2
avuta in Europa durante la Rivoluzione Industriale. Un gran numero di bambini dei Paesi 
in Via di Sviluppo, infatti, lavora in industrie o botteghe artigiane, nelle strade e in attività 
squallide e pericolose per la loro salute e il loro benessere.  
Il problema del lavoro minorile quindi, da essere una questione di interesse regionale e 
nazionale è passato ad essere una questione di rilevanza internazionale. Questo ha avuto 
due effetti principali. Da una parte l’attenzione internazionale crescente ha favorito la 
proliferazione di ricerche e studi sul lavoro minorile che hanno migliorato la comprensione 
del fenomeno e degli effetti dei diversi interventi volti a combatterlo. Dall’altra essa, negli 
anni più recenti, ha favorito l’affermarsi di nuovi attori (ONG e associazioni che operano 
sul campo, organizzazioni di bambini lavoratori,ecc…), che hanno introdotto nel dibattito 
internazionale sul lavoro minorile informazioni, idee e prospettive finora ignorate o non 
disponibili, rendendolo più complesso e articolato e generando però anche non poche 
perplessità e contrasti. 
Con il presente lavoro intendo fornire una visione d’insieme del problema basandomi sulla 
recente produzione scientifica in materia di lavoro minorile. Partendo dall’analisi del 
fenomeno a livello mondiale e delle sue cause da un punto di vista prettamente economico, 
ho voluto concentrarmi principalmente sulle misure politiche e sugli interventi che sono 
stati adottati per combatterlo, cercando, sulla base di studi e ricerche di carattere 
economico e sociologico, di valutarne l’efficacia, sia in termini di lavoro minorile 
effettivamente ridotto, sia in termini di tutela/benessere dei bambini. Dopodichè ho cercato 
di risalire agli approcci teorici che le hanno ispirate. Mi è parso interessante, infatti, 
mettere in luce come queste diverse politiche si ispirino a visioni e concezioni del 
fenomeno anche molto diverse tra di loro e che sono spesso venute a scontrarsi. In 
particolare ho voluto evidenziare come l’emergere, negli ultimi anni, di nuove 
impostazioni del problema abbia influenzato non solo la ricerca in materia ma anche le 
politiche stesse, le quali hanno teso progressivamente ad evolversi, passando da un 
approccio abolizionista tout-court ad uno più pragmatico, ovvero un approccio che si pone 
in maniera più problematica di fronte al fenomeno del lavoro minorile, cercando di 
inquadrarlo nei diversi contesti in cui si manifesta e alla luce dell’interesse superiore del 
bambino. 
Data la grande massa di studi ed esperienze in materia di lavoro minorile che è esplosa 
negli ultimi anni, il mio studio sarà inevitabilmente parziale. Ciò nonostante, il tentativo di 
individuare uno schema nell’insieme di punti di vista e di attori che partecipano al dibattito 
sul lavoro minorile mi è sembrato molto utile, non solo per chiarire le questioni principali 
di discussione, ma anche per individuare soluzioni concrete al fenomeno. Il mio lavoro, 
 3
inoltre, si concentrata prevalentemente sul lavoro minorile che caratterizza i Paesi in Via di 
Sviluppo. Questo, tuttavia, non vuol dire che il fenomeno non riguardi anche i Paesi 
Sviluppati e che misure politiche adottate per combattere il fenomeno nel Terzo Mondo 
non siano esportabili e applicabili anche a situazioni presenti nei Paesi Industrializzati. 
Detto questo la struttura del mio lavoro sarà la seguente. Il Capitolo 1, dopo aver illustrato 
i problemi concettuali ed empirici nel definire il lavoro minorile e la sua diffusione nel 
mondo, passerà ad esaminare i fattori determinanti il lavoro minorile da un punto di vista 
prettamente economico. Nel Capitolo 2 saranno illustrate le principali politiche adottate ai 
vari livelli di governo, per valutarne i risultati più significativi in termini di riduzione del 
lavoro minorile e in termini di benessere del bambino. Il Capitolo 3 passerà ad esaminare i 
principali approcci teorici che hanno ispirato le politiche e che hanno influenzato il recente 
dibattito sul lavoro minorile, con particolare attenzione al fenomeno, affermatosi di 
recente, delle organizzazioni di bambini lavoratori.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 4
CAPITOLO 1. ANALISI ECONOMICA DEL LAVORO 
MINORILE. 
