8 
 
INTRODUZIONE 
Nell‟immaginario collettivo, il “pentito” di mafia è colui che, al momento della 
collaborazione, si limita a riferire a rendere dichiarazioni circa i fatti su cui è 
interrogato, in realtà si tratta di una considerazione piuttosto restrittiva del valore 
e della portata non solo giuridica, ma anche e soprattutto sociale, che 
contraddistingue la collaborazione. Appare necessario, pertanto, precisare che 
quando tale soggetto decide di rendere dichiarazioni, descrive una societas, con 
le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori, i suoi meccanismi di 
autoconservazione; una realtà, cioè, che si sostanzia di rapporti interpersonali, di 
tessuto sociale, di modelli culturali.  
Ne consegue, allora, che il soggetto che abbia accettato, condiviso e sostenuto i 
valori propri della suddetta societas per poi tradirli (e quindi tradirla), sarà indotto 
a collaborare vuoi per vendicarsi della medesima vuoi per vendicare la medesima 
(accusando ingiustamente altri soggetti che abbiano trasgredito alle regole 
imposte dalla famiglia di appartenenza), ma difficilmente perché voglia 
abbandonarla. Ciononostante, egli decide di (o è indotto a) parlare, e quindi, 
tradire (oppure collaborare, a seconda dell‟angolo visuale da cui si osserva il 
gesto effettuato). 
Sempre nell‟immaginario collettivo, poi, la figura del testimone di giustizia è 
pressoché  sconosciuta, nel senso che, per un verso, si sconosce la differenza 
ontologica intercorrente con il collaboratore di giustizia (e, ad onor del vero, il 
legislatore avrebbe potuto adoperare una terminologia che accentuasse una 
siffatta differenza), per altro verso, invece, si ignora la enorme valenza sociale e 
sociologica del comportamento del soggetto in discorso. Costui, infatti, decidendo
9 
 
di testimoniare, cerca di scalfire quella cappa di omertà e di lassismo che circonda 
ed attanaglia quasi tutto il meridione. Purtuttavia, proprio per l‟omertà di buona 
parte della cittadinanza unitamente al lassismo dello Stato, incapace (o restio) di 
una efficace politica special-preventiva, il testimone di giustizia, sovente, si rende 
conto che “avrebbe fatto meglio a restare in silenzio”. 
Il collaboratore ed il testimone di giustizia, in sostanza, rappresentano le due 
facce della stessa medaglia, i due modi di intendere (ed ispirarsi a) determinati 
valori nel corso degli anni, il “giano bifronte” che con una faccia guarda a ciò che 
dovrebbe essere il passato e con l‟altra a ciò che dovrebbe essere il futuro. 
Questi, dunque, gli attori delle pagine che seguono. Tuttavia, al fine di cogliere 
l‟essenza che ha ispirato gli attuali assetti normativi in materia, si rende 
necessario analizzare questo unicum compatto, utilizzando, come punto di 
partenza gli anni ‟80 e ‟90 i quali, come è noto, sono passati alla storia come gli 
anni della “legislazione di emergenza”. 
Nella sede che qui interessa, la fonte normativa di riferimento è rappresentata dal 
D.L. n. 8\91 convertito, con modificazioni, in L. 82 \91; si tratta, cioè, della prima 
normativa speciale introduttiva del cosiddetto programma di protezione per i soli 
collaboratori di giustizia. In quegli anni, infatti, vuoi perché erano più i mafiosi a 
collaborare, vuoi perché il legislatore non aveva molta dimestichezza 
nell‟affrontare il trattamento dei testimoni di giustizia, tali ultimi soggetti non 
erano ricompresi dal suddetto decreto legge, con la conseguenza che, quando un 
cittadino comune decideva di testimoniare, costui era destinatario della normativa 
prevista per i “pentiti”.  
È opportuno precisare che il D.L. 8\91 non costituiva il primo, men che meno 
l‟ultimo, intervento normativo in ambito mafioso, ma, a differenza degli altri, 
esso veniva a porsi in rapporto di mezzo a fine, dove quest‟ultimo era
10 
 
