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Premessa
L’attenta disamina da me effettuata sul pensiero kantiano relativo
alla sua idea di politica, spesso trascurata e non considerata nella sua
giusta dimensione, mi ha indotto a ripercorrere ed approfondire il
tentativo del filosofo tedesco, di dare credibilità e stabilità
all’equilibrio giuridico-internazionale.
La riflessione kantiana è un punto decisivo nello sviluppo della
modernità, lo sforzo di porre in essere un diritto riconosciuto
universalmente legato indissolubilmente ad una coscienza morale è un
merito da imputare esclusivamente a Kant. Le sue supposizioni, le
convinzioni tratte dalla sua meditazione, sono un’eredità
considerevole, un tesoro inestimabile, che ha dato avvio a studi e
progetti di democrazia cosmopolitica condotti da piø studiosi.
Proposte autorevoli di cui ho discusso ( capitolo III ) e che rilevano la
stretta attualità dei temi kantiani e la lungimiranza degli stessi nel
precorrere la società globalizzata odierna.
La kultur assieme alla politica e alla morale, sono i mezzi piø idonei
a favorire la crescita dell’umanità tramite i quali è possibile
incoraggiare lo sviluppo umano e il processo di democratizzazione in
tutto il mondo. Il progetto pacifista kantiano, espletato nella pace
perpetua, non è solo l’ideazione di una possibile repubblica mondiale
o l’ambizione di giungere ad un ordine transnazionale, ma come si è
tentato di spiegare nella ricerca svolta, vi è l’intento di orientare
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l’individuo verso un progresso civico: fondamentale per lo sviluppo
delle stesse risorse insite e troppe volte inespresse dall’uomo.
Il progetto cosmopolitico quindi non allude solo alla formazione
immaginaria di un ente sovrastatale, ma si palesa tramite
l’accettazione delle differenze, non piø intese come elemento di
contrasto, ma riconoscimento di una ricchezza culturale, che trae
origine dall’esigenza del coesistere, dallo scongiurare una visione
parziale, potenzialmente anarchica.
La realizzazione del cosmopolitismo, erge l’uomo e il diritto, in un
binomio inscindibile, che guida l’umanità verso la destinazione piø
consona: quella morale. Un traguardo reso possibile dal
perfezionamento delle disposizioni naturali, proprie dell’uomo; uno
sforzo riscontrabile non tanto dall’impegno del singolo, ma da quello
di tutto il genere umano, laddove, in ogni caso è chiamato a
partecipare ogni individuo, il quale coopera a quell’idea da avverare,
impiegando tutte le forze necessarie al compimento. Lo stesso
fenomeno della globalizzazione, è percepibile come l’individuazione
della nostra condizione di limitatezza, in quanto denuncia quella
miseria umana, che ci costringe alla fratellanza cosmopolitica e a quel
regno dei fini, kantianamente inteso, trasformatosi in utopia realistica.
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Capitolo I – IL PROGETTO GIURIDICO-FILOSOFICO PER
UNO STATO DI PACE SECONDO I. KANT
1.1 Introduzione al progetto filosofico della “pace perpetua.”
Il Settecento, secolo di rivoluzioni ed utopie, è quello che
maggiormente si è speso sul tema dell’aspirazione alla felicità
individuale e collettiva, stima una considerevole produzione
filosofica-letteraria intorno ai progetti di pace perpetua. Tra i primi
risultati apparsi, c’è da annoverare un trattato scritto nel 1711
dall’abate di Saint-Pierre, Charles-Irènèe Castel. L’autore, che aveva
maturato una preziosa esperienza come segretario del ministro
plenipotenziario francese ai negoziati preliminari della pace di
Utrecht, cercò di individuare le condizioni che potessero condurre alla
fondazione di una sorta di “lega delle nazioni”, in modo da poter
regolamentare le contese fra Stati, contenendole all’interno di una
dialettica diplomatica, che evitasse il ricorso al mezzo della guerra. Le
intenzioni dell’abate di Saint-Pierre proseguivano, sulla stessa linea
del duca di Sully, Maximilien de BØthune, il quale nei suoi MØmoires,
scritti nel 1638, in un’Europa martoriata dalla guerra dei Trent’anni,
intuiva la necessità di realizzare una repubblica federale europea, retta
da un unico governo ispirato alla morale religiosa.
