___________________________________________________1. Introduzione - 1  
1. Introduzione
1.1. Ascesa e declino della Pax Americana
L’ordine economico internazionale del secondo dopoguerra
Il modello economico internazionale sviluppatosi nel secondo dopoguerra può essere 
definito come un sistema multilaterale incentrato sullo stato nazione. Sue caratteristiche 
fondamentali erano l’interventismo statale e la produzione di massa. Per il tramite di 
politiche economiche e sociali gli organismi governativi garantivano i cittadini nei 
confronti degli eventuali rischi scaturiti dalle liberalizzazioni economiche internazionali. A 
differenza del gold standard, caratterizzato dal cosiddetto laissez-faire, il nuovo sistema 
traeva la sua forza dalla capacità dei moderni stati capitalistici di porre in atto efficaci 
politiche pubbliche.
1
 L ’embedded liberalism (liberalismo incorporato) promosse 
liberalizzazioni significative nell’ambito del commercio internazionale ma non mise mai in 
secondo piano l’obiettivo di garantire il benessere dell’intera comunità nazionale. L’enfasi 
posta nelle politiche orientate al mercato era bilanciata dagli sforzi per incrementare la 
coesione sociale. Una forma di bilanciamento di interessi che venne ad assumere forme 
diverse a seconda delle latitudini in cui venne applicata. Negli USA si adottò il New Deal 
State mentre in Europa occidentale la socialdemocrazia.
2
La nuova forma di organizzazione politico-economica venne supportata dal 
contemporaneo sviluppo della produzione e del consumo di massa. Il nuovo paradigma 
produttivo di ispirazione fordista consentì, infatti, ai paesi occidentali di ottenere elevati 
tassi di crescita economica e garantire di conseguenza la stabilità. Cardini del nuovo 
modello produttivo erano: un efficiente sistema di regolazione, un insieme di istituzioni 
nazionali che consentivano il buon funzionamento di un sistema di mercato oligopolistico, 
un legame particolare tra salario e lavoro che garantiva un aumento generalizzato del 
tenore di vita, le istituzioni tipiche dello stato sociale e una divisione del lavoro su scala 
geografica. La divisione del lavoro ed una produzione di massa standardizzata erano 
garantite dal progresso tecnologico che offriva la possibilità di impiegare macchinari 
specializzati.
3
 Al fine di garantire ulteriormente la stabilità politica ed economica venne 
stipulato un patto sociale
4
 interno a ciascun paese. Si trattava di un accordo tra manager e 
lavoratori, o più in generale tra capitale e lavoro, questi ultimi avrebbero accettato 
l’autorità dei dirigenti d’azienda e una divisione del lavoro maggiormente pronunciata, ma 
in cambio avrebbero ottenuto salari adeguati che sarebbero stati adattati all’andamento 
dell’inflazione e della produttività. Una cooperazione che funzionò grazie alla “presenza di 
1
 Michel Goyer, “Globalization and the Embedded Liberalism Compromise: The End of an Era?” MPIfG 
Working Paper 97/1 pp. 7 - 8
2
 David Held, Governare la globalizzazione, il Mulino, Bologna 2005 p. 39 (ed. orig. Global Covenant. The 
social democratic alternative to the Washington Consensus, Polity Press, Cambridge 2004)
3
 Jamie Peck, Nik Theodore, “Comparing capitalism: theorizing the persistence of institutional variation” 
Paper for the second DEMOLOGOS meeting, Vienna, 16 – 18 June 2005 p. 14
___________________________________________________1. Introduzione - 2  
una fitta e complessa rete di istituzioni interdipendenti”
5
 tra le quali il welfare state, la 
contrattazione collettiva, una politica monetaria accomodante e l’intervento diretto dello 
stato in ambiti di importanza primaria per la comunità quali ad esempio l’istruzione e la 
sanità. 
