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Introduzione
Le organizzazioni moderne operano su scenari altamente mutevoli. La scarsità
delle risorse materiali e non, la necessità di tempi di reazione sempre piø
rapidi, la capacità di anticipare gli eventi, il cambiamento continuo degli asset
e le crisi globali, pongono ancora una volta al centro dell’organizzazione le
persone, capaci di garantire elevati standard di adattamento ai nuovi scenari,
una forte capacità di reazione alle difficoltà e un elevato grado di proattività,
innovazione e senso della sfida.
Questione centrale, quindi, per tutte le organizzazioni risulta essere la
motivazione degli individui e come essa può essere attivata e mantenuta nel
tempo. La teoria del goal setting e l’High Performance Cycle possono entrambi
essere considerati strumenti utili per motivare le persone nelle organizzazioni,
in grado di essere integrate nei processi organizzativi al fine di garantire
soddisfazione ed engagement agli individui e nello stesso tempo guidare
l’organizzazione verso il raggiungimento dei propri obiettivi strategici.
E’ necessario comprendere i principi fondanti di questi strumenti per coglierne
l’effettivo valore e, allo stesso tempo, non tralasciare la ricerca empirica in
grado di avvicinare la teoria alla pratica così come la ricerca al mercato e alle
organizzazioni.
Nel lavoro di seguito presentato si è voluto quindi parlare della teoria del goal
setting partendo dai bisogni, punto d’origine della motivazione, per arrivare
alla cognizione e all’importanza del goal come regolatore dell’azione e dei
comportamenti che portano al successo.
Gli ampi studi e le ricerche sul goal setting sono stati successivamente
sistematizzati (Locke e Latham, 1990) in un modello, l’High Performance
Cycle, che rende conto delle relazioni tra le variabili in gioco e che fornisce
informazioni utili alle organizzazioni, su quali leve muovere al fine di
massimizzare la prestazione e la soddisfazione lavorativa, innescando un
circolo virtuoso che permette di raggiungere mete sempre piø elevate e sfidanti.
Nel primo capitolo, il primo paragrafo parla quindi della motivazione e delle
variabili che la influenzano, dai bisogni alla cognizione al goal setting. Il
secondo paragrafo tratta dell’High Performance Cycle, analizzando le
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specifiche e le variabili in gioco che conducono dal goal alla prestazione alla
soddisfazione. Il terzo paragrafo esamina il goal setting da una prospettiva
diversa, segnalando i possibili effetti collaterali sull’utilizzo di goal troppo
specifici e ambiziosi nelle organizzazioni.
Il secondo capitolo, nell’ottica di avvicinare teoria e pratica organizzativa,
riporta i risultati di una ricerca empirica, condotta presso un’organizzazione
multinazionale del settore bancario assicurativo, avente il duplice obiettivo di
verificare sul campo il modello dell’High Performance Cycle e ricavare
indicazioni operative utili per migliorare i processi di incentivazione e di
performance management ed avanzare una proposta d’intervento.
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1 Capitolo 1 - Basi teoriche del goal setting
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1.1 Dai bisogni al goal setting
Per comprendere perchØ gli individui agiscono taluni comportamenti piuttosto
che altri occorre introdurre il concetto di motivazione. Essa è intesa come un
aspetto dell’individuo che inizia, dirige e sostiene l’azione umana verso una
prestazione lavorativa (Steers e Potter, 1987, in Borgogni 2008).
Le prime ricerche sulla motivazione riferiscono come i bisogni (fisiologici e
psicologici) costituiscano i fattori che dirigono l’azione al fine di migliorare il
benessere e garantire la sopravvivenza dell’individuo. I bisogni sono quindi il
punto di partenza della motivazione (Locke, 2000). I bisogni vengono esperiti
nella forma dicotomica piacere-dispiacere, per cui la loro soddisfazione è
piacevole mentre la loro frustrazione è spiacevole e potenzialmente letale.
I bisogni però non bastano per predire, spiegare ed influenzare la motivazione
poichØ altri fattori influiscono su di essa: i tratti di personalità, i valori (che
tengono conto delle differenze individuali), il contesto (la cultura aziendale, il
tipo di organizzazione, il fit persona-organizzazione), la cognizione (le
esperienze, gli obiettivi, lo scopo di un’azione). Infine, la motivazione
dell’individuo a lavoro è influenzata dai premi e dagli incentivi che a loro volta
influenzano lo sforzo e la persistenza (Latham, 2007).
1.1.1 I bisogni
I bisogni, sia fisiologici che psicologici, influenzano il benessere e la
sopravvivenza dell’individuo attraverso l’esperienza del piacere e del
dispiacere. Il primo tipo di esperienza produce soddisfazione mentre il secondo
genera insoddisfazione e un senso di minaccia.
