5 
Alla fine dell‟anno il giudizio dell‟insegnante di educazione tecnica fu: «Ha dimostrato 
un certo impegno nello studio conseguendo un profitto quasi buono»3. Mentre il giudizio 
finale complessivo recita: «Ha conseguito un livello globale di maturazione quasi sufficiente 
in quanto ha raggiunto gli obiettivi prefissati in alcune discipline»4. 
L‟anno seguente mia madre mi fece recuperare i saperi culturali di un intero anno 
scolastico perso, facendomi concludere la scuola dell‟obbligo da privatista, perché presumo si 
vergognasse di me e voleva nascondere la sconfitta. Era l‟anno in cui si “giustificava” il mio 
fallimento nella scuola (a quel punto per lei diventato emotivo), con la scusa di aver sofferto a 
causa del suo divorzio. 
Era la fine degli anni „80. Frequentavo il Liceo Artistico. Il rapporto con gli insegnati 
era difficile, quello con i pari praticamente inesistente. A differenza della scuola dell‟obbligo 
il rendimento aveva la media del sette e mezzo. Ma decisi di interrompere gli studi al terzo 
liceo. Credo che in questa decisione ci fossero motivazioni familiari e adolescenziali. Ripresi 
gli studi solo qualche anno dopo.  
Quando ritornai tra i banchi di scuola, avevo quattro anni di più dei miei compagni, ma 
loro mi accolsero positivamente; difficile fu, invece, essere accettata da alcuni professori.  
Il mio rientro a scuola era fortemente supportato da una passione per lo studio, 
probabilmente maturata nei quattro anni di interruzione, e da una gran voglia di imparare. Ma 
come accennavo, la diversità anagrafica era un problema per gli insegnanti; o forse la 
diversità di trattamento che io percepivo non stava nella mia età anagrafica, quanto nelle 
aspettative di riuscita scolastica che loro stessi si erano creati su di me, forse pensando che gli 
anni persi mi avessero impedito di possedere quelle capacità cognitive tipiche dell‟età 
adolescenziale, sufficienti per una carriera scolastica soddisfacente: il mio rendimento in 
alcune materie, nonostante gli sforzi e la reale conoscenza della materia stessa, non mi 
premiava come gli altri studenti nel giudizio finale. «E‟ stato dimostrato che, quando gli 
insegnanti prevedono che certi alunni conseguiranno buoni risultati, si verifica il cosiddetto 
“effetto Pigmalione”, cioè il loro comportamento, inconsapevole, realizza una vera e propria 
profezia che si autoadempie. […] E‟ poi interessante precisare, che alcuni dei bambini che 
[…] nell‟anno avevano compiuto miglioramenti (miglioramenti che non erano stati previsti 
dagli insegnanti), quanto più avevano progredito, tanto meno favorevolmente venivano 
valutati dai loro insegnanti. Sembra, […] che mentre […] gli allievi fanno dei miglioramenti 
                                                 
3
 Documento Ministero della Pubblica Istruzione, Circolo didattico di Gazzada, Scuola Elementare Statale di 
Gazzada, Scheda personale di Tiziana Cristofari, Anno scolastico 1984/1985. 
4
 Ibidem. 
 6 
inattesi il risultato può essere, addirittura, un peggioramento del loro rapporto con gli 
insegnanti»5. 
Era l‟anno 1992. Quattro fratelli divisi due a due in famiglie diverse, si riuniscono per 
passare una giornata insieme. Due sorelle appartengono alla generazione dei primi anni ‟70, 
gli altri due della seconda metà degli anni ‟80. La madre dei più piccoli costringe con fare 
deciso la figlia di quattro anni a finire la colazione: era rimasta mezza tazza di latte con 
biscotti ormai diventati poltiglia. Non finirla avrebbe significato dover rinunciare all‟uscita. 
Fu allora che guardai mia sorella tra lo stupore e la meraviglia: con un gesto estremo di 
affettività per tutti noi che stavamo assistendo a quella pietosa scena, (ad un attimo di 
distrazione di quella madre sorda al rifiuto della figlia per un alimento che difficilmente 
poteva andare giù a qualcuno), divorò la restante colazione liberando la bimba e tutti noi 
dall‟imbarazzo. 
E‟ l‟anno 2007. La stessa ragazza che mangiò l‟ignobile colazione oggi è mamma da tre 
anni. Sua figlia è una bambina dolcissima, appassionata ai libri: rimane per ore a farseli 
leggere o è lei a raccontare al suo lettore o lettrice le favole rappresentate in quelle pagine. 
E‟ l‟anno 2008. La stessa donna che ha avuto studi discontinui ed inserimenti scolastici 
difficili, quest‟anno si laurea. 
Situazioni come queste sono all‟ordine del giorno.  
Motivazioni familiari, sociali, ambientali e culturali influiscono sul vissuto dei ragazzi e sui 
rapporti con gli adulti (insegnanti) e compagni. Sono motivo di disagio e dispersione 
scolastica. Sono motivo di infinite difficoltà relazionali… Sono motivo anche di riuscita… 
Ma le stesse condizioni familiari, sociali, ambientali e culturali sono alla base di 
un‟incapacità di rapporto interumano degli insegnanti stessi.  
 
