INTRODUZIONE
Intraprendere un discorso su Lars von Trier (Copenhagen, 1956)
e sulla sua carriera cinematografica, poco più che ventenne e con
davanti numerosi film in lavorazione, progettati o soltanto ideati,
può apparire un’operazione prematura e rischiosa. Eppure un
complesso sistema di fattori derivanti dal lavoro del regista ci
incoraggia non solo a riordinare e a individuare alcune costanti
lungo la sua filmografia, ma anche a verificare l’opportunità delle
accuse rivoltegli dai media. Lars von Trier è, di volta in volta,
provocatore, nevrotico, fobico, antifemminista, antiamericano,
antiborghese, cattolico ribelle e, naturalmente, regista sui generis.
La sua inafferrabilità caratteriale, accompagnata dalla naturale
predisposizione a far parlare di sé, ha contribuito notevolmente
all’affermazione del movimento cinematografico legato al
manifesto DOGMA ’95, nonché alla rapida rinascita del cinema
scandinavo e all’espansione della casa di produzione Zentropa,
promotrice di grandi realizzazioni e attenta sostenitrice dei nuovi
talenti del Nord.
Dopo due film (L’elemento del crimine e Epidemic) poco
apprezzati, Lars von Trier si aggiudica con Europa un premio
minore al festival di Cannes del 1991, chiudendo non solo una buia
trilogia ambientata in una livida Europa post-olocausto umida e
infetta, ma anche una scrittura troppo regolare e controllata per
garantire al regista quella piena espressione creativa che è, per il
regista danese, abbattimento di limiti inflittagli da quella ricerca di
disciplina intrapresa nell’infanzia. La reazione alle regole, avviata
con un’innovativa serie televisiva che immette il sarcasmo
nell’horror (The Kingdom), prosegue lungo una seconda trilogia
incentrata sul ruolo dell’eroina martire, già protagonista di
un’interessante versione di Medea. Le onde del destino, Idioti e
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Dancer in the Dark (Palma d’oro a Cannes nel 2001) affrontano,
con una spiccata vocazione melodrammatica, tragedie personali
destinate a concludersi con il sacrificio della protagonista.
Parallelamente, alcune scelte stilistiche di von Trier
(dall’utilizzo della macchina da presa direttamente a mano
all’ideazione di un manifesto con tanto di regolamento,
dall’abolizione dei generi alla scelta del musical, dalla predilezione
per gli esterni all’eliminazione degli effetti speciali) nascondono,
dietro le polemiche, una precisa intenzione di riportare il cinema a
una dimensione più autentica e verosimile, libera da ciò che, nella
spettacolarità, risulta fine a se stesso. Fondamentale è il percorso
intrapreso con gli attori, dapprima ignorati e poi coinvolti nella
creazione dei personaggi, grazie all’improvvisazione e a un
radicale lavoro sull’anima dell’interprete, guidato dal regista. Il
recente Dogville, primo capitolo di una nuova trilogia destinata a
suscitare perplessità per la forte componente antiamericana,
propone una dimensione più teatrale e letteraria del cinema, e si
presenta come il frutto più prezioso di questa collaborazione con
gli attori.
Nuovi progetti di von Trier, intanto, non sembrano smentire il
gusto per la provocazione e per la sperimentazione formale: Le
cinque variazioni, a esempio, ostenta entrambe le tendenze con un
sadico gioco al massacro consumato per davvero con un collega.
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CAPITOLO I
GLI INIZI
L’elemento del crimine, Epidemic, Europa, Medea
I.1. Il cinema danese prima di Lars von Trier
Se il più delle volte l’introduzione alle opere di un regista
implica innanzi tutto una panoramica sul contesto cinematografico
nazionale, nel caso di Lars von Trier ciò è pertinente ma al tempo
stesso non necessario. La ragione sta nel fatto che il cinema
danese, il cui successo è da sempre incostante, tende talvolta ad
aggirare una precisa caratterizzazione nazionale ricorrendo
sostanzialmente a due strade: disperde le linee tematiche personali
in diversi generi, e offre all’Europa un buon numero di artisti, per
ottenerne un’identità più debole ma commercialmente più
interessante. Su questi presupposti, dunque, è facile vedere in von
Trier - con i suoi imprevedibili mutamenti e le sue produzioni
internazionali - un ideale continuatore della tradizione danese, e si
manifesta l’esigenza di inserirlo nel contesto nazionale. Occorrerà
però considerare anche e soprattutto quella componente intima,
strettamente legata alla maturazione personale , che spinge il
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regista, nella vita come nei film, a un’instancabile ricerca di pathos
e a un maniacale bisogno di dettare e infrangere una regola dopo
l’altra: qualità, queste ultime, che lo rendono alieno a qualsiasi
schema interpretativo che non sia impostato unicamente sulla sua
biografia.