rappresentato dalla fattispecie di cui all‟art. 416 bis c.p., introdotto nel nostro 
ordinamento solo dopo l‟omicidio del generale Dalla Chiesa. Tale norma è 
caratterizzata da un ambito operativo ed applicativo che, per un verso, risulta 
essere “generico” (perché si riferisce al fenomeno mafioso), per altro verso, 
invece, è “specifico”, perché punisce, sì, più gravemente una serie di reati già 
singolarmente disciplinati dal codice penale, ma la sua “gravità punitiva” è 
subordinata alla prova, quasi impossibile da raggiungere in sede processuale, del 
cd. vincolo associativo. 
È chiaro dunque – e in questo decisivo è stato il contributo del magistrato 
Giovanni Falcone – che, per scardinare il muro di segretezza che circondava un 
fenomeno che ambiva a sovrapporsi allo stesso Stato, quale è la mafia, le 
conoscenze dei suoi “affiliati” venivano a giocare un ruolo decisivo. Questa, 
dunque, la “realtà” su cui la “norma” doveva incidere. Di qui, il D.L. 8\91, ossia 
una legge che, in cambio di informazioni difficilmente acquisibili mediante 
l‟attività investigativa, offriva forti sconti di pena e numerosi vantaggi anche a 
livello penitenziario, tutorio ed economico. Lo stesso Falcone sosteneva che 
questa, era la strada da seguire. 
Negli anni che seguirono all‟entrata in vigore della “norma” in esame, però, 
alcune prassi applicative, unitamente alle lacune di una legge emergenziale e 
sperimentale qual era il D.L. 8\91, aprivano lo scenario ad una serie di disfunzioni 
e distorsioni che, a loro volta, davano luogo ad una serie di conseguenze nocive 
che rischiavano di far collassare il sistema previsto. Si capisce, allora, che, onde 
evitare il collasso di un sistema che, nel suo insieme, aveva consentito di 
infliggere duri colpi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, era 
assolutamente necessario un intervento riformatore della materia.
11 
 
Detto intervento riformatore è rappresentato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45, 
con cui si è provveduto a riorganizzare il precedente sistema di protezione 
mediante modifiche sul piano giuridico, organizzativo ed economico, per un 
verso, e con cui si è introdotta la (anodina a livello lessicale) distinzione tra il 
collaboratore di giustizia ed il testimone di giustizia, prevedendo, per 
quest‟ultimo, una apposita normativa. Tuttavia, l‟aspetto più importante che il 
legislatore del 2001 si era prefissato di correggere, veniva ad essere rappresentato 
dalle cosiddette dichiarazioni a rate da parte dei collaboratori di giustizia. 
Si trattava, cioè, di una prassi in base alla quale i “pentiti” non dicevano tutto 
quello che sapevano, ma si limitavano a fornire quelle informazioni che 
avrebbero consentito loro di accedere alle speciali misure di protezione; la finalità 
di tale comportamento era evidente: in questo modo, infatti, oltre ad essere 
esentati dal carcere duro (se sottoposti al regime di cui all‟art. 41 bis ord. penit.) 
od a riacquistare lo status libertatis più velocemente di quanto avrebbero potuto 
fare non collaborando, i sedicenti collaboratori di giustizia potevano, in sede 
processuale, accusare ingiustamente altri soggetti senza alcuna conseguenza 
rilevante dal momento che, in dibattimento, essi potevano avvalersi dello jus 
tacendi, e, quindi, potevano sottrarsi al confronto con il loro accusato. 
Ovviamente, una situazione del genere non era accettabile. Di qui la L. n. 63\01 
che, dando attuazione ai principi del “giusto processo” (inseriti due anni prima 
nell‟art. 111 Cost.), consacrava la centralità del contraddittorio dibattimentale 
quale unico mezzo per la formazione della prova. È evidente come, tale legge, 
venga ad intersecarsi con quella n. 45\01; tuttavia, sembra potersi affermare che, 
con esclusivo riguardo al collaboratore di giustizia, la legge attuativa del “giusto 
processo” non risolva in modo soddisfacente le problematiche legate alla figura in 
esame sia con riguardo alla questione relativa alle dichiarazioni a rate, sia
12 
 
relativamente alla ulteriore questione delle precedenti dichiarazioni rese e 
confluite nel cosiddetto verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. 
Come si è cercato di dimostrare, sembra quasi che i due legislatori non abbiano 
tenuto conto degli ambiti di intervento delle rispettive leggi, con la conseguenza 
che, ad oggi, sono diverse e profonde le antinomie intercorrenti tra le medesime.
14 
 