Questo lavoro vorrei che realizzasse un quadro in grado di comunicare che il pensiero di 
quanto è malato, perverso e violento non è il bambino, ma una cultura adulta costruita su una 
teoria nella quale pregiudizi religiosi, organicisti, illuministi, culturali ed infine freudiani si 
alleano a presentare la sessualità infantile come fonte di malattia. Ora tutto il discorso che 
affronterò vorrebbe capovolgere questa visione aberrante. Spero di riuscire a chiarire come 
una spirale perversa in cui ogni intervento correttivo – anche e soprattutto in ambito scolastico 
- in quanto suggerito da una cultura orientata da teorie sbagliate, incrementa le “patologie” 
che dovrebbe correggere.  
                                                 
5
 Fischer L., Sociologia della scuola, Il Mulino, Bologna 2006. Corsivo mio. 
 7 
“L‟errore pedagogico”6 fornisce l‟idea di come la non conoscenza del significato 
positivo attribuito alla pedagogia relazionale possa incidere negativamente sul rapporto 
insegnante-alunno. Partendo da una visione più approfondita del concetto di salute mentale e 
dal significato della relazione interumana, vorrei capire perché ci sono insegnanti positivi ed 
insegnanti negativi. Vorrei considerare la letteratura e la storia, quale strumento di 
comparazione dei rapporti tra insegnante ed alunno, delle loro condizioni di vita familiari, 
sociali e culturali, soprattutto durante il ventennio degli anni ‟60 e ‟70. 
Vorrei dimostrare come nel tempo alcuni punti cardine dell‟educazione resistano 
nonostante teorie nuove rispetto al passato. Vorrei dimostrare come questa non-modificazione 
(o meglio non-trasformazione) verso una pedagogia relazionale sia stata limitante per 
l‟affermarsi di un significativo rapporto di relazione interumana  tra l‟insegnate e l‟alunno. 
Capire e dimostrare come alcuni pensieri filosofici e religiosi, a scapito di quelli più 
prettamente umani e scientifici, siano ancora oggi oggetto potente di modelli culturali 
educativi; come la loro struttura di pensiero sia limitante nella relazione interumana e come 
tali pensieri siano vincolanti nel rapporto con la differenza di genere. 
Vorrei dimostrare come le riforme scolastiche abbiano contribuito ad essere a loro volta 
limitanti, selettive e classiste, influenzando in positivo o in negativo le relazioni interne alla 
classe. 
Infine vorrei capire come il concetto di relazione umana, come prevenzione e cura7, 
possa incidere positivamente sulla riuscita della relazione stessa tra insegnate e allievo e nella 
sua formazione scolastica-culturale. 
Affronteremo questo arduo, ma bellissimo compito reinterpretando il tutto attraverso la 
visione dei romanzi, raccogliendo l‟opportunità del romanzo perché riporta contesti reali in 
situazioni immaginarie, riuscendo a dare vita a quel coinvolgimento emotivo umano di cui mi 
farò promotrice tra queste pagine e che spero possano chiarire ulteriormente i punti analizzati 
nelle righe precedenti. 
Parleremo di identità umana. 
                                                 
6
 Bruco, G., La zucca di Cenerentola. L’errore pedagogico, Manni, S. Cesario di Lecce 2005. 
7
 Ibidem. 
 8 
1. Una insegnante come “cittadina del mondo” 
 
Durante gli studi molti aspetti educativi, antropologici, psicologici, storici, hanno 
permesso un variare del mio stato d‟animo del rapporto con gli altri. In definitiva, il formarsi 
del mio profilo culturale ha modificato costantemente la mia visione della vita. Gli studi 
hanno ampliato l‟approccio socio-cognitivo in molti ambiti personali e professionali. Ma uno 
in particolare è stato fondamentale per chiarire il legame con il tema scelto della tesi di laurea, 
che ha soprattutto aiutato lo sviluppo della mia identità culturale. 
All‟inizio del percorso di studi pensavo fosse fondamentale sottolineare alcuni aspetti 
sociali, storici, educativi e culturali per fare una panoramica dell‟insuccesso (?) negli anni 
passati di un rapporto relazionale tra gli insegnanti e gli alunni. In altri termini ho quasi 
pensato che fosse il “passato” – nella sua accezione generica - la causa dell‟incapacità di 
atteggiamenti non comunicativi. In realtà oggi da una parte mi sento di “giustificare” questo 
passato, dall‟altra trovo un atteggiamento molto grave da parte degli insegnanti aver ignorato 
determinate scoperte scientifiche ed educative; da un‟altra parte ancora, trovo che “la storia” 
sociale, politica, culturale stessa, sia portatrice di insegnamento o della negazione di alcuni 
passaggi culturali fondamentali. 
Devo oggi proprio a quegli studi storici, filosofici, di scienze dell‟educazione, quella 
conoscenza che mi era stata anticipata dal primo esame sostenuto nel mio corso di laurea 
(antropologia culturale), ma che non aveva allora ancora trovato applicazione nell‟ambito 
culturale, dato che rappresentava solo l‟inizio di un lungo percorso. Questa materia apre la 
mente su una visione della vita non pregiudizievole, non egocentrica, e introduce la 
conoscenza di popoli, società, gruppi di persone nel loro contesto storico-culturale. Questo 
permette una visione priva di pregiudizi e capace di cogliere tutte le essenze positive e 
negative di quella cultura e di quell‟ambito considerato. Dico questo perché l‟insegnamento di 
quel primo esame – avvenuto casualmente e per un interesse del tema trattato8 - mi affascinò 
moltissimo, in quanto tutto il mio passato di formazione scolastica non mi aveva mai mostrato 
come fosse possibile abbracciare verità tanto diverse dal mio modo di vedere e comprendere 
la vita. 
I testi di De Martino - argomento dell‟esame - furono illuminanti e con lui imparai come 
popoli lontani da noi vivessero il pensiero trascendente in un modo che per gli occidentali 
                                                 