Precisata, quindi, questa sottile divergenza di base, non resta che
ripercorrere brevemente la cinematografia danese, utilizzando
cfr. I.2
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come chiave di lettura la storia incostante del suo successo al di
fuori dei confini, fino al momento in cui Lars von Trier ravviva
l’attenzione degli europei sulla Danimarca, prima ancora che
questa si accorga di lui.
Carl Theodor Dreyer è il primo, grande maestro a cui si pensa,
volendo cercare nel passato delle autorità nazionali: in questo
modo riconosciamo oggi un talento per lungo tempo isolato e
talvolta sottovalutato, ma occorre ricordare anche l’età “d’oro” del
cinema danese, cronologicamente vicina agli inizi. E’ infatti la
Nordisk Film Kompagni, casa di produzione fondata nel 1906 da
Ole Olsen (impresario, circense, direttore di casinò e, l’anno prima,
costruttore del Biograf Theater, un’importante sala
cinematografica), a segnare l’esordio negli anni ’10, con una
produzione annua di circa 100 film, degna rivale, quindi, della
svedese Svenska e dell’UFA (Universum Film Aktiengesellschaft)
tedesca. Negli anni antecedenti alla grande guerra si affermano già
i primi nomi: l’ex-militare Viggo Larsen diventa attore e regista di
punta, e tenta lo stile documentario in Caccia al leone (Løvejagten,
1907); August Blom lancia la diva Asta Nielsen e con Atlantis (id.,
1913) si cimenta in un melodramma ispirato al recente disastro del
transatlantico Titanic; Forest Holger-Madsen è autore dei primi
grandi successi internazionali di pubblico e critica con Lo Spiritista
(Spiritisten, 1914) e La vita dell’uomo evangelico
(Evangeliemanders, 1915). Grazie alla Nordisk si impone un
cinema con un’identità propria - che non ha più bisogno di rifarsi
ad altre scuole, come quella francese, a causa del suo ritardo in
partenza - già contraddistinto per una decisa tendenza al realismo,
sostenuto nella recitazione essenziale come nello stile rigoroso e
saldo anche nei melodrammi. Un’originalità tutta scandinava, che
tanto incuriosisce gli spettatori europei, è inoltre offerta da un uso
fortemente narrativo del paesaggio (anche in Svezia) e dalla scelta
di temi poco frequentati altrove: uomini in lotta col destino e con
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la natura, drammi sociali con conseguenze alle volte tragiche e via
dicendo, senza dimenticare un’aggressiva componente erotica
(giustificata da un meno austero senso della morale) incarnata da
Asta Nielsen, la quale in seguito avrà la volontà di superare il
personaggio della vamp per cimentarsi in storie più impegnate sul
piano sociale.
Con l’inizio degli anni ’20 inaugurano una notevole produzione
sia Christensen che Dreyer, due autori costretti a vendere il proprio
talento all’estero in seguito all’imminente crisi dell’industria
nazionale: la fine della guerra segna il capolinea di un periodo
felice, e la dispersione del cinema danese (unica eccezione è la
divertente coppia di clown formata da Carl Schenstrom e Harald
Madsen, che riscuotono un notevole successo in patria come in
Francia e in Gran Bretagna, ottenendo soprannomi diversi in ogni
paese). L’attore e regista Benjamin Christensen, dopo un primo
interesse a storie di spionaggio, realizza in Svezia il capolavoro La
stregoneria attraverso i secoli (Häxan, 1922), che, con tono a volte
documentario e a volte polemico nei confronti della Chiesa,
ricostruisce una storia della superstizione fino al Medioevo. In
seguito lavorerà in Germania e a Hollywood.
Dal film di Christensen traggono spunto Ingmar Bergman e,
prima di lui, Carl Theodor Dreyer, immortale autorità del cinema
danese, sul quale è il caso di soffermarsi. Giornalista di teatro e
aeronautica, sceneggiatore e infine regista destinato all’insuccesso,
basa la sua produzione sulla problematica del fanatismo e
dell’intolleranza in ambito religioso, muovendosi fra vampiri e
santi, eresie e miracoli, con al centro l’uomo e i suoi dubbi etici e
metafisici. E ancora il leit-motiv del dolore inteso anche come
sofferenza fisica, lo studio sulla violenza umana, la riflessione sul
Male: tutti interessi maturati in conseguenza di una rigida
educazione calvinista, impostata su un Dio spietato. Non manca
però, in Dreyer, un’ironia grottesca, accompagnata al gusto per
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