CAPITOLO I 
 
EVOLUZIONE NORMATIVA 
 
1.1 Premesse 
“Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, 
se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture e soprattutto se le 
strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati”
 8
. Con queste 
parole, certamente antesignane, Giovanni Falcone delineava, con riferimento al 
fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, un assetto normativo 
caratterizzato da soluzioni che ben presto si rivelarono essere solo miseri 
palliativi. Gli strumenti previsti, infatti, erano del tutto inadeguati non soltanto a 
reprimere il fenomeno “mafia” in quanto tale, ma anche e soprattutto a gestire 
quello che, dal punto di vista processuale, può essere definito il suo corollario 
principale: la collaborazione con la giustizia.  
Si tratta di un fenomeno che, se da un lato resta uno strumento particolarmente 
delicato
9
, dall'altro può essere considerato essenziale nella strategia di contrasto 
alla criminalità organizzata, specie quella mafiosa. 
                                              
8
L‟affermazione di Falcone è contenuta in D‟AMBROSIO, Testimoni e Collaboratori di Giustizia, 
Padova, 2002, p. XI 
9
Sovente infatti, i collaboratori di giustizia si rifiutavano di deporre in dibattimento e pertanto si 
sottraevano al confronto con le persone da loro incolpate. Al fine di interrompere questa tendenza la Corte 
Costituzionale si era pronunciata sul punto sostenendo che al principio del contraddittorio doveva essere 
accostato l‟altro generale principio della non dispersione dei mezzi di prova, in base al quale, anche nei 
casi in cui l‟accusatore si rifiuta di ripetere le sue dichiarazioni in dibattimento, le precedenti dichiarazioni 
da lui rese agli organi delle indagini, possono essere utilizzate per la decisione sulla responsabilità 
dell‟imputato. Corte cost. 26/10/1998, n. 361 in G.U.R.I. 1° serie speciale n. 44, pp. 11 – 43. Con la L.
15 
 
La creazione di una compiuta normativa sui collaboratori di giustizia e, ancor 
prima, la stessa decisione di avvalersi del loro contributo informativo, sono state 
determinate da situazioni politiche, giudiziarie e sociali vissute dal nostro paese 
negli ultimi anni, nonché dalla necessità di ricercare nuove prassi investigative e 
nuovi sistemi normativi finalizzati a contrastare l'espandersi della grande 
criminalità. Ne consegue che la complessiva nuova disciplina sul trattamento dei 
collaboratori di giustizia può essere correttamente compresa solo se la sua 
illustrazione è preceduta sia dall'esposizione delle "tappe fondamentali" attraverso 
le quali le sue linee portanti si sono venute progressivamente definendo sia dalla 
precisa individuazione dei vari "momenti", tra loro collegati e complementari, nei 
quali essa si è venuta articolando
10
. In altri termini, poiché il fenomeno dei 
collaboratori e dei testimoni di giustizia non è che una sfaccettatura del più ampio 
fenomeno “mafia”, ai fini di una più completa esposizione è opportuno 
soffermarsi su tale fenomeno (quantomeno nelle sue linee generali), utilizzando 
come chiave di lettura il rapporto esistente in materia ed acutamente evidenziato 
da D‟Ambrosio, tra “realtà” e “norme”. Tale rapporto, come avremo modo di 
vedere, non soltanto rappresenta  lo strumento più idoneo per comprendere la 
ratio dei vari interventi normativi, ma anche potrebbe coadiuvare nel 
superamento di quei dibattiti sorti in relazione alle misure adottate  proprio in 
virtù di siffatti interventi.   
                                                                                                                                     
63\01, invece, si è tornati ad una impostazione accusatoria. L‟evoluzione legislativa avutasi 
successivamente alla citata sentenza additiva sarà oggetto di studio nel cap. IV. 
10
Cfr. D‟AMBROSIO, op. cit., p. 3
16 
 