La grande impresa fordista, il welfare state e i sindacati in ambito nazionale e il sistema di 
Bretton Woods in ambito internazionale funsero da pilastri per la cosiddetta pax 
americana. Un regime che dal secondo dopoguerra agli anni ’70 garantì la crescita e lo 
sviluppo nei paesi occidentali e che ne influenzò profondamente anche la società civile. I 
paesi dell’Europa occidentale ed il Giappone adottarono quei modelli di produzione e 
consumo di massa originari degli Stati Uniti che trasformarono in maniera significativa 
l’organizzazione della vita sociale. Politici ed uomini d’affari di questi paesi si recarono 
numerosi negli USA a studiare il funzionamento del modello fordista. Ciò influì in modo 
significativo su numerosi aspetti della vita sociale, i paesi occidentali in quegli anni non 
vennero accomunati solo da una crescita economica sostenuta ma anche dalla convergenza 
di alcune istituzioni sociali e politiche. Si trattò di cambiamenti significativi anche se dopo 
un lasso di tempo relativamente breve ciascun paese adattò le pratiche fordiste alla propria 
tradizione economico-istituzionale. Istituzioni e politiche nazionali cercarono di evitare che 
l’applicazione di pratiche produttive esogene potesse avere effetti deleteri nella comunità 
nazionale. In Germania ad esempio non vennero abbandonate la produzione di qualità e la 
differenziazione che avevano caratterizzato la storia economica del paese sin dall’inizio del 
processo di industrializzazione. 
Il declino della pax americana, la crisi degli anni ‘70
Il paradigma politico-economico dominante nel secondo dopoguerra rese possibile una 
mediazione tra le istanze di coloro che spingevano per una maggiore apertura dei mercati e 
le istanze di chi voleva preservare l’autonomia dei singoli governi nazionali nelle loro 
politiche economiche e sociali. Il compromesso raggiunto sia su base nazionale che su base 
internazionale funzionò bene fino agli anni ’70. Da quel momento in poi si verificarono dei 
cambiamenti significativi che ne minarono le basi. Una consistente manovra speculativa 
contro il dollaro e il crescente deficit commerciale accumulato dagli USA a seguito della 
guerra del Vietnam spinsero nel 1971 l’amministrazione Nixon ad abbandonare la 
convertibilità del dollaro in oro. Ciò significò la fine del sistema di cambi fissi di Bretton 
Woods. La situazione peggiorò ulteriormente quando l’OPEC decise di quadruplicare il 
prezzo del petrolio generando una prima crisi petrolifera a cui fece seguito una seconda nel 
1979. La crisi interessò l’intera economia mondiale rendendo palesi alcuni limiti del 
sistema. La risposta dei paesi occidentali si indirizzo verso un rafforzamento del ruolo 
delle istituzioni di mercato che ebbe come diretta conseguenza l’aumento della 
competizione su scala internazionale. Il modello produttivo fordista venne sostituito da un 
nuovo paradigma orientato alla produzione flessibile. Il nuovo clima competitivo e i 
cambiamenti istituzionali in ambito internazionale privarono le grandi imprese di quel 
quadro di certezze che aveva consentito loro di programmare politiche industriali di lungo 
4
 Robert Boyer, “L’ipotesi della convergenza rivisitata: globalizzazione e stato nazionale” in Suzanne Berger, 
Ronald Dore (a cura di), Differenze nazionali e capitalismo globale, il Mulino, Bologna 1998 (ed. orig. 
National Diversity and Global Capitalism, Cornell University Press, New York, 1996)
5
 Robert Boyer, op. cit., p. 58
___________________________________________________1. Introduzione - 3  
periodo. Una risposta immediata alla crisi da cui vennero investite fu il trasferimento di 
alcuni segmenti produttivi ad imprese di piccole dimensioni che consentivano una 
maggiore flessibilità. 
Anche gli Stati Uniti, paese leader sulla scena mondiale, si rivelarono incapaci nel gestire 
una crisi che per rapidità e intensità li aveva colti impreparati. La loro risposta si concentrò 
sulla riforma sia delle istituzioni economiche interne sia di quelle internazionali, sfruttando 
il proprio ruolo di paese guida dell’economia mondiale. I cambiamenti a cui si assistette in 
quegli anni erano frutto non solo della crisi internazionale ma rispondevano anche ad un 
determinato progetto politico che era stato sperimentato in Cile nei primi anni ’70. Una 
strategia che si ispirava alle idee di Milton Friedman e Friedrich von Hayek esponenti della 
cosiddetta scuola di Chicago. A diventare centrale era la libertà individuale e allo stato e 
alla società veniva riconosciuto solo una funzione minima sia nel garantire la sicurezza 
economica che nell’intervenire direttamente nei processi economici. Lo stato sociale 
veniva visto come un distruttore della libertà individuale e gli organismi pubblici come una 
minaccia al buon funzionamento dei mercati.