8
  Mi riferisco all‟interpretazione del mondo magico di De Martino, che mi ha permesso di acquisire contenuti 
importanti al significato del soprannaturale che fino a quel momento si limitava ad un‟interpretazione puramente 
cattolica. I testi erano: De Martino E., Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 1997 e De Martino E., Sud e 
magia, Feltrinelli, Milano 1998. 
 9 
cristiani-cattolici, era assolutamente inaccettabile; ma il contenuto più profondo, quello che 
emerge dall‟antropologo è la capacità di intuire l‟importanza dei riti collettivi - quindi il 
rapporto con gli altri - e di come già l‟uomo primitivo fosse preoccupato di salvarsi dal rischio 
della follia, della morte psichica, più ancora che dai pericoli naturali e dalla morte fisica9.  
Ecco un racconto significativo.  
Sulle isole Figi, i membri dei clan o famiglie, erano soliti praticare riti magici; uno di 
questi consisteva nell‟attraversare a piedi nudi pietre incandescenti: «Fu necessario lasciare 
agli indigeni tre giorni di tempo per fare i loro preparativi, e cioè per costruire la fornace, per 
pavimentarla di pietre, e per farla riscaldare al fuoco alimentato da tronchi e rami, il che 
richiedeva trentasei o quarantotto ore almeno. […] Un singolare e indimenticabile spettacolo 
si presentò ai nostri occhi. Vi erano (sul luogo della cerimonia) centinaia di Figini.[...] Presso 
i margini del braciere […] il termometro segnò 114°. […] Il nostro termometro fu sospeso con 
un semplice espediente sul centro delle pietre, a circa cinque o sei piedi al di sopra di esse; ma 
dovette essere ritirato quasi immediatamente, perché la saldatura cominciò a fondere e a 
sgocciolare e lo strumento andò perduto. Tuttavia esso registro 282°»10. Così gli indigeni 
passarono sulle pietre: «[…] Ottenni il permesso di esaminare uno o due degli attraversatori 
del fuoco… […] I due uomini presentati all‟esame non rivelarono nessun carattere particolare. 
[…] Non furono osservati incantesimi o altro rituale religioso. […] Ebbi anche assicurazione 
che qualsiasi persona avrebbe potuto attraversare indenne la fornace se fosse stata tenuta per 
mano da uno dei camminatori. I nativi lo affermano espressamente»11.  
Con questo racconto, De Martino ci fa notare che la prima reazione dei ricercatori è 
quella di sostenere a priori l‟impossibilità dei poteri magici e che al limite ci si debba 
domandare come sia possibile l‟illusione della loro realtà. Ci invita ad osservare che 
qualunque sia la motivazione di questo a priori «il documento etnologico non consente la 
negazione del problema»12. E ancora ci apre gli occhi su un altro punto saliente spiegandolo 
con le parole di un etnologo, un certo Shirokogoroff: «Lo scetticismo dovuto all‟ignoranza e 
al pregiudizio non ha permesso la raccolta e la pubblicazione dei fatti. In realtà fino ad alcuni 
anni fa chi avesse osato discutere tali questioni o pubblicare i fatti, avrebbe incontrato la 
                                                 