Secondo Maslow (1943), esiste una gerarchia di bisogni basata sull’assunzione
che una volta soddisfatto un bisogno di ordine inferiore, se ne presenta uno
nuovo con carattere di minor forza e urgenza, ma in grado di orientare
nuovamente l’individuo al suo soddisfacimento.
Secondo Wicker, Brown, Wiehe, Hagen e Reed (1993), sebbene la teoria di
Maslow (1943) spieghi la relazione tra le intenzioni della persona e il
comportamento, non è altrettanto efficace nello spiegare le relazioni tra
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l’ordine di importanza dei bisogni ed il comportamento che ne consegue. Essa
cioè non stabilisce un ordine di priorità e quindi la mancanza di un bisogno
aumenta l’intenzione ad agire su di esso, anche se la persona non gli attribuisce
elevata importanza.
Wicker e colleghi (1993) hanno trovato dati che sostengono la teoria di
Maslow nel particolare caso in cui vengono valutate le intenzioni ad agire
piuttosto che le misure dell’importanza dei bisogni. Inoltre le intenzioni ad
agire sembrano essere piø forti con i bisogni piø bassi anzichØ con quelli piø
alti a causa della maggior salienza negativa.
Ronen (2001), utilizzando una tecnica di analisi particolare (smallest space
analysis) ha trovato elementi a sostegno della tassonomia alla base della teoria
di Maslow, mentre Kluger e Tikochinsky (2001) hanno tentato di trovare un
modo di operazionalizzare validamente la teoria per poi concludere che la tesi
di Maslow era sbagliata.
Locke (2000), invece, ritiene che essa sia improbabile, che non sarà mai trovata
una forte evidenza per una gerarchia dei bisogni inserita nei luoghi di lavoro
per i dipendenti. Persone diverse sono capaci di dare priorità ai loro bisogni in
modi diversi, basati su valori scelti da loro. Non è possibile, egli sostiene, che i
bisogni fisici siano sempre piø importanti di quelli psicologici.
VanDijk e Kluger (2004) sostengono che i bisogni, quali quelli indicati nella
tassonomia di Maslow, riflettono sfide strategiche per l’adattamento. Pertanto i
bisogni di una persona dettano il modo in cui operano i processi motivazionali.
Le minacce alla sicurezza, senza considerare le differenze individuali fra le
persone in termini di tratti o di personalità, quasi sempre hanno la precedenza
su di essi nel trovare modi per aumentare o promuovere la loro efficacia
nell’ambiente di lavoro.
Haslam, Powell e Turner (2000) sostengono che la motivazione è influenzata
dal bisogno di raggiungere un’identità sociale coerente con il gruppo e
l’ambiente con il quale ci si sta confrontando. La salienza dell’identità sociale
impone il bisogno di migliorare l’autostima al fine di ottenere rispetto e
riconoscimento in un gruppo di pari. Gli autori affermano anche che le persone
sono motivate a ottenere obiettivi che sono compatibili con la propria identità.
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Così i bisogni associati all’appartenenza a uno specifico gruppo servono come
guida per il comportamento in uno particolare contesto.
Acquisisce così importanza l’identità sociale come fattore che spiega le
differenze individuali nell’agire dei propri comportamenti. Dal punto di vista
della persona l’identità sociale coincide con la personalità, ma per avere
completezza nella descrizione di un individuo occorre conoscere anche il punto
di vista dell’osservatore.
Ciò che un osservatore vede nella persona costituisce una valutazione dei suoi
tratti di personalità, ne definisce cioè la reputazione e quindi il modo in cui la
persona si comporta.
E’ interessante notare che se anche le teorie sui bisogni spieghino il perchØ le
persone sono spinte ad agire, non è chiaro il perchØ compiono certe scelte
piuttosto che altre e soprattutto se le differenze individuali influenzino queste
scelte.
1.1.2 I tratti di personalità
Sebbene inizialmente i tratti fossero ritenuti bisogni o pulsioni la cui
soddisfazione procura uno stato di piacere e il cui mancato soddisfacimento
procura dispiacere, attualmente, a seguito di numerose ricerche, si è stabilita
l’importanza dei tratti di personalità nel predire e spiegare i comportamenti e
quindi la prestazione. Originariamente le diverse prospettive dei ricercatori non
hanno consentito un approccio e una definizione di un modello comune per lo
studio dell’influenza dei tratti sulla motivazione. Secondo Hogan (2004), lo
sviluppo del Modello dei Cinque Fattori o FFM (Costa, McCrae, 1985) - che
stabilisce la relazione tra alcuni tratti definiti e i comportamenti organizzativi -
e le misure dell’integrità di un individuo hanno reso possibile il collegamento
mancante tra i costrutti di personalità e la prestazione lavorativa.
