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Introduzione 
 
In tempi recenti, sempre maggiore attenzione è andata concentrandosi attorno al tema 
del moltiplicatore fiscale. La crisi finanziaria ha contribuito a risvegliare un tale interesse, 
poiché ha reso necessaria l’attivazione di politiche fiscali anticicliche allo scopo di 
controbilanciare la fase recessiva in cui si trova l’economia. L’esaurirsi degli strumenti 
tradizionali di politica economica ed il fallimento della politica monetaria sono sfociati in 
un rinnovato interesse per la politica fiscale come possibile strumento per riavviare 
l’economia e, contestualmente, hanno spostato l’attenzione verso sempre più 
approfondite indagini sulla direzione e dimensione del moltiplicatore fiscale.  
Nel contesto della recente crisi economica globale, considerata oramai unanimemente 
come la più grave crisi dai tempi della Grande Depressione del 1930, le autorità 
monetarie delle maggiori potenze mondiali hanno optato per politiche monetarie in 
grado di ridurre i tassi d’interesse al fine di garantire la stabilità finanziaria ed attenuare 
l’impatto sulla produzione reale. 
Un avvenimento particolarmente significativo risale al dicembre 2008, quando la Federal 
Reserve si vide costretta a tagliare i tassi d’interesse fino a raggiungere il c.d. zero-lower 
bound (la soglia dello zero), provocando una crisi di liquidità (o liquidity trap) dovuta al 
fatto che il risparmio totale nell’economia andava riducendosi per via di tassi d’interesse 
troppo bassi che rendevano indifferenti gli agenti nella scelta di detenere moneta in 
forma liquida o destinarla al risparmio. Normalmente la Banca Centrale, manovrando il 
tasso d’interesse, può agire per stabilizzare l’economia, ma in una situazione in cui il 
tasso d’interesse si trova già alla soglia dello zero e non può essere ridotto 
ulteriormente, tale capacità rimane inibita. Non può avvenire infatti neanche 
quell’aggiustamento indotto dalla politica monetaria che serve a controbilanciare lo 
scostamento del risparmio dal suo livello desiderato e quindi riportare in equilibrio 
l’economia. In una simile situazione, la capacità degli strumenti convenzionali di politica 
monetaria di stimolare l’attività economica risulta notevolmente ridotta e la politica 
fiscale si rivela uno strumento di fondamentale importanza poichè da un lato si riducono 
le misure di cui il governo può disporre per risollevare l’economia e dall’altro ci si 
accorge come, in queste circostanze, una politica fiscale attuata attraverso il canale della 
spesa pubblica diventi ancora più efficace rispetto ad una situazione normale. Allo zero-
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lower bound infatti la spesa pubblica non provoca alcun effetto spiazzamento (o 
crowding out), vale a dire non genera nessun effetto depressivo sugli investimenti, 
essendo il canale di trasmissione del tasso d’interesse momentaneamente chiuso.  
Di contro però, come rilevato dai dati forniti dalla Banca Centrale Europea, nel 2012 solo 
5 paesi dei 17 allora appartenenti all’Area Euro (Estonia, Lussemburgo, Slovenia, 
Slovacchia e Finlandia) sono stati in grado di raggiungere un livello del rapporto debito-
PIL al di sotto di quello richiesto dal Patto di Stabilità del 2011
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. Ciò a dimostrazione che 
la politica fiscale ricopre certamente un ruolo fondamentale nella funzione di 
stabilizzazione dell’economia ma incontra anche un limite nella delicata situazione di 
dissesto delle finanze pubbliche in cui versano le maggiori potenze europee, per questo 
costrette a sottostare ad una serie di limiti nella scelta di finanziamento della spesa 
pubblica attraverso la creazione di debito pubblico (cfr Patto di Stabilità e Crescita, PSC 
1997). 
Un’altra decisiva spinta alla ricerca avviene nel 2012 a seguito delle proiezioni sulla 
crescita economica fornite semestralmente del FMI all’interno del World Economic 
Outlook. Le aspettative per il 2012 si sono infatti rilevate superiori a quanto 
effettivamente registratosi: ad una manovra di consolidamento fiscale pari all’1% del PIL 
è corrisposta una crescita effettiva inferiore rispetto a quella originariamente prevista 
dagli economisti del Fondo. Nel World Economic Outlook 2012, il FMI ha palesato le sue 
preoccupazioni rispetto agli errori di previsione sulla crescita, inserendo un breve 
contributo di Blanchard
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 nel quale si ipotizza che tali errori siano dovuti a valori dei 
moltiplicatori fiscali, inferiori rispetto a quelli effettivi, inseriti implicitamente nei modelli 
alla base delle proiezioni. Si ravvisano infatti errori di previsione negativi, mentre il 
modello per essere corretto dovrebbe produrre errori di previsione in media nulli. La 
necessità di “rivedere” i valori dei moltiplicatori fiscali ha immediatamente innescato un 
acceso dibattito sull’adeguatezza delle misure di austerity ed ha acuito la disputa tra i 
sostenitori delle manovre fiscali restrittive (expansionary fiscal contractions) e quelli che 
                                                             
1
Eurostat (2013), Newsrelease Euroindicators, 64/2013. 