9
 Mi riferisco al discorso che andremo poi a fare sul contenuto psicologico nei rapporti umani. In questo 
frangente mi preme evidenziare come l‟antropologo abbia intuito l‟importanza della realtà psichica su quella 
fisica. Questo argomento ci servirà ad introdurre il concetto di scissione tra corpo e mente nato con Platone e 
causa di quella impossibilità di comunicare bene con gli altri. Non vorrei comunque anticipare qualcosa che in 
questa sede potrebbe risultare di difficile comprensione. Si tenga presente solo che questo pensiero sarà discusso 
in maniera più ampia nel capitolo che tratta la nascita dell‟identità umana. 
10
 Ocken T.M., F.S.L., An Account of the Fiji Fire-Ceremony, in «Transactions of the New Zealand Institute», 
XXXI, 1898, in De Martino E., Il mondo magico,  pp. 18-19. 
11
 Ibidem, p. 19. 
12
 Ibidem, p. 21. 
 10 
critica degli “uomini di scienza” per i quali tutto ciò entra nella “superstizione”, nel 
“folclore”, nel “difetto di critica” e simili, mentre poi essi stessi sono prigionieri delle teorie 
esistenti e delle ipotesi accettate come “verità”»13.  Quanto detto definisce il mio stato 
d‟animo prima di comprendere una visione di vita non egocentrica, ovvero, uno stato d‟animo 
incapace di aprirsi alle varie diversità. Mi preme soffermarmi su questo discorso perché la 
consapevolezza dei limiti delle proprie capacità comunicative deriva anche dal prendere atto 
che non esiste un‟unica visione della vita, quell‟unica visione che ci ha fatto crescere. E gli 
studi – e forse più propriamente quelli per diventare insegnante - sono assolutamente 
necessari se riescono a far comprendere un insieme di caratteristiche universali necessarie 
all‟insegnante stesso nel rapporto con lo studente, che deve essere visto come “cittadino del 
mondo”. 
De Martino quindi, con questi scritti, ci invita a non ignorare il problema (della 
conoscenza), anzi ci invita alla critica e al dubbio, entrambi legittimi perché appunto la 
documentazione etnologica relativa alla realtà dei poteri magici (in questo contesto da lui 
analizzato) è del tutto occasionale, priva di garanzie, incerta, lacunosa, a volte contraddittoria 
e tale da non consentire di distinguere, nelle pretese magiche, la parte dovuta alle illusioni e 
alle allucinazioni, quella dovuta ai possibili trucchi degli stregoni, le coincidenze che 
generano l‟apparenza del miracoloso, le spiegazioni normali dell‟apparentemente paranormale 
e infine l‟eventuale residuo effettivamente paranormale. Quindi De Martino ci suggerisce che 
non esiste una verità assoluta, ma tante verità quante sono le culture delle genti, e che la 
scoperta più bella sta proprio in una visione non standardizzata di vivere la vita o 
semplicemente di pensarla. 
Questo argomento introduce soprattutto un elemento sul quale torneremo spesso: cioè 
l‟insistenza di una visione arcaica di certi atteggiamenti negli adulti, insegnanti e non, sulla 
concezione del rapporto comunicativo a scuola, a scapito di una cultura umana più recente 
basata sulla teoria dell‟importanza di una relazione interumana tra la persone. 
Ma ancora, lo stesso argomento ci porta al concetto di multiculturalismo, di diversità 
integrata: ecco cosa dovremmo e dovrebbero insegnare nelle scuole, nelle università, nei 
contesti culturali! A questo punto però, una domanda si fa necessaria; la conoscenza della 
diversità è sufficiente alla comprensione di un corretto rapporto con gli altri? Un‟insegnante 
che si trova in classe bambini con il colore della pelle diversa, di una religione non ufficiale, 
con un abbigliamento originale (per la nostra cultura), o ancora, di un basso ceto sociale, figli 
                                                 
13
 Shirokogoroff, The Psychomental Complex, in De Martino E., Op. cit., p. 22. 
 11 
di famiglie difficili con problemi d‟inserimento, gli è sufficiente avere una formazione 
culturale ampia per instaurare un corretto rapporto umano?  
A questa domanda risponderemo più avanti, al momento ci basti sollevare 
l‟interrogativo. 
 
Ho deciso di affrontare l‟argomento nello specifico degli anni Sessanta e Settanta. Ma 
nel farlo andrò molto indietro nella storia e tenterò di spiegare in maniera il più possibile 
obiettiva i perché di tanti approcci relazionali tra insegnante e alunno. Ma soprattutto, ho 
deciso di analizzare questo periodo, perché di questi anni la storia ha “fatto scuola” con le 
teorie psichiatriche del professor Massimo Fagioli e con la teoria dell‟habitus e dei campi di 
forza del sociologo Pierre Bourdieu. 
Mi auguro che proprio la chiarezza e l‟insieme degli studi fatti, mi permetteranno di 
valutare il comportamento relazionale in ambito scolastico in maniera obiettiva, senza 
escludere la possibilità della consapevolezza del bisogno di un cambiamento 
comportamentale in ambito relazionale, e senza comunque dovermi negare una impostazione 
culturale acquisita anche in ambito politico, «considerando che la scuola, in tutte le sue 
manifestazioni, non può non essere pervasa dalla politica. […] L‟apoliticità dell‟insegnante è 
un vero e proprio controsenso dal punto di vista educativo, giacché laddove essa fosse 
praticata comporterebbe una necessaria dimidiazione e contraffazione della personalità 
dell‟insegnante stesso»14. 
Fatta questa precisazione, dovuta, in quanto l‟obiettività che cercherò di tenere presente 
in tutti gli ambiti a volte potrà non sembrare tale, possiamo iniziare a valutare il periodo 
storico-sociale, l‟influenza del pensiero filosofico, di quello cattolico, i nuovi modelli spico-
pedagogici degli anni ‟60 e ‟70 e l‟importanza della letteratura. 
 
«L‟illusio letteraria, adesione originaria al gioco letterario che fonda la credenza 
nell‟importanza o nell‟interesse delle finzioni letterarie, è la condizione, quasi sempre 
inavvertita, del piacere estetico che è sempre, almeno in parte, piacere di praticare il gioco, di 
partecipare alla finzione, di essere in accordo totale con i presupposti del gioco; la condizione 
anche dell‟illusione letteraria e dell‟effetto di credenza che il testo può produrre»15. 
Sulla base di questa affermazione di Pierre Bourdieu, affronterò quanto detto fino ad ora 
attraverso l‟aiuto di un argomento a me molto caro per passione personale - il romanzo - 
                                                 
