parte 
dei comunisti europei
14
. Dall’altro, c’è chi vi ha riconosciuto solo una stella 
effimera nella teoria politica comunista, limitandosi a datarne la nascita nel 
periodo 1975-1977, prendendo in considerazione singoli eventi riconducibili a 
tale lasso temporale
15
. Sembra invece oggi opportuno riconsiderare i limiti e la 
scansione cronologica degli avvenimenti che hanno effettivamente caratterizzato 
la corrente “eurocomunista”. Ricercare le radici ideologiche dell’ispirazione 
democratica dei comunisti europei nel periodo d’anteguerra, pur essendo un 
valido strumento teorico di comprensione del fenomeno, non è tuttavia un criterio 
periodizzante particolarmente fruttifero, poiché allarga eccessivamente l’oggetto 
della ricerca e coinvolge periodi storici troppo diversi perché sia possibile metterli 
a confronto. Viceversa, limitarsi ai due o tre anni nei quali la parola 
“eurocomunismo” risuonava dappertutto, nei giornali e nei discorsi dei politici, 
restringe troppo i margini di osservazione, senza dare il giusto rilievo al 
fondamentale aspetto dell’in fieri che caratterizzò, invece, l’idea “eurocomunista”. 
Si è determinato così un arco di tempo che abbraccia tutto il decennio del 1970, 
dalla Conferenza Mondiale dei Partiti comunisti del 1969 fino ai primi anni ’80. 
Tale periodo, alquanto variegato al suo interno, è stato poi suddiviso ulteriormente 
in tre sotto periodi che definiscono più chiaramente le fasi di quello che è stato, 
sostanzialmente, un processo di sviluppo mai finito. Il primo capitolo copre, 
dunque, il periodo 1969-1974 e descrive “gli albori” dell’”eurocomunismo”, in 
cui l’avvicinamento tra i partiti europei si fondò anzitutto sulla rivendicazione di 
autonomia rispetto alle direttive che l’URSS tentava ancora di imprimere al 
movimento comunista internazionale. Nel secondo capitolo, si trattano le vicende 
più propriamente “eurocomuniste”, dalla manifestazione PCI-PCE a Livorno nel 
                                                
14
 Cfr. ad esempio BERMUDO ÁVILA J.M., Togliatti: entre el eurocomunismo y la dictadura del 
proletariado, in “El Carabo”, n.6, maggio-giugno 1977; PÉREZ ROYO J., La génesis histórica del 
eurocomunismo, in AZCÀRATE M., “Vías democráticas al socialismo”, Ayuso, Madrid, 1981, pp. 1-19; 
ELORZA A., Eurocomunismo y tradición comunista, ivi, pp. 65-108. 
15
 Cfr., tra gli altri, RIZZO A., La frontiera dell’eurocomunismo, Laterza, Roma-Bari, 1977; VALLI B., Gli 
eurocomunisti, Bompiani, Milano, 1976; VALENTINI C., Berlinguer il Segretario, Mondadori, Milano, 
1987.  
 13 
1975 al “vertice” di Madrid del 1977. In questo periodo si intensificarono i 
rapporti tra i due partiti e si giunse a dare definizione precisa alle caratteristiche 
della strategia che si intendeva portare avanti. L’ultimo capitolo inizia con 
l’analisi del volume di Santiago Carrillo, “Eurocomunismo” y Estado, pubblicato 
nel giugno del 1977. Il libro parve segnare l’apice del successo politico della 
nuova impostazione ma, tanto per i suoi stessi contenuti quanto per la polemica 
che scatenò, fu piuttosto il primo sintomo della stanchezza del “comunismo 
democratico”. Da allora in poi fu tutto un calo progressivo, inizialmente 
impercettibile, che, passando attraverso contatti sempre più sporadici, portò infine 
la strategia a svanire nell’oblio. Nel 1983 già nessuno parlava più in termini di 
“eurocomunismo” se non per ricostruire le vicende del decennio precedente. Il 
mondo era ormai cambiato, e i partiti comunisti, nonostante gli sforzi che avevano 
compiuto per la propria legittimazione, permanevano in una condizione di 
isolamento che andava accrescendone i malumori e i dubbi. Tanto Berlinguer 
quanto Carrillo finirono per arroccarsi a difesa delle posizioni che avevano saputo 
conquistare verso la metà degli anni ’70, e non portarono a compiuti sviluppi le 
intuizioni che allora avevano fatto le loro fortune.  
L’“eurocomunismo”, nonostante l’incompiutezza nella quale si arenò, non fu, 
però, un movimento a vuoto. In quegli anni un vastissimo dibattito speculativo 
coinvolse gli intellettuali dei partiti “eurocomunisti” nella revisione critica della 
propria appartenenza e delle proprie identità e nel confronto con culture politiche 
parallele, in particolare socialiste, socialdemocratiche e cattoliche. Attraverso la 
rilettura dei “classici”, da Marx a Lenin, da Gramsci a Togliatti, in un tentativo 
mai concluso di presentare la propria storia come un unicum senza soluzione di 
continuità, e con un’astrazione di singoli elementi dalle dottrine fondanti del 
comunismo mondiale, tanto gli italiani come gli spagnoli rifondano la propria 
peculiarità e il proprio ruolo di comunisti nelle società a capitalismo avanzato. Le 
estreme conseguenze di questa revisione furono tratte solo nel decennio 
successivo,  quando l’impellenza degli eventi rese impossibile rinviare 
ulteriormente il fare i conti con la propria eredità ideologica e culturale. Il 
dibattito sviluppatosi attorno all’“eurocomunismo”, tuttavia, fu il seme da cui 
furono originati quei frutti. Da tutto ciò, si è ritenuto necessario dedicare un 
 14 
capitolo, per quanto breve e sintetico, alla trattazione degli aspetti teorici che 
sostennero le certezze degli “eurocomunisti”. 
 