Tett, Jackson, Rothstain e Reddon (1994) attraverso una meta-analisi della
relazione fra il FFM e altre teorie motivazionali hanno trovato che i tratti dei
Big Five hanno una forte correlazione con i criteri motivazionali del lavoro.
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Hogan (2004), sostiene che, allo stato attuale della ricerca, i tratti sono
evidenze reali; la personalità può essere descritta in termine di tratti; l’azione
del dipendente è spiegabile in termini di tratti.
Alcuni studi empirici avvalorano l’ipotesi di Hogan. Ad esempio, Moskowitz
e Cote (1995) hanno recentemente mostrato che il punteggio nella dominanza
di una persona ottenuto attraverso un test di personalità correla positivamente
con il comportamento dominante e negativamente con il comportamento di
sottomissione. Questi autori hanno trovato anche che quando le persone si
comportano in modi che sono contrari ai loro tratti di personalità, sperimentano
sentimenti negativi. Glomb e Welsh (2005) hanno trovato, inoltre, che le
persone, a parità di altre condizioni, si comportano in modo coerente con le
previsioni derivanti dai loro tratti di personalità.
Quindi la personalità di un individuo può essere spiegata in termini di tratti,
così come il suo comportamento organizzativo.
Secondo Schmitt, Cortina, Ingerick e Weichmann (2003) la personalità è un
predittore importante degli aspetti legati alla motivazione. Spangler, House e
Palrecha (2004, p. 252) argomentano che essendo i tratti “coerenze stabili nel
comportamento stilistico od espressivo che influenzano l’espressione dei
motivi”, i motivi focalizzano e dirigono il comportamento in presenza di fattori
ambientali situazionali.
In aggiunta all’FFM, questi tratti includono anche le strategie di
autoregolazione, automonitoraggio, autovalutazione e orientamento
all’obiettivo (Latham, 2007).
I tratti di personalità interagiscono gli uni con gli altri nel determinare i
comportamenti degli individui (Witt, Burke, Barrick e Mount 2002). Questi
autori hanno inoltre scoperto che le caratteristiche della persona, rispetto a
quelle della situazione riducono la misura in cui l’individuo si comporta in
accordo con uno o piø tratti di personalità. Nonostante il FFM sia un modello
che ben rappresenti la personalità di un individuo, non è in grado di coglierne
alcune sfaccettature, come ad esempio le variabili composite costituite da
combinazioni delle variabili del FFM. Il modello presenta inoltre alcune
problematiche evidenziate da uno studio di PerrewØ e Spector nel 2002: le
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cinque dimensioni non sono costrutti indipendenti. Ad esempio, se il
nevroticismo viene pesato invertito e rinominato “stabilità emotiva” tutti e
cinque i fattori correlano positivamente. Il FFM non è una valutazione
complessiva della personalità. Ad esempio, non valuta le convinzioni personali
riguardo il locus of control interno piuttosto che esterno.
Il modello dei cinque fattori è quindi un modello importante ma non è
esaustivo e andrebbe associato ad altri tratti. A questo proposito Kanfer e
Heggestad (1997) hanno proposto una teoria dello sviluppo che opera una
distinzione tra “influenze remote sull’azione”, rappresentate da tratti piuttosto
stabili e influenze prossime sull’azione che rappresentano le differenze
individuali nelle capacità di autoregolazione o motivazionali. Esse sostengono
che il controllo della motivazione e delle emozioni sono due tipologie di
strategie di autoregolazione che le persone utilizzano per controllare le loro
cognizioni, i loro affetti e comportamenti finalizzati al raggiungimento
dell’obiettivo. Le capacità di autoregolazione rendono conto delle differenze
individuali nel sostenere sforzo e persistenza durante il processo di goal
setting. Per ciò che riguarda la capacità di self-monitoring, la ricerca riporta
una consistente relazione positiva con la prestazione lavorativa e con
l’avanzamento di carriera in posizioni di leadership.
Questo perchØ le persone con capacità di self-monitoring sono motivate ad
incontrare le aspettative degli altri e questo accresce la loro piacevolezza,
determinante per le progressioni di carriera.
E’ interessante un ulteriore approfondimento di Judge, Locke e Durham (1997)
che hanno sviluppato una teoria dei tratti denominata core self-evaluation
relativa alla relazione tra alcune variabili individuali e la soddisfazione
lavorativa. Le core self-evaluation si esprimono attraverso quattro tratti
fortemente correlati: l’autostima, il locus of control (significato attribuito agli
eventi), il nevroticismo/stabilità emotiva (sicurezza ed equilibrio), l’auto-
efficacia (fiducia complessiva nella propria abilità di trattare con successo
diverse situazioni). Gli autori ipotizzano una relazione causale tra queste
variabili individuali, la percezione delle caratteristiche del lavoro, la
soddisfazione lavorativa e la soddisfazione nella vita.