14
 Bellatalla L., Genovesi G.,  Marescotti E., , La scuola in Italia tra pedagogia e politica (1945-2003), Franco 
Angeli, Milano 2005, p. 17-18. 
15
 Bourdieu P., Le regole dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 421. 
 12 
legato ad un modo di comunicare, sicuramente non nuovo, ma da me acquisito grazie ad una 
disciplina universitaria, la stessa per la quale concretizzerò questa tesi, ovvero “Metodologia 
della ricerca storico educativa”. Dico questo perché vorrei “giustificare” il metodo che ho 
deciso di adottare per toccare tutti i punti prefissati nel lavoro. Pertanto parlerò spesso delle 
mie esperienze formative personali - come fossero il ricordo di un romanzo vissuto (vista la 
mia veneranda età universitaria) - che hanno il compito di spiegare i concetti più propriamente 
scientifici e che hanno inciso profondamente sulla mia crescita, ma soprattutto nella 
maturazione di tutta la mia vita scolastica-formativa. Non solo, racconterò alcuni passaggi 
perché sono testimonianze che hanno lo scopo di aiutarmi a comprendere ancora di più quello 
che sto studiando e quello che vorrei trasmettere. Inoltre farò riferimento anche a brani ripresi 
dalla letteratura stessa. 
Sarà sorprendente accorgerci di come fin dall‟Età Moderna e anche quella più antica, i 
temi che oggi sono per noi di attualità erano già stati colti. 
 13 
1. Il romanzo e la dolcezza della letteratura nei rapporti tra 
insegnanti e discenti. 
 
«Per quel generale desiderio di sapere che, per natura, tutti gli uomini hanno; per quello 
speciale godimento che alcuni ne derivano, prima di assumere l’onere del regnare, fin dalla 
nostra giovinezza, abbiamo sempre cercato la conoscenza, abbiamo sempre amato la bellezza 
e ne abbiamo sempre, instancabilmente, respirato il profumo. Dopo aver assunto la cura del 
regno, sebbene la moltitudine degli affari di Stato richieda la nostra opera e le cure 
dell’amministrazione esigano grande sollecitudine, tuttavia quel po’ di tempo, che riusciamo 
a strappare alle occupazioni che ormai ci sono divenute familiari, non sopportiamo di 
trascorrerlo nell’ozio, ma lo spendiamo tutto nell’esercizio della lettura, affinché l’intelletto 
si rinvigorisca nell’acquisizione della scienza, senza la quale la vita dei mortali non può 
reggersi in maniera degna di uomini liberi, e voltiamo le pagine dei libri e dei volumi, scritti 
in diversi caratteri e in diverse lingue, che arricchiscono gli armadi in cui si conservano le 
nostre cose più preziose»16.  
        Lettera del 1232 di Federico II 
 
 
1.1. La letteratura e la sua importanza nel rapporto con la vita. 
 
La lettura dei romanzi ci porta a scoprire come la realtà vissuta sia stata la realtà del 
nostro vicino di casa o del nostro compagno di scuola, della nostra cara amica. Realtà che non 
sono racconti solo di letteratura, ma che fanno parte della vita, che vivono tra noi, che 
agiscono con noi e per noi. Per guardare quella realtà, per affrontarla, spesso anche per 
amarla, dobbiamo renderci conto che è parte della nostra esistenza, che ci tocca 
personalmente, come educatori, genitori e bambini-adolescenti. Se vogliamo e cerchiamo tra 
le parole della letteratura, tra le parole della politica, tra gli incontri sociali, una cultura-
educativa umana di tolleranza, di rispetto, di crescita morale, etica, intellettuale, dobbiamo 
accorgerci che la realtà umana siamo noi nei rapporti che ci circondano, siamo noi educatori 
che dobbiamo agire in un‟etica della comunicazione umana corretta, sana, priva di egoismi 
ideologici – religiosi o politici - e personali. 
«Il romanzo, infatti, sorge nel momento della storia dell‟umanità, in cui l‟uomo finisce 
per non credere più agli dei e la cultura si è così complicata e diversificata che la narrazione 
                                                 
16
 Vitolo G., Medioevo, Sansoni, Milano 2005, p. 343. 
 14 
epica, fondata sull‟eroe unico e sul passato collettivo dei popoli, non è più in grado di 
soddisfare le radicali esigenze di espressione e di conoscenza dell‟uomo»17. 
Ma nello stesso momento in cui avviene questo passaggio si rinforza quell‟idea di 
razionalità che ha permesso idealmente una forte opposizione alla fede. Una razionalità non 
sufficiente nel rapporto comunicativo, anzi paradossalmente complice della non 
comunicazione umana che invece affonda le sue radici nell‟irrazionale (emozioni, affetti, 
sentimenti). La ragione stringe “amicizia” con le istituzioni religiose, perché tende a 
reprimere l‟irrazionalità umana che la Chiesa stessa nega, affermando per veritiero come 
unica fonte non razionale, lo spiritualismo dell‟anima, e ricavandone un punto di forza della 
sua predica sulla cultura popolare. La ragione diventa essenziale se finalizzata a scopi 
scientifici, di ricerca, di studi; mentre per la vita relazionale comunicativa non è positiva - 
come la Chiesa o altri istituzioni vogliono farci credere – ma diventa negante per la vera 
identità umana. La ragione, con la sua lucidità, sta dalla parte della fede18, mentre 
l‟irrazionale19 è parte dell‟identità umana, che la Chiesa cattolica combatte. Quest‟ultima 
considera l‟irrazionale psichico il male oscuro, e vuole la chiusura totale alla conoscenza della 
realtà psichica, perché possa parlare ancora di diavoli e streghe, perché possa parlare ancora 
di esorcismo, perché la società possa rimanere nell‟oscurità del suo arbitrio; perché la Chiesa 
abbia ancora facoltà di gestire le menti e la vita degli esseri umani, perché possa considerare 
ancora la donna un essere inferiore20 - nonostante con un‟abile mossa, dopo una evidente 
                                                 