1.2 Tappe fondamentali dell’evoluzione normativa: rapporto tra “realtà” e 
“norme” 
Già durante il fascismo, ed anche successivamente, ci si rese conto 
dell‟impossibilità da parte del Regime prima e della c.d. Prima Repubblica poi, di 
esercitare in modo pieno ed efficace la sua sovranità su tutto il territorio. Le 
popolazioni di alcune regioni del Meridione, infatti, solo formalmente si potevano 
considerare cittadini pleno iure di uno stesso Stato, e questa circostanza era 
dovuta in parte al fatto che il potere politico e le forze istituzionali non riuscivano 
a sradicare fenomeni di potentati nati appunto in forza di una sostanziale assenza 
dello Stato
11
, ed in parte al fatto che la risposta delle istituzioni ai molteplici 
campanelli d‟allarme suonati da più parti è stata la “politica dello struzzo”: per 
troppo tempo parlamenti e governi hanno imitato il comportamento di questo 
animale che di fronte ad ostacoli e difficoltà ha l‟abitudine di chiudere gli occhi e 
nascondere la testa per ignorare l‟evidenza
12
. Per queste ragioni durante tutto il 
dopoguerra il fenomeno mafioso fu sottovalutato dal legislatore che anzi arrivò a 
considerarlo come un qualcosa di folcloristico o comunque non preoccupante
13
. 
Il primo intervento normativo compiuto a seguito dell‟istituzione della 
Commissione antimafia fu rappresentato dalla L. 31\5\1965 n. 575 recante 
“Disposizioni contro la mafia”. L‟avvenuto mutamento della realtà criminale e le 
                                              
11
CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Padova, 2010, p. 1 
12
È da notare altresì che fino a non molti anni addietro la “mafia” è sempre stata affrontata come “notizia”, 
associata soprattutto a fatti di violenza, e non come problema inserito in un preciso contesto storico, 
economico, sociale, politico e culturale, contribuendo così ad accreditare nell‟opinione pubblica visioni 
parziali e spesso riduttive della sua reale configurazione. 
13
A conferma di quanto detto possiamo ricordare che la relazione conclusiva della prima Commissione 
parlamentare d‟inchiesta sulla mafia, istituita nel dicembre 1962 con  L. n. 1720, si esprimeva nel senso di 
aderire alla tesi allora dominante che negava l‟esistenza di un‟organizzazione formale mafiosa e che al 
contempo considerava la stessa come un fenomeno di gangsterismo. La suddetta relazione è contenuta in 
TRANFAGLIA, Come nacque la Commissione parlamentare antimafia, in Mafia/Mafie: che fare?, 
GARUTI (a cura di), Milano, 1994, p. 28 e ss.
17 
 
difficoltà riscontrate nei processi contro i mafiosi, di raccogliere il materiale 
probatorio sufficiente, indusse il legislatore ad allargare l‟ambito di applicabilità 
delle misure di prevenzione, già introdotte nel nostro ordinamento con L. n. 1423 
del 1956 che per la prima volta introdusse “misure di prevenzione nei confronti 
delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”. Si trattava 
però di palliativi. E infatti, l‟indifferenza mostrata dallo Stato nei confronti di un 
fenomeno che col tempo si affermò come una vera e propria “antitesi” allo Stato 
stesso, ha portato quest‟ultimo ad intervenire con una produzione normativa, da 
molti definita “la legislazione dell‟emergenza”, la quale, non soltanto in tema di 
mafia ma anche di lotta al terrorismo politico, ha consentito di aggirare le 
garanzie costituzionali poste a tutela del c.d. habeas corpus
14
. Fu soprattutto in 
ambito di libertà personali, infatti, che le norme sostanziali e processuali più 
restrittive introdotte dai copiosi interventi normativi nel settore, toccarono vertici 
di durezza mai raggiunti in precedenza
15
; ciononostante esse non riuscivano ad 
arginare l‟espansione ed il rafforzamento delle organizzazioni criminali di stampo 
mafioso, le cui attività illecite, proprio in quegli stessi anni, furono alquanto vive 
e vitali.  
                                              