A seguito della crisi economica degli anni ’70, negli USA fu soprattutto l’impianto 
istituzionale alla base del cosiddetto New Deal State ad essere messo sotto accusa. Si 
trattava della risposta statunitense alla grande depressione del 1929, causata dal crollo del 
regime internazionale basato sul laissez faire. Un sistema che se paragonato alla 
socialdemocrazia di stampo europeo era più modesto negli obiettivi e meno presente 
nell’attività economica privata. Esso non si proponeva di trasformare il capitalismo ma 
bensì di stabilizzarlo. Gli strumenti di cui era dotato erano soprattutto politiche monetarie 
e fiscali di ispirazione keynesiana che dovevano garantire la piena occupazione e una rete 
di servizi sociali per la fascia di cittadini più bisognosi. Lo stato sociale era quindi molto 
meno sviluppato di quello europeo. Nel 1960 per aumentare gli interventi sociali e rendere 
fruibili tali sostegni pubblici ad un maggior numero di cittadini venne lanciato il progetto 
della cosiddetta Great Society. Per rendere tale disegno politicamente accettabile si 
dovette, però, ridurne sensibilmente l’entità rispetto agli ambiziosi obiettivi iniziali. Venne, 
infatti, a crearsi un forte contrasto tra le istituzioni statali che cercavano di ritagliarsi un 
ruolo maggiore in ambito economico e le varie lobby che vedevano tale eventualità come 
un danno più che come un vantaggio. Se negli Stati Uniti l’interventismo statale veniva 
fortemente osteggiato, in Europa si verificava l’effetto opposto. Mentre in tutti i paesi 
dell’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) la spesa sociale 
aumentava significativamente negli Stati Uniti gli aumenti furono di entità sensibilmente 
ridotta. Tra il 1960 e il 1975 negli USA la quota del PIL destinata a tali spese passò 
soltanto dal 10 al 19%. Poi nel decennio successivo al fine di rispondere alla crisi 
economica i capitoli della spesa sociale vennero addirittura ridotti.
6
 La parola d’ordine del 
nuovo corso economico statunitense, trasportata poi anche in ambito internazionale, era: 
liberalizzazione. Durante la presidenza Reagan una consistente politica di liberalizzazioni e 
deregolamentazioni investì ad esempio il settore del trasporto aereo, quello bancario e 
quello delle telecomunicazioni. Venne lanciato un progetto di riforma dei mercati 
finanziari internazionali ed eliminati i vincoli al movimento internazionale dei capitali. Il 
mercato azionario si accrebbe e si rafforzò ulteriormente a seguito di una serie di 
6
 Michel Goyer, op. cit, p. 10
___________________________________________________1. Introduzione - 4  
privatizzazioni che interessarono l’Europa.
7
 La finanza assumeva così un ruolo 
predominante sui mercati internazionali. 
La nuova strategia di politica economica, sia a livello interno che su quello internazionale 
si fondava su principi neoliberisti. Libero scambio, liberalizzazione del mercato dei 
capitali, tassi di cambio flessibili, tassi di interesse determinati dal mercato, equilibrio dei 
bilanci statali, garanzia dei diritti di proprietà, tutela dei diritti di proprietà intellettuale, 
privatizzazioni e deregolamentazioni di ampi settori dell’economia. Secondo il politologo 
David Held “un’agenda economica ristretta”
8
 soprattutto se paragonata all’agenda 
economica dei socialdemocratici. I nuovi principi vennero imposti anche ai paesi in via di 
sviluppo attraverso lo strumento del Washington Consensus, per il tramite di organismi 
internazionali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. 
Un nuovo modello economico - sociale
La transizione verso un modello flessibile di organizzazione del lavoro e della produzione, 
la rivoluzione nella microelettronica e le sue conseguenze nelle comunicazioni su scala 
globale, il crollo del regime sovietico e la progressiva globalizzazione economica, la 
riduzione dell’interventismo statale in economia. Sono questi gli avvenimenti che 
maggiormente hanno inciso sul regime economico internazionale. Cambiamenti che sono 
stati accompagnati dalla nascita di una nuova cultura di massa che ha nel consumo uno dei 
suoi requisiti di base. L’aumento dei consumi è stato reso possibile dalla diversificazione 
dell’offerta e dalla sempre maggiore espansione dei beni di consumo a basso costo. Una 
delle conseguenze fondamentali dell’invasività di tale fenomeno è stata il venir meno delle 
basi della struttura sociale originatasi nel secondo dopoguerra. L’iniziale divisione della 
società in classi perde sempre più di significato mentre emergono nuove forme di 
categorizzazione che si basano sulla differenza tra i diversi stili di vita. Il senso di 
appartenenza ad una determinata categoria sociale è stato profondamente trasformato. Si 
tratta del culmine di un trend che ha avuto origini in tutti i paesi maggiormente 
industrializzati nella seconda metà del secolo scorso ma che negli ultimi decenni ha subito 
una forte accelerazione. La possibilità di accesso a beni di consumo durevoli quali 
elettrodomestici e automobili e i cambiamenti nelle abitudini di vita della popolazione, 
soprattutto in relazione al tempo libero e alle vacanze furono i primi segni di cambiamento. 