17
 Ortega y Gasset J., Meditazioni del Chisciotte, Guida editori, Napoli 2000, pp. 12-13. 
18
 «L‟attuale papa Benedetto XVI, grande estimatore dei Padri della Chiesa, è tornato a proporre insistentemente 
il binomio fede-ragione, basandosi sull‟assunto, esposto nella conferenza tenuta alla Sorbona di Parigi il 
27/11/1999, che “nel cristianesimo la razionalità divenne religione e non più sua avversaria”. Nell‟aggiunta nel 
2000 all‟Introduzione al cristianesimo, egli dichiara che, dopo il fallimento del maxismo, “unica visione del 
mondo scientifica corredata di motivazione etica”, il vero erede della filosofia occidentale è il “logos cristiano”». 
In Di tutti gi animali selvaggi il più pericoloso è la donna. Perché Ipazia doveva morire, di Cigala Fulgosi F., 
De Smoni E., Salvador E., dalla Rivista di psichiatria e psicoterapia “Il sogno della farfalla”, Nuove Edizioni 
Romane, Anno XVII, n°3, Roma, Luglio 2008,  p. 69. 
19
 Fagioli M., Una vita irrazionale, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007.  
20
 Facciamo un piccolo passo indietro nella storia e precisamente nella storia dell‟Impero Romano. Prima 
dell‟affermazione del cristianesimo con Paolo di Tarso e con la legittimazione poi nel 313 del cristianesimo 
stesso ci troviamo nella situazione in cui la cultura romana era strutturalmente razionale. Basti considerare che 
questa struttura razionale aveva permesso ai romani tutte le grandi conquiste a scapito delle orde dei barbari che 
combattevano selvaggiamente, in maniera disordinata. In questo periodo, proprio la caratteristica multietnica 
della popolazione dell‟Impero accoglieva questi popoli, accettandoli, con le loro numerose religioni, con i loro 
riti, dei e culti: religioni egiziane, orientali, ognuno era libero di adorare il dio che voleva, in base all‟idea del 
politeismo e soprattutto vi era il culto delle immagini che rappresentavano le tante divinità, mentre invece 
l‟immagine nel culto ebraico monoteista, era assolutamente proibita, pena la morte; stesso discorso vale per 
quello cristiano. Irrazionali erano le rappresentazioni di queste immagini, per le quali molto spesso se ne 
avevano tre o quattro per ogni divinità. (in Fagioli M., Storia di una ricerca, Nuove Edizioni Romane, Roma 
2006). Il cristianesimo delle origini pertanto, aveva un carattere gnostico e profetico, venato di irrazionalismo 
che lascia gradualmente il posto al cristianesimo patristico. Sarà con Paolo di Tarso che inizia, nel mondo 
occidentale, il cammino della conciliazione tra la fede e la ragione. Ciò che si tramanda da Platone a Paolo è 
l‟idea di una ragione divina maschile. Pertanto il cristianesimo non allontana la ragione, ma l‟affianca nel 
dominio sulla mente umana, riconoscendone una triade tutta maschile che estirpa ogni memoria delle antiche 
 15 
esclusione e castrazione dell‟identità femminile perpetuata senza nasconderla nell‟antichità, 
tenta oggi di riconciliare le donne con il culto di Maria, vergine immacolata, incorporea e 
asessuata, contraltare di Eva, la femmina perversa che porta Adamo alla perdizione. 
Cominciano così «secoli di mistica della maternità come unica e sublime forma d‟identità 
femminile e l‟imposizione di una nuova immagine di donna casta, remissiva e frigida, pronta 
ad annullarsi nell‟amore per il figlio»21.  
Ed è per questa idea di donna inferiore, umiliata e negata; per tutto ciò che non si 
conosce; per tutto ciò che è solo credenza; per tutto ciò che la comunicazione verbale, dei 
mass media, iconografica ci vuole far pensare, ci vuole dire, far credere;  per tutto ciò che è 
stato scoperto, capito, tenuto nascosto; per tutto ciò che dà emozioni, che stimola l‟amigdala a 
farci assumere atteggiamenti e comportamenti diversi; per tutto ciò che permette la 
trasformazione e il cambiamento. Per tutto questo e anche per concederci l‟evasione in un 
mondo altro, fantastico, immerso nei colori e nella diversità, nell‟umanità e in tutti quei 
contesti in cui si cerca comunicazione e non si ha; per tutto questo ci sono loro: i libri. 
 
«Soltanto nella creazione letteraria, e per mezzo di essa, si può vivere la compatibilità 
immediata di tutte le posizioni sociali che nell‟esistenza comune non si possono occupare 
                                                                                                                                                        