Data la sua estesa prevalenza nel XVIII e XIX secolo, il lavoro minorile è stato oggetto di 
studi già nelle fasi iniziali del pensiero economico. Adam Smith sottolineava il valore dei 
bambini in società caratterizzate da insufficienza di forza lavoro. Friedrich Engels, 
scrivendo sulle condizioni delle classi lavoratrici in Inghilterra, notava come vasta parte di 
queste fosse formata da bambini e donne. Secondo Marx il lavoro minorile era stato creato 
dalla Rivoluzione Industriale in quanto le macchine, sostituendo il bisogno di forza 
muscolare, permettevano ai bambini di sostituirsi agli adulti nel lavoro. Sebbene non abbia 
effettuato una ricerca specifica sul tema, nella sua opera “Il Capitale” egli sembra ritenere 
che genitori e capitalisti sfruttino tutte le opportunità fornite dall’impiego dei bambini. 
Tuttavia, pur rilevando le devastanti conseguenze di lungo periodo del lavoro minorile, 
Marx era contrario ad una sua messa al bando, guardando piuttosto con favore alla 
riduzione  dell’orario lavorativo e all’istruzione obbligatoria. 
La graduale scomparsa del fenomeno nei paesi industrializzati ha fatto sì che la questione 
del lavoro minorile perdesse, progressivamente, d’importanza, anche se sacche consistenti 
del fenomeno sono state presenti, in molti Paesi Sviluppati, fino agli anni Sessanta e 
Settanta. L’interesse degli studiosi tornò a farsi sentire solo a partire dagli anni Ottanta, 
quando divenne evidente la portata che il fenomeno aveva nei Paesi in Via di Sviluppo 
(PVS). Questa riscoperta del lavoro minorile è stata favorita essenzialmente da due fattori 
principali: 
1) Il fenomeno della globalizzazione, che non solo ha fornito maggiori informazioni 
sulla condizione dei bambini lavoratori nel mondo, ma ha portato anche nelle mani 
dei consumatori dei paesi ad alto reddito i beni prodotti dai bambini stessi, 
generando una forte presa di coscienza del fenomeno da parte dell’opinione 
pubblica e delle autorità governative nazionali e internazionali; 
2) Il gran numero di fonti e dati statistici, relativi ai Paesi in Via di Sviluppo, che negli 
ultimi anni si sono resi disponibili, permettendo di estendere lo studio verso nuovi 
aspetti del lavoro minorile, prima difficili da esaminare, e di ridurre i costi delle 
ricerche in materia.  
I recenti studi condotti in materia di lavoro minorile sono essenzialmente di due tipi: 
analisi sociologiche e antropologiche da una parte, analisi economiche dall’altra. Le prime, 
che sempre più si basano su metodi partecipativi, hanno permesso di inquadrare il 
fenomeno nel contesto sociale dei PVS e di coglierne le determinanti culturali e sociali; le 
 5
seconde, grazie ad un ampio numero di sondaggi su base familiare e ad una vasta ricerca 
econometria, hanno cominciato a ricercare ed analizzare le cause del lavoro minorile, in 
parte confermando molte delle formulazioni teoriche precedenti, in parte portando a 
scoperte inaspettate e che toccano questioni mai prese in considerazione prima. Di 
particolare utilità sono stati gli studi basati sulla teoria del capitale umano di T.W.Schultz e 
di G. Becker, che presentano il lavoro minorile essenzialmente come una scelta di 
investimento del bambino o più spesso della famiglia, complementare all’altro 
investimento di solito disponibile, ovvero l’istruzione, visto come un costo-opportunità di 
guadagni immediati.  