14
Si veda in proposito PETRINI, Il sistema di prevenzione personale, in  Violante, Storia d'Italia: la 
criminalità , Annali, vol 12, Torino, 1997, p. 921. Da un punto di vista normativo, cfr. legge 22 maggio 
1975 n.152 recante “Disposizioni a tutela dell‟ordine pubblico”, detta anche “legge Reale”. Siffatta legge, 
che all‟art.19 prevedeva l‟equiparazione di trattamento tra gli indiziati di mafia ed i soggetti responsabili 
di atti preparatori diretti alla commissione di reati di sovversione e terrorismo per quanto riguardava 
l‟applicazione delle misure di polizia, non risolveva i notevoli problemi interpretativi circa 
l‟individuazione dell‟ambito soggettivo del concetto di “indiziati di mafia” introdotto per la prima volta 
dalla legge n. 575\1965.  
15
Significativo in tal senso, quanto dichiarato dal Ministro di grazia e giustizia Giuliano Vassalli nel corso 
di una seduta parlamentare a proposito delle misure di prevenzione: “Queste ultime sono state 
ripetutamente sottoposte al vaglio della Corte costituzionale; indubbiamente, esse, suscitano alcune 
perplessità, ma la lotta contro alcune manifestazioni pericolose per la società, anche quando non si 
manifestano immediatamente in maniera criminosa, può essere un’esigenza non in contrasto con la 
pratica legislativa ed amministrativa di uno stato democratico”. Camera dei deputati, X legislatura, 
seconda commissione, 1 febbraio 1989, p. 11
18 
 
Ed è proprio in questo contesto che trova perfetta ed indispensabile collocazione 
il rapporto tra “norme” e “realtà”, la cui conoscenza ed analisi sono essenziali per 
cogliere appieno il senso delle effettive ragioni che, di volta in volta, hanno 
ispirato la emanazione delle leggi, le loro modificazioni o le loro integrazioni. 
Basti pensare ad esempio che le disposizioni sul “pentimento” degli autori di fatti 
di eversione furono introdotte dopo la scoperta dei primi covi terroristici e 
l‟arresto di alcuni esponenti di spicco delle Brigate Rosse, responsabili, tra l‟altro, 
del sequestro e dell‟omicidio dell‟on. Aldo Moro e della sua scorta; oppure 
ancora che le previsioni di una circostanza aggravante per i fatti di mafia e di una 
circostanza attenuante nel caso di collaborazione nelle indagini sugli stessi fatti 
furono inserite nei decreti-legge emanati subito dopo gli agguati nei confronti dei 
magistrati Antonino Scopelliti e Rosario Livatino; oppure, infine, che la legge n. 
646\1982, più comunemente conosciuta come “legge Rognoni-La Torre”, 
introduttiva dell‟art. 416 bis c.p., è stata varata soltanto dopo l‟omicidio del 
generale Dalla Chiesa. In particolare, attraverso tale articolo, attualmente 
rubricato Associazioni di tipo mafioso anche straniere
16
, il legislatore non solo 
sancì il carattere illecito dell‟organizzazione mafiosa, ma tentò per la prima volta 
di darne una definizione giuridica che fosse capace di individuare i suoi 
meccanismi di funzionamento. Tuttavia c‟è stato chi ha sottolineato la non reale 
necessità dell‟art. 416 bis c.p., evidentemente sul presupposto che fossero 
sufficienti le varie singole fattispecie criminose collegate a tale fenomeno previste 
dal nostro ordinamento
17
. Se si considera inoltre che nemmeno gli studiosi più 
attenti al fenomeno, nemmeno gli operatori più impegnati sono in grado di 
delineare con precisione i confini entro cui si incardina il significato 
                                              
16
La rubrica è stata così modificata ex art. 1, c. 1, lett. b-bis, D.L. 23\5\2008, n. 92, convertito. in l. 
24\7\2008, n. 125 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” 
17
MONACO, Le risposte del sistema sanzionatorio ai fatti di criminalità organizzata, in AA. VV., 
Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, MOCCIA (a cura di), Napoli, 1999, p. 247
19 
 