divinità femminili. Pertanto la Chiesa, rifiuta la donna, «errore della creazione, elemento irrazionale, perenne 
minaccia della purezza dello spirito: la religione cristiana si fonda sull‟annullamento dell‟identità femminile». 
Lo stesso Paolo di Tarso dice nella Prima lettera ai Corinzi  «E‟ cosa buona per l‟uomo non toccare la donna», 
(1 Corinzi, VII, 1) ricordando che fu Eva a lasciarsi sedurre dal serpente e a trascinare Adamo nel peccato 
originario; poi nella Lettera ai Romani avverte che «il desiderio della carne è la morte» (Romani, VIII, 3-13). 
Infine chiarisce che l‟unico riscatto per la femmina è nel ruolo di oggetto per la riproduzione: «la donna è salvata 
dal fatto che mette al mondo bambini» (1 Timoteo, II, 15). Pertanto i Padri della Chiesa, per combattere 
atteggiamenti irrazionali, per combattere la diversa natura umana del genere femminile (considerata irrazionale), 
per combattere appunto questo carattere gnostico e profetico, elaborarono una nuova filosofia, cominciando con 
l‟attribuire una diversa natura umana al genere femminile: la quale veniva considerata, non solo inferiore in 
quanto priva di ragione, ma, come da secoli sosteneva la filosofia, maligna e diabolica. Lo stesso Tertulliano 
spiega: «Non ti accorgi, Eva, di che cosa sei? La maledizione che Dio scagliò sul tuo sesso pesa ancora sul 
mondo. Sei tu, colpevole, che devi sopportare il dolore. Sei la porta del diavolo (…). Tu persuadesti con parole 
allettanti l‟uomo che la forza del demonio non era riuscita a vincere» (Tertulliano, De cultu foeminarum, I, 1-2). 
Fu sempre Paolo a ribadire che la donna doveva stare in silenzio enfatizzato dalla struttura gerarchica della 
Chiesa guidata da maschi celibi, che aveva eliminato la partecipazione femminile al sacerdozio, se pur diffusa 
nel periodo rivoluzionario del cristianesimo primitivo. Tertulliano denunciava le capacità delle eretiche che, 
diceva, «sono delle sfacciate! Osano addirittura insegnare, discutere, praticare esorcismi e persino guarire!». Più 
avanti le donne cadranno nella carità cristiana, perché possono e devono essere salvate dalla “colpa di Eva” e 
riconquistare l‟uguaglianza con l‟uomo a patto però di ripudiare la propria natura ed immagine femminile, legate 
al suo corpo peccaminoso. Per espiare deve pertanto di sua volontà sottomettersi al potere patriarcale, deve 
volontariamente riabbassare la testa e lo sguardo; sono questi i nuovi strumenti di controllo congegnati dalla 
religione cattolica per impedire l‟emergere di un‟irrazionale libertà femminile. 
Stralci di questo scritto sono presi da Cigala Fulgosi F., De Smoni E., Salvador E., Op.cit. 
Ferruccio P., Opus Dei segreta. Frusta, cilicio e alta finanza, RCS Libri, Milano 2006. 
21
 Cigala Fulgosi F., De Smoni E., Salvador E., Op. cit., p. 78.  
 16 
simultaneamente e nemmeno in successione. […] La scrittura abolisce le determinazioni, le 
costrizioni e i limiti costitutivi dell‟esistenza sociale. […]22». 
Solo nella letteratura si può “essere” liberi di sentirsi ciò che si vuole. Bourdieu dice: 
«[…] esistere socialmente significa occupare una posizione determinata nella struttura sociale 
e portarne i segni, […] sotto forma di automatismi verbali o di meccanismi mentali; significa 
anche dipendere […] appartenere a gruppi definiti ed essere stretto in reti di relazioni che 
hanno l‟oggettività, l‟opacità e la permanenza della cosa e che si presentano sotto forma di 
obblighi, di debiti, di doveri, insomma di controlli e di costrizioni»23. Ma non solo. La scuola 
dovrebbe essere in grado di abolire questa oggettività personale. E un aiuto potrebbe venire 
proprio dalla letteratura, che dovrebbe essere in grado, con un‟interpretazione ermeneutica 
accompagnata dalle capacità critiche degli insegnanti e dalla loro capacità relazionale, di 
focalizzare ed esternare questa visione multipla dell‟esistenza sociale e pertanto coltivare 
negli alunni, tutte quelle possibilità di democrazia e libertà. 
In riferimento a quanto detto ci è di grande aiuto la tradizione storica-letteraria, anche se 
molto spesso la storia non è gradita agli studenti. Ma se affrontata nella letteratura con la 
partecipazione emozionale e l‟aiuto dell‟insegnante su tutti quegli argomenti che solitamente 
annoiano lo studente, - dove il docente accoglierà con una visione critica e non 
pregiudizievole l‟atteggiamento di rifiuto del discente, riuscendo a portarlo con la fantasia in 
epoche diverse, nel mondo dei nostri antenati, con la loro visione della vita e della storia da 
loro stessi vissuta - diventerà per lo studente, un riferimento essenziale di approccio alla vita 
presente; in questo modo si potrà arrivare a comprendere fino in fondo il pensiero stesso 
dell‟umanità, sia esso nell‟errore, sia esso nella riuscita. E‟ essenziale pertanto, questa 
capacità di coinvolgimento dell‟insegnante ad una valutazione critica, ma soprattutto di 
rielaborazione per ciò che, come la storia, è stata una trasformazione sociale, culturale, 
ambientale ed intellettuale dei popoli: così facendo riusciremmo a fare amare di più la storia 
ai nostri ragazzi e a far capire molto di più il presente. Pertanto comprendere l‟opera narrativa, 
permette una empatia per la visione del mondo propria, di quel gruppo sociale in quel passato 
e in quel contesto. Così facendo potremmo chiedere ai piccoli–grandi lettori di rinunciare a 
vedere un attacco o una critica personale, in ciò che vuole essere un‟analisi passata o presente. 
Il lettore deve accettare di assumere sul proprio punto di vista il punto di vista oggettivante 
che sta alla base dell‟analisi. «Adottare il punto di vista della riflessività non vuol dire 
                                                 