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Alla fine del Seicento invece, fu significativa l’esperienza politica
concreta di William Penn, il quale realizzò in America, a partire dalla
colonia da lui fondata, la Pennsylvania, una sorta di confederazione
non armata, che aveva stabilito con gli indiani del nord America,
rapporti improntati alla non violenza. L’esperimento ebbe vita breve,
ma rimase l’idea di un “parlamento universale”, nel quale trovassero
posto delegati di tutti i paesi, in relazione alla grandezza delle
rispettive nazioni. Seguendo il percorso degli scrittori citati, anche
Jean-Jacques Rousseau offrì il suo contributo alla questione pacifista,
commentando lucidamente l’opera di Saint-Pierre. Mettendo in rilievo
aspetti solo abbozzati dall’abate, comprese l’esigenza di ricercare una
via giuridica alternativa all’utilizzo dei conflitti, che riducevano la
libertà di commercio e interrompevano bruscamente, l’attività civile
della società.
Convinto sostenitore delle potenzialità del dialogo, come mezzo di
risoluzioni di crisi fra Stati, riteneva essenziale che si tenessero
periodicamente conferenze, come sede ideale per dirimere le
controversie internazionali. Una tesi che trovò una prima applicazione,
nel Congresso di Vienna apertosi nel 1814, che portò alla ratifica della
Santa Alleanza e della Quadruplice Alleanza, che ebbero il fine di
sostenere con la forza militare le disposizioni del Congresso. La
politica dei “congressi” di Rousseau non aveva come fine la
realizzazione di una pace perpetua fondata su un governo mondiale,
quanto costruire e conservare un equilibrio fra le potenze europee che
si erigesse sullo status quo preesistente. In altre parole lo strumento
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solidaristico aveva come scopo, una politica comune di difese degli
interessi dei sovrani legittimi, volta a rendere inefficace idee e
movimenti rivoluzionari. Il compimento di tale idea, era possibile solo
con la creazione di una confederazione che doveva essere irrevocabile:
uno Stato membro della stessa non avrebbe potuto congedarsi
dall’alleanza dopo esservi capziosamente entrato per vedere tutelati i
propri diritti.
Secondo Rousseau la confederazione era inesorabile poichØ tutte le
potenze europee già nel Settecento erano, a suo parere, unite in quello
che egli definiva una “sorta di sistema”, contraddistinto dalla
condivisione di valori ed elementi comuni: la tradizione giuridica, la
cultura, la religione e gli scambi commerciali.
L’accadimento storico che colpì Immanuel Kant e lo spinse alla
stesura del Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Eniwurf
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, fu
invece la pace di Basilea del 1795, con la quale veniva posta fine alle
ostilità tra la Francia rivoluzionaria e la Prussia. La traduzione italiana
del titolo di quest’opera è ambigua: potendo significare, per la pace
perpetua/verso la pace perpetua/alla pace perpetua. Formule che
richiamano il riposo eterno, solitamente invocato per i defunti al
cimitero. Ma la pace ultima a cui siamo destinati se coinvolti in
conflitti fratricidi, non è quella che vuole evocare il filosofo tedesco,
invece proteso ad allontanarne la prospettiva. Il libello ebbe subito
successo, tanto che fu fatta una seconda edizione dopo pochi mesi,
arricchita da due supplementi ed un’appendice. Presto tradotta in
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Traduzione: “ Per la pace perpetua. Un progetto filosofico”
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francese ed inglese per via dell’originalità degli argomenti affrontati.
Kant, convinto sostenitore dei valori rivoluzionari, aveva definito Per
la pace perpetua un progetto filosofico di carattere pratico. Un’idea
nella quale espose e propose meccanismi ideati per superare il
problema della guerra ed assicurare una pace davvero duratura e
stabile, per lo appunto, perpetua. Ad oggi il prospetto kantiano non ha
avuto alcuna applicazione reale, ma è la storia stessa che lo erge per la
validità dei suoi princìpi: la sua visione giuridica del mondo; il diritto
come mezzo per la pace e robusto motore di legittimazione: la nascita
di organizzazioni internazionali che perseguono la pace come scopo
ultimo, il superamento dello stesso diritto internazionale inteso solo
come jus belli; sono elementi sufficienti che avvalorano la fortuna di
tali ideali. E’chiaro che oggi tali considerazioni sono facili da
assodare, ma nel 1795, gli interventi a sostegno della pace e la loro
utilità e necessità erano molto discussi, perchØ ritenuti vagheggiamenti
ideali, quanto irrealizzabili. Kant sfidò i pregiudizi dell’epoca,
presentò il suo scritto nella forma di un progetto filosofico. Non si
fermò ai criteri utili per individuare e raggiungere le condizioni
interne e internazionali per la pace, come era già stato fatto in
precedenza. Tentando invece di mostrarne l’utilità, dovuta ad una
concretezza storica, progettuale, alla quale il testo mirava: una via
perseguibile con i mezzi della ragione che potesse almeno
approssimarsi, se non raggiungere quell’ideale. Dando esecuzione a
quel avanzamento morale dell’umanità, che si sviluppa nel corso della
storia ed il fine a cui aspira l’uomo stesso. A capo dell’idea di pace, va