dell‟espressione “criminalità organizzata” si potrebbe giungere alla conclusione 
che la norma in esame non sia altro che una sorta di “contenitore” che, 
individuando – e neppure con troppa precisione – le figure criminose che 
rientrano nel relativo ambito, giustifica l‟adozione di un complesso di norme 
eccezionali di carattere repressivo e preventivo. Resta però il fatto che l‟art. 416 
bis c.p. ha alla base più di una ragione giustificatrice; da un lato la norma intende 
evidenziare il particolare disvalore della criminalità mafiosa, dall‟altro lato la 
configurazione di una fattispecie ad hoc tende all‟obiettivo pratico di rimediare 
all‟inadeguatezza della tradizionale fattispecie dell‟associazione per delinquere a 
reprimere la fenomenologia di stampo mafioso. A ben vedere anche questi brevi 
cenni circa l‟art. 416 bis c.p. e la difficoltà di trovare una definizione giuridica di 
criminalità organizzata pienamente condivisa, costituiscono una delle varie 
sfaccettature che compongono il più ampio rapporto che, in materia, esiste tra 
“realtà” e “norme”. Dal breve excursus effettuato si evince chiaramente che le 
varie soluzioni normative succedutesi nel tempo sono sempre state strutturate e 
previste per rispondere ai tentativi, da parte della criminalità organizzata, specie 
quella di stampo mafioso, di delegittimare l‟autorità dello Stato o addirittura di 
sostituirsi ad esso. Si capisce quindi che le risposte ordinamentali non potevano 
limitarsi ad un solo settore del diritto penale ma dovevano necessariamente 
abbracciare più ambiti dello stesso. Va da sé, pertanto, che le “norme” erano e 
sono consequenziali e concernenti alla “realtà” su cui dovevano, e devono, 
incidere.  
Più precisamente, se si considera che in ambito di criminalità organizzata di 
stampo mafioso, il legislatore è intervenuto su più fronti (diritto penale, 
sanzionatorio, penitenziario e processuale), si comprende quanto sia rilevante, al 
fine di meglio comprendere la ratio di ciascun intervento legislativo, individuare
20 
 
con precisione il significato da attribuire a quel determinato tipo di “realtà” che, a 
sua volta, ha portato all‟emanazione di quel determinato tipo di “norma”.  
All‟interno del codice penale, infatti, l‟art. 416 bis c.p. si configura quale genus  
costituito da una molteplicità di species (i delitti e le condotte illecite in esso 
descritti, proprio perché il perimetro del fenomeno “mafia” non è circoscritto al 
solo ambito giuridico, ma si estende anche a quello sociale, economico e politico.  
Prima di affrontare nel merito la questione del testimone e del collaboratore di 
giustizia, quindi, è opportuno soffermarsi sull‟altra e più generale questione 
relativa allo stretto legame  che, in materia, intercorre tra “realtà” e “norme”. 
1.2.1 Segue: accezioni di “realtà” e “norme” nel momento sanzionatorio 
L‟analisi di questo legame infatti non soltanto è utile al fine di fornire un quadro 
più completo della materia in esame, ma anche può aiutare a capire i motivi per i 
quali l‟elaborazione della disciplina introdotta dalla legge n. 45\2001 sul 
trattamento dei collaboratori e dei testimoni di giustizia è stata particolarmente 
lunga e travagliata. Una prima accezione di “realtà” è quella rappresentata dalla 
c.d. “quotidianità”. Significative in proposito sono le parole di Giovanni Falcone: 
“Quanto meno Stato, tanto più mafia; quanto più incoerente e debole o 
semplicemente emergenziale è la lotta repressiva, tanto più forte è la mafia”
18
. Se 
la “realtà”, quindi, si intende in tal senso, la “norma” non può che intendersi nel 
senso di diritto penale sostanziale. In tale ambito l‟intervento normativo si è 
mosso prevalentemente sul piano della commisurazione della pena: codice penale 
e leggi speciali infatti prevedono significativi aggravamenti o diminuzioni di pena 
a seconda del tipo di condotta, collaborativa o meno, tenuta dall‟autore del fatto. 
                                              
18
FALCONE, Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con  PADOVANI, Milano, 1991, p. 93
21 
 
Si pensi ad esempio alla previsione di circostanze aggravanti speciali e ad effetto 
speciale per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell‟ordine 
costituzionale
19
 (la pena è aumentata della metà) o per i delitti commessi 
avvalendosi delle condizioni di cui all‟art 416 bis c.p. o commessi al fine di 
agevolare l‟attività delle associazioni di tipo mafioso
20
 (la pena è aumentata da un 
terzo alla metà), oppure ancora alla creazione di specifiche ed autonome ipotesi di 
reato che differiscono da quelle ordinarie solo per il movente specifico e, 
appunto, per la più elevata pena che le caratterizza
21
. Nello stesso tempo, più 
disposizioni di legge prevedono a loro volta significative diminuzioni della pena 
per gli autori dei reati di mafia o di terrorismo che, dissociandosi dagli altri, si 
adoperano per evitare che l‟attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze 
anche aiutando l‟autorità giudiziaria o di polizia nella raccolta di elementi 
decisivi per la ricostruzione dei fatti
22
. Un‟ulteriore conferma della validità di 
questa prima accezione del legame “realtà” – “norme” è data dalla previsione di 
quelle norme incriminatrici che incidono sui proventi delle attività illecite, quali 
le norme antiriciclaggio
23
 e che colpiscono i rapporti tra organizzazioni criminali 
                                              