22
 Bourdieu P., Op. cit., p. 83. 
23
 Ibidem, p. 83. 
 17 
rinunciare all‟oggettività, bensì mettere in discussione il privilegio del soggetto conoscente 
[…]»24. 
Il bambino-adolescente inserito in un contesto socio-economico personale definito, da 
adulto può trovare difficoltà di relazione all‟umanità se, durante la prima infanzia e durante 
poi il suo percorso di crescita-formazione non riesce a cogliere tutte quelle sfumature di 
diversità umana; e molto spesso accade che, quando si giunge alla maturità, la struttura 
mentale è già formata in maniera unidirezionale. Se la cultura scolastica manca nell‟intervento 
psico-formativo per una visione sociale integrata con il diverso da sé e sostanzialmente con il 
nuovo, si farà più fatica a formare personalità adulte capaci di una visione della vita non 
pregiudizievole ed egocentrica.  
Quindi potrebbe essere la letteratura, insieme alla comunicazione umana, non solo un 
modo di comunicare il nuovo con l‟insegnante e tra gli studenti, ma sarebbe anche un modo di 
vedere e capire i tanti punti di vista sociali che ci circondano. Sia nella società a noi più 
prossima, sia in quelle più lontane per tempo e per spazio, molto spesso può succedere che il 
libro, per il bambino-adolescente – ma anche per l‟adulto - possa rimanere l‟unica fonte di 
conoscenza.  
L‟insegnante deve quindi accompagnare lo studente attraverso i saperi che compongono 
le realtà altrui; non deve limitarsi, come più volte abbiamo ribadito, alla cultura standardizzata 
dei programmi ministeriali, perché deficitari della cultura umana, quella che poi dovrebbe 
permettere un sano rapporto con la realtà sociale altra da noi. 
 
 
1.2. Il capitale economico culturale letterario e umano. 
 
La vera economia umana si fonda e si basa sul riconoscere l‟insegnamento come fine 
necessario della capacità relazionale dell‟insegnante. Ogni movimento psichico con finalità 
puramente personali basate sulla simpatia, sull‟esser figlio di, su uno standard economico, 
sulle capacità psichiche o meno di un discente, è un puro processo di guadagno economico. E‟ 
capitato di sentire parlare bene di alcuni insegnanti semplicemente perché legati alla 
rappresentanza dell‟edificio scolastico. Viceversa è successo di valorizzare studenti di un 
determinato corso di studi solo per il fatto di averlo svolto in quella specifica struttura. La 
visibilità porta ad enfatizzare il curriculum professionale senza alcun riconoscimento 
oggettivo dell‟effettivo compito svolto in ambito accademico. Il riconoscimento di cui ci si 
                                                 
24
 Ibidem, p. 281. 
 18 
può realmente fidare deve rimanere legato al lavoro effettivamente svolto e alle capacità 
dell‟insegnante stesso di creare relazioni umane nell‟ambito della sua classe. La capacità 
dell‟insegnante di riconoscere il valore umano è espressione della vera arte 
dell‟insegnamento.  
Bourdieu mette in risalto la concezione sacrale della cultura, affermando che omettendo 
di prendere in considerazione le condizioni sociali degli alunni, non ci è permesso di capire i 
fenomeni culturali presenti nell‟aula scolastica, esercitando effetti che lui definisce di 
“violenza simbolica”. Questa omissione culturale ostacola l‟appropriazione della cultura, 
rendendo di fatto la cultura stessa un bene accessibile a pochi. In particolare con il termine 
“violenza simbolica” Bourdieu vuole esprimere quella violenza che di fatto non è riconosciuta 
dalle vittime, ma nella quale le vittime stesse contribuiscono a renderla efficace perché 
accettata come un fatto naturale e legittimo25. Pertanto ci sorge il dubbio che la cultura, con 
questa premessa, voglia raccogliere intorno a sé solo una parte piccolissima di realtà umana. 
Ma al di là del puro calcolo matematico, del profitto economico o dell‟interesse personale, 
credo che la motivazione di tanta ingordigia da parte di una ristretta cerchia di persone, vada 
oltre l‟interesse puramente economico. Ci hanno sempre raccontato che la cultura di massa fu 
ostacolata – e forse tutt‟oggi ancora viene ostacolata – perché si voleva circoscrivere la 
ricchezza ed il prestigio di certe classi sociali. Oggi la questione mi sembra più profonda e 
non può essere risolta parlando di capitale economico o prestigio. 
Negli anni ‟60 e ‟70 c‟è un‟idea conflittuale in riferimento ai metodi d‟insegnamento: 
alcuni dei quali incentrati prevalentemente sul nozionismo e la repressione a vario livello, altri 
risultano essere più incentrati sul pensiero psicologico. E‟ forse dal comprendere questa 
nascita, che il mio pensiero della negazione della libertà culturale prende forma. E‟ quando si 
scopre che la cultura non è più contenutistica o nozionistica o repressiva, ma è diventata un 
modo di apprendere legato alla trasformazione del pensiero, che nasce il problema. E allora le 
persone cominciano a pensare di poter essere libere, di poter scoprire il mondo, di poterlo 
trasformare, di non essere tutti uguali, ma al contrario di poter avere idee nuove, di poter 
amare liberamente, di poter diventare e avere altro, di riconoscersi “cittadini nel mondo”. E‟ 
proprio questa realizzazione che permette tutto quel movimento rivoluzionario degli anni ‟60 
e ‟70.  
 
 
 
                                                 
25
 Ibidem.