A tutt’oggi mancano studi completi di forma storiografica tanto sul fenomeno 
“eurocomunista” in generale quanto sui rapporti tra PCE e PCI. Questa ricerca 
intende colmare in parte tale lacuna, risalendo alle fonti archivistiche di entrambi i 
partiti per dare una ricostruzione sistematica degli eventi di quegli anni. Si è 
cercato di mantenere sempre presente che un’organizzazione complessa come un 
partito non può essere estrapolata dal suo contesto ed essere quindi trattata alla 
stregua di un organismo completamente autonomo, considerazione che risulta 
tanto più vera parlando di partiti che hanno compiuto molte scelte spinti da input 
esterni e in situazioni, quale quella italiana, di cui efficace descrizione ha dato la 
categoria di “doppia lealtà”
16
. Si è cercato dunque di chiarire i termini 
dell’evoluzione teorica e del comportamento strategico dei due partiti integrandoli 
nel sistema nazionale e internazionale col quale dovettero rapportarsi. Per far ciò, 
è stato necessario prendere in considerazione varie tipologie di fonti. A livello 
bibliografico occorre rifarsi ad una gran quantità di letteratura contemporanea agli 
eventi, caratterizzata per un taglio per lo più compilatorio. In questa ricerca sono 
state oggetto di studio, quindi, le pubblicazioni di questo tipo, raccolte di discorsi 
ed interventi dei principali esponenti politici, edite tra il 1975 e i primi anni ’80. Il 
nucleo del lavoro, però, è stato costruito a partire dall’analisi della 
documentazione di archivio, conservata in parte a Roma, presso la Fondazione 
Istituto Gramsci, e in parte a Madrid, presso l’Archivo Histórico del Partido 
Comunista de España. Tali fonti sono state poi integrate con lo spoglio della 
stampa quotidiana e periodica delle due organizzazioni politiche, L’Unità, 
Rinascita, Mundo Obrero e Nuestra Bandera, oltre che quelle più rappresentative 
dell’opinione pubblica dei due contesti. Data la complessità e la mole 
dell’argomento, e nella consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere 
l’esaustività, si è tentato anzitutto di fornire al lettore un quadro chiaro e quanto 
più lineare possibile degli eventi. Da qui la scelta di procedere secondo un criterio 
                                                
16
 Coniata felicemente da Franco De Felice, cfr. DE FELICE F., Doppia lealtà e doppio Stato, in Studi 
Storici, n. 3. 1989, ora in DE FELICE F, PAGGI L. (cura), La questione della nazione repubblicana, Laterza, 
Roma-Bari, 1999.  
 15 
strettamente cronologico, con il quale seguire il fluire delle vicende e intrecciare i 
due contesti presi in considerazione.