2
 Box 1.1, Are we underestimating short term fiscal multipliers?, WEO 2012, p. 41 ss. (contributo 
successivamente pubblicato integralmente dal IMF: O. Blanchard, D. Leigh, Growth Forecast 
Errors and Fiscal Multipliers, IMF WP 13/1,  
January 2013).
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invece auspicano l’utilizzo di misure di stimolo fiscale (self-defeating austerity) come 
idonea misura di contrasto alla recessione. 
L’elaborato è strutturato nel seguente modo: una prima parte introduttiva (Capitolo I) è 
stata dedicata ai profili più strettamente teorici del moltiplicatore, di cui si è fornita 
dapprima una definizione generale e poi una più analitica formalizzata con l’ausilio di 
formule che tengono conto dei diversi orizzonti temporali in cui esso può essere 
calcolato. Si è poi proceduto ad analizzare il concetto di moltiplicatore fiscale così come 
concepito da Keynes e dai suoi successori, osservando le implicazioni di politica fiscale 
ad esse strettamente collegate nonché i limiti di una tale visione. Successivamente si è 
quindi considerato il concetto di moltiplicatore all’interno del modello IS-LM inteso 
come estensione del modello tradizionale keynesiano che riesce agevolmente a cogliere 
l’integrazione tra mercato dei beni e mercato monetario, aspetto che era stato invece 
trascurato da Keynes. Quest’ultimo modello rimane anch’esso ancorato ad una serie di 
limiti dovuti all’assenza di micro-fondazioni che lo rendono meno realistico e 
costringono lo studioso a formulare una serie di assunzioni vincolanti sul sistema 
economico analizzato. In questo contesto si è quindi provveduto a studiare l’efficacia 
delle politiche fiscali (sia dal lato della spesa pubblica che da quello delle imposte) 
sollevando il problema del c.d. effetto crowding out (o spiazzamento) che la teoria 
keynesiana aveva invece ignorato. Si è inoltre fornito un accenno ai modelli 
neokeynesiani, evidenziandone la natura di compromesso tra la teoria keynesiana 
tradizionale, che auspica l’intervento dello stato nell’economia soprattutto attraverso 
manovre di spesa pubblica e quindi predice moltiplicatori di grandi dimensioni (efficacia 
consistente della politica fiscale) e le esigenze di fondazione microeconomica. Tale 
classe di modelli introduce, nel descrivere il comportamento dell’agente economico, 
elementi di microeconomia tali da rendere più realistico l’intero sistema considerato 
tenendo conto delle scelte di allocazione del reddito dei singoli agenti economici. Da un 
tale panorama teorico scaturiscono infatti modelli DSGE che descrivono l’economia 
attraverso una serie di equazioni comportamentali le quali, messe a sistema, 
restituiscono un modello in cui la politica fiscale produce un effetto rilevante nel breve 
periodo, la cui efficacia va però attenuandosi nel lungo periodo (a causa della neutralità 
della moneta).
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La parte immediatamente successiva dell’elaborato (Capitolo II e III) si occupa di fornire 
una breve rassegna delle numerose evidenze empiriche accumulate nel corso degli anni 
attorno al tema di nostro interesse. All’interno di questa sezione, senza alcuna 
presunzione di esaustività, si proverà a descrivere le principali metodologie 
econometriche messe a punto per calcolare la dimensione del moltiplicatore fiscale, 
evidenziandone quando possibile i rispettivi limiti e punti di forza. Come vedremo, si 
registra un’ampia variabilità di risultati per quanto riguarda il valore del moltiplicatore, 
variabilità dovuta da un lato alle diverse ipotesi strutturali poste alla base dei modelli di 
stima ma anche dal contesto economico e dagli elementi peculiari propri dell’economia 
che si sta analizzando. 
Infine presenteremo (nel Capitolo IV) alcuni risultati empirici rispetto al valore del 
moltiplicatore fiscale in Italia, ottenuti stimando un modello VAR (Vector 
Autoregression) teso a quantificare l’impatto della politica fiscale (sia dal lato della spesa 
che da quello delle imposte) sulla produzione totale. Otterremo infatti un valore del 
moltiplicatore che identifica l’effetto immediato della politica (moltiplicatore d’impatto) 
ed uno che ne coglie l’effetto complessivo tenendo conto dell’andamento delle variabili 
nel tempo (moltiplicatore cumulato), ricavandoli dall’osservazione delle funzioni di 
risposta del PIL ad uno shock esogeno di spesa pubblica e di imposte (Impulse Response 
Function). Questo lavoro si pone come un modestissimo contributo alla letteratura sul 
tema dell’efficacia della politica fiscale, pur consapevole che un lavoro simile non 
possiede né l’autorità né la robustezza di risultati per rappresentare un’idonea linea 
guida all’implementazione effettiva di manovre fiscali, mancando in essa l’aspetto 
fondamentale dell’ottimizzazione intertemporale e delle aspettative nella 
determinazione dell’attività economica aggregata. Inoltre il modello, implementato 
attraverso il software econometrico Eviews, presenta una struttura standardizzata e 
contiene una serie di assunzioni che restringono le circostanze in cui la politica descritta 
potrebbe svilupparsi. Proprio in virtù di una tale semplicità, esso rappresenta più che 
una puntuale fotografia degli effetti di un dato cambiamento di politica fiscale, un utile 
strumento guida per indagarne l’efficacia.