La consistente riduzione dei costi e l’aumento delle retribuzioni per la maggior parte della 
popolazione ridusse progressivamente e sensibilmente le differenze negli stili di vita tra 
appartenenti a differenti classi sociali. Non era solo la quantità dei beni acquistati ad 
aumentare, ma anche la qualità. Venne, infatti, facilitato l’accesso ai cosiddetti beni di 
lusso grazie alla sempre più ampia possibilità per i cittadini di accedere al credito. 
Aumentava, però, allo stesso modo anche l’indebitamento delle famiglie. Precursori di tale 
tendenza furono gli Stati Uniti, dove i primi sintomi del fenomeno erano visibili già a 
partire dagli anni ‘20. Dagli USA il trend si espanderà, poi, negli altri paesi occidentali 
andando ad assumere proporzioni sempre maggiori. 
Col passare del tempo il lato simbolico del consumo ha finito con l’oscurarne gli aspetti 
materiali legati alla soddisfazione dei bisogni. L’acquisto di un bene significa o segnala 
qualcosa e perciò nonostante non ne vada sottovalutato il valore d’uso materiale a spingere 
7
 Alberto Martinelli, La democrazia globale, Università Bocconi Editore, Milano, 2004 pp. 32 - 33
8
 David Held, op. cit., p. 85
___________________________________________________1. Introduzione - 5  
maggiormente verso il consumo è “il messaggio simbolico di esclusività sociale.”
9
 Il valore 
simbolico non può essere facilmente circoscritto e perciò in principio diviene difficile 
stabilire il livello di “sazietà”. 
Il dibattito sulla differenza dei capitalismi
I cambiamenti avvenuti nella società e nell’economia internazionale negli ultimi decenni 
del secolo scorso hanno dato nuovo impulso al dibattito accademico relativo alle differenze 
tra le varie forme istituzionali del capitalismo su scala nazionale. La stessa coesistenza tra i 
differenti modelli sembra essere minacciata. La deregolamentazione in settori economici 
che prima non travalicavano i confini nazionali ha, infatti, amplificato la competizione tra 
le varie imprese costrette ora a fornire prodotti sempre più innovativi, ridurre i costi relativi 
al lavoro e quelli relativi all’utilizzo del capitale. L’aumento della velocità nelle transazioni 
economiche a livello internazionale ha aumentato le pressioni sui sistemi capitalistici in cui 
i processi decisionali si basano sul consenso tra i vari portatori di interessi: banche, 
imprenditori, governi e lavoratori. Allo stesso tempo anche il modo in cui i vari modelli si 
pongono di fronte alla crescente globalizzazione dei mercati finanziari è diventato 
argomento di contesa.
10
 La questione è se sia più adatto un sistema che mette al primo 
posto gli azionisti (shareholder) oppure le varie parti sociali (stakeholder), 
l’individualismo o il benessere generale. Secondo una definizione dello storico Werner 
Abelshauser si tratterebbe di una sorta di battaglia tra le varie culture economiche (Kampf 
der Wirtschaftskulturen) per l’egemonia globale nel pensiero economico.
11
 Le tre economie 
più importanti, vale a dire quella americana, tedesca e giapponese, infatti, oltre ad 
esercitare un ruolo ed un’influenza significativi all’interno dell’economia mondiale 
fungono anche da modello per gli altri sistemi. Molti tratti distintivi dell’economia 
americana sono rintracciabili nelle economia di stampo anglosassone, influenze del 
modello tedesco sono rintracciabile nelle economie dell’Europa continentale ed elementi 
dell’economia giapponese sono rintracciabili nelle economie di sviluppo dell’Asia del 
Pacifico. 