19
V. art. 1 D.L. 13\5\1979, n. 625, conv. con mod. in L. 6\2\1980, n. 15 
20
V. art. 7 D.L. 13\5\1991, n. 152, conv. con mod. in L. 12\7\1991, n. 203. Ai sensi poi del 2° comma del 
citato art. 7 si esclude che possa operare un giudizio di bilanciamento con le eventuali circostanze 
attenuanti diverse da quella di cui all‟art. 98 c.p. ed in ogni caso le eventuali diminuzioni di pena “si 
operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente” alla circostanza aggravante di cui al 
1°comma. È opportuno menzionare anche l‟art. 5, che, modificando l‟art. 275, c.3 c.p.p. poi ulteriormente 
modificato dall‟art.1 d.l. 292\1991, stabilisce che, per i delitti di mafia, non possono essere applicate 
misure cautelari meno gravi della custodia in carcere (va detto che l‟art. 275 è stato ulteriormente 
modificato dall‟art. 5 L. 332\95, nonché dall‟art. 2, c. 1, lett. a) D.L. 23\2\09, n. 11, convertito, con 
modificazioni, in L. 23\4\09, n. 33). 
21
Cfr. artt. 289 bis, 605 c.p. ed art. 630 c.p. in tema di sequestri di persona; oppure artt. 270 bis, 416 bis ed 
art. 416 c.p. in tema di associazioni per delinquere. 
22
V. art. 8 D.L. 13\5\1991, n. 152, conv. con mod. in L. 12\7\1991, n. 203 
23
Il D.L. n. 629 conv. con mod. nella L. 12\10\1982, n. 726 recante “Misure urgenti per il coordinamento 
della lotta contro la delinquenza mafiosa” istituì l‟Alto Commissariato per il coordinamento contro la 
delinquenza mafiosa, cui vennero attribuiti particolari ed autonomi poteri di indagine presso le pubbliche 
amministrazioni, gli enti pubblici anche economici, le banche nonché gli istituti di credito pubblici e 
privati, con la possibilità di avvalersi degli organi di polizia tributaria nell‟espletamento delle proprie 
funzioni.
22 
 
e politica, quali il reato di scambio elettorale politico-mafioso previsto dall‟art. 
416 ter c.p.  
1.2.2 Segue: accezioni di “realtà” e “norme” nelle misure di prevenzione 
Data l‟ampiezza del fenomeno in esame, si capisce che lo sforzo di contrastare la 
criminalità organizzata non può esaurirsi nella sola repressione della stessa 
attraverso la previsione di specifiche norme incriminatrici
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. L‟esperienza 
giudiziaria, infatti, ed in particolare l‟attività investigativa di Giovanni Falcone, 
ha contribuito a dimostrare che il vero “tallone d‟Achille” della mafia è 
rappresentato dalle tracce documentali lasciate dalla grande circolazione di 
danaro connessa allo svolgimento delle attività illecite. Del resto, non bisogna 
dimenticare che l‟obiettivo ultimo della criminalità organizzata di tipo mafioso è 
rappresentato, in definitiva, dall‟accumulazione di ingenti capitali finalizzata alla 
acquisizione di una posizione di monopolio sul mercato; in nome di detta finalità 
sono stati (e sono) commessi i più efferati crimini. Di conseguenza, si comprende 
come, se il concetto di “realtà” vada inteso nel senso appena esposto, quello di 
“norma”, e cioè la risposta ordinamentale, debba necessariamente intendersi nel 
senso di misura di prevenzione praeter delictum.  
Com‟è noto, tali misure hanno come caratteristica peculiare quella di essere 
applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato (ed in 
questo si distinguono dalle misure di sicurezza), esse, pertanto, sono, per loro 
natura, svincolate dalla commissione di un precedente reato e quindi dalla 
garanzia del “fatto”. A questo punto, se si considera che il diritto penale deve 
anzitutto avere un volto costituzionale, ed in secondo luogo, deve essere un diritto 
                                              
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Cfr. CORVI, op. cit., p. 11