Il filone degli studi comparatistici dei sistemi economici si era già sviluppato negli anni 
’60. Esso si era occupato soprattutto delle differenze tra i sistemi capitalisti e quelli 
socialisti sostenendo che i due modelli avrebbero finito col convergere in un ibrido che 
avrebbe combinato l’intervento statale con l’economia di mercato.
12
 Nel decennio 
successivo essi si concentrarono, però, sullo studio di issue specifiche e non su quello dei 
vari sistemi nel loro complesso. Negli anni ’80 quando le significative performance 
economiche di Giappone e Germania coincisero con la contemporanea crisi di USA e 
Inghilterra, si rinnovò l’interesse internazionale per tali studi. Il successo tedesco e 
nipponico era attribuito principalmente alla loro particolare ingegneria istituzionale. Si 
9
 Christoph Deutschmann “Anglo-amerikanischer Consumerism und die Diskussion über Lebensstile in 
Deutschland” in Volker R. Berghahn, Sigurt Vitols (a cura di) Gibt es einen deutschen Kapitalismus? 
Tradition und globale Perspektiven der sozialen Marktwirtschaft, Campus Verlag, Frankfurt/New York, 
2006 p. 155 (traduzione nostra)
10
 Susanne Lütz, “From Managed to Market Capitalism? German Finance in Transition” MPIfG Discussion 
Paper 00/2 p. 7
11
 Werner Abelshauser, “Der »Rheinische Kapitalismus« im Kampf der Wirtschaftskulturen“ in Volker R. 
Berghahn, Sigurt Vitols (a cura di), op. cit., p. 187
12
 Robert Boyer, “How and Why Capitalisms Differ”, MPIfG Discussion Paper 05/4 p. 5
___________________________________________________1. Introduzione - 6  
trattava di economie maggiormente organizzate in cui il mercato giocava un ruolo inferiore 
rispetto al sistema anglosassone, esse garantivano maggiore capacità di mobilitazione delle 
varie parti sociali e consentivano la programmazione delle attività economiche sul lungo 
periodo. Per gli studi sulla comparazione dei capitalismi, infatti, l’efficienza economica era 
misurata in termini di complementarietà strategica tra le diversi istituzioni interne a ciascun 
sistema. La tesi di fondo era che non esisteva una sola forma di capitalismo in grado di 
garantire il successo economico. Con il crollo del regime sovietico il dibattito venne 
incentrato su quale fosse la variabile di capitalismo più adatta ad essere introdotta nelle 
economie in transizione.
13
 A seguito dello sviluppo dell’Information Technology, infatti, 
l’economia americana aveva ripreso negli anni ’90 il ruolo di leader dell’economia 
mondiale a fronte di un calo nella performance economica di Giappone e Germania.
1.2 Quali prospettive per i diversi modelli di capitalismo? Cenni teorici
Gli approcci comuni all’interno della comparative capitalism literature
Alla base della vasta letteratura sulla comparazione tra capitalismi (comparative capitalism 
literature CC) vi sono tre assunti fondamentali accettati dalla maggioranza dei suoi 
esponenti. 
1. Le economie nazionali si caratterizzano per differenti configurazioni istituzionali 
che garantiscono coerenza all’attività economica. Particolare attenzione è rivolta a 
come le varie istituzioni contribuiscono al sostegno dello sviluppo di capitali e della 
formazione della forza lavoro al fine di renderli disponibili alle imprese. 
2. Il secondo punto in comune riguarda lo studio dei vantaggi istituzionali comparati, 
differenti forme organizzative possono essere fonte di forza o di debolezza a 
seconda del tipo di attività economica cui si riferiscono. 
3. Il terzo punto riguarda il legame tra istituzioni e cambiamenti sia interni che esterni 
che interessano il sistema. Essi sostengono che anche se i vari sistemi nazionali 
vengono sottoposti alle stesse pressioni  la risposta a tali stimoli è mediata dalle 
istituzioni interne, quindi assumerà forme diverse a seconda delle diverse forme 
organizzative. 
Nonostante tali punti comuni restano numerose le differenze tra i vari approcci all’interno 
della scuola comparatistica. Non c’è ad esempio accordo su quante siano le varie versioni 
di capitalismo o su quali forme istituzionali prendere in esame al fine di classificarle. Le 
varie teorie forniscono, inoltre, differenti previsioni circa le trasformazioni economiche ed 
istituzionali cui ciascun sistema potrebbe andare incontro.
I due approcci fondamentali all’interno della comparative capitalism literature si rifanno 
alla Regulation Theory (RT) e alla Varieties of Capitalism (VOC). 
La Regulation Theory
L a Regulation Theory ha le sue radici nella teoria marxista ma ne rifiuta la concezione 
secondo cui il capitalismo rappresenti una forma di organizzazione economica omogenea 
assumendo il concetto di varietà dei modelli nazionali. Pur assumendo che 
13
 Gregory Jackson, Richard Deeg, “How Many Varieties of Capitalism? Comparing the Comparative 
Institutional Analyses of Capitalist Diversity” MPIfG Discussion Paper 06/2 p. 5
___________________________________________________1. Introduzione - 7  
l’accumulazione di capitale è l’elemento distintivo dei vari sistemi, all’interno di ciascuno 
di essi le relazioni sociali sono strutturate in forme istituzionali diverse.
14
 Ogni capitalismo 
nazionale è soggetto a periodi di crisi che in determinate situazioni possono assumere 
dimensioni tali da far avvicinare il sistema al totale collasso. Le risposte a tali sfide 
generano reazioni sia in ambito politico che in ambito sociale e possono condurre alla 
nascita di un nuovo modello di accumulazione. Una stessa crisi genera risposte diverse a 
seconda del paese che ne viene colpito. Un’eventualità questa non contemplata dalla teoria 
marxista. Punto centrale della Regulation Theory è lo studio dell’evoluzione delle varie 
forme di capitalismo mettendo in risalto la persistenza delle loro differenze,
15
 anche se non 
viene tralasciata la ricerca di similitudini tra i processi di aggiustamento economico 
all’interno dei vari sistemi capitalistici. Si tratta del concetto di modo di regolazione, vale a 
dire: tutti i comportamenti e le procedure individuali e collettive che riproducono le 
relazioni sociali di base, dirigono il sistema di crescita e sviluppo e consentono di prendere 
quelle decisioni a livello micro che consentono al sistema di svilupparsi. Ciascun modo di 
regolazione è caratterizzato dall’interazione di cinque elementi fondamentali: 
1. la relazione tra salario e lavoro, 
2. la forma di concorrenza, 
3. il regime monetario, 
4. la configurazione delle relazioni tra stato ed attori economici, 
5. il modo in cui l’economia nazionale è inserita nel sistema internazionale. 
Un regime produttivo viene definito dal modo in cui è garantita e organizzata la 
produttività interna e dal modo in cui è organizzato il mondo del lavoro. Assumere un tale 
modello di classificazione potrebbe indurre alla definizione di ogni modello capitalistico 
nazionale come un modello a sé stante, vengono perciò adottate delle semplificazioni. Due 
capitalismi vengono considerati appartenenti alla stessa categoria se “generano un uguale 
processo di aggiustamento economico”.
16
 Sono così individuati quattro modelli di 
organizzazione capitalista. Il primo riconducibile al modello americano si caratterizza per 
la fede nel mercato e nelle autorità indipendenti che hanno il compito di correggere gli 
eccessi del mercato e i comportamenti opportunistici dannosi per il sistema nel suo 
complesso. Il secondo esempio, una versione moderna del capitalismo paternalistico tipico 
del XIX secolo in cui la concentrazione del capitale conduce all’emergere di aziende di 
grandi dimensioni, è riscontrabile nel modello coreano e in quello giapponese. Il terzo 
modello presuppone un’attiva partecipazione delle parti sociali nella nascita e 
nell’organizzazione delle più importanti istituzioni, ad esempio nei sistemi di welfare, 
questo è il caso del modello dei paesi scandinavi. Il quarto sistema è il cosiddetto 
capitalismo di stato in cui sono le varie istituzioni governative ad apportare gli 
aggiustamenti economici necessari al sistema, si tratta del modello tipico dei paesi 
dell’Europa continentale. 
L’approccio della Varieties of Capitalism
Rispetto alla RT l’approccio della scuola della Varieties of Capitalism è comune ad un 
numero maggiore di studiosi. Esso ha acquisito un’importanza sempre maggiore anche 
grazie alla pubblicazione nel 1993 del libro di Michel Albert “Capitalism vs. Capitalism”. 
14
 Gregory Jackson, Richard Deeg, op. cit., p. 10
15
 Robert Boyer, (2005) op. cit., p. 6
16
 Robert Boyer, (2005) op. cit., p. 14 (traduzione nostra)