Dato che per elaborare politiche realmente efficaci per debellare il lavoro minorile è 
necessaria una corretta comprensione teorica ed empirica del fenomeno, in questo primo 
capitolo verranno esaminati i principali problemi concettuali ed empirici riscontrati dagli 
studiosi nel definire il lavoro minorile e verranno discusse le più recenti stime del 
fenomeno a livello mondiale. Dopodichè sarà presentata una panoramica dei risultati cui la 
letteratura economica è giunta riguardo alle cause del fenomeno ed ai suoi effetti 
economici sul contesto dei PVS. 
 
1.1 Cosa si intende per “lavoro minorile”? 
Come fa giustamente notare Basu (1999), ogni stima e analisi del lavoro minorile dipende 
da come definiamo i termini “bambino” e “lavoro”. 
Sul termine “bambino” sembra esserci ormai accordo tra i principali ricercatori, i quali si 
basano essenzialmente sulla Convenzione ONU sui Diritti dell’ Infanzia (1989) e sulla 
Convenzione ILO sulle “Peggiori Forme di Lavoro Minorile” del 1999 (No.182), che 
definiscono “bambino” qualsiasi individuo sotto l’età di 18 anni. Tuttavia, essendo 
comunemente accettato che un bambino sotto i 5 anni di età è troppo giovane per essere 
occupato nel lavoro (sebbene vi siano casi di sfruttamento di minori di quest’età) o per 
iniziare la scuola, in genere, negli studi sul lavoro minorile, si considerano “bambini” solo 
gli individui di età compresa tra i 5 e i 17 anni. 
Tra i ricercatori e studiosi non vi è invece ancora accordo su quali attività debbano essere 
classificate come lavoro minorile. Alcuni intendono per lavoro minorile essenzialmente il 
“Wage Work” o “Market Work”, ovvero tutte quelle attività finalizzate alla produzione di 
beni e servizi economici, eseguite da soggetti economicamente attivi (escluso disoccupati e 
soggetti temporaneamente fuori dal lavoro), in cambio di pagamenti in denaro. Come 
alcuni ricercatori fanno notare, tale definizione presenta un duplice problema: prima di 
tutto essa non tiene conto del fatto che nella maggior parte dei casi i bambini sono occupati 
 6
in “Non Economic Works” (Lavori non economici) e in “Domestic Works” (Lavori 
domestici), ovvero in attività finalizzate alla fornitura di beni e servizi destinati a membri 
della famiglia o ad altri membri della comunità (es. prendersi cura dei membri della 
famiglia, cucinare, fare le pulizie, ecc…), le quali però cadono fuori dalla portata della 
definizione ufficiale di “attività economica”; in secondo luogo non tiene conto del fatto che 
in genere i bambini non sono pagati in denaro ma al massimo ottengono una 
remunerazione in natura. Per questo alcuni studiosi del fenomeno cercano di includere 
nella definizione di lavoro minorile anche queste attività “non economiche”, anche se ciò è 
problematico nel momento in cui si realizza un’analisi statistica, a causa della difficoltà di 
misurare l’economia informale di tipo domestico. Altri studiosi infine, per lavoro minorile, 
intendono tutte le attività non-scolastiche e non di svago eseguite da bambini; tuttavia, 
sulla base di ciò, sono erroneamente considerati lavori minorili anche i lavori leggeri 
eseguiti dopo la scuola, in un’impresa familiare per esempio, o anche l’aiuto in attività 
domestiche di routine, come pulizia della casa o cura dei fratelli più giovani. 
Data la grande varietà di definizioni di lavoro minorile, l’ILO, sulla base del SIMPOC 
(Statistical Information and Monitoring Program on Child Labour), il corpo internazionale 
dell’ILO incaricato di monitorare il lavoro minorile nel mondo, propone di distinguere, 
all’interno del fenomeno, tra tre diverse categorie
2
: 
a) Economic activity, nel senso indicato dal System of National Accounts – Sistema dei 
Conti Nazionali (SNA). Tale categoria ingloba la maggior parte della attività produttive, 
realizzate dai bambini, sia per il mercato che non, retribuite e non, condotte per poche ore 
o full time, in modo casuale o regolare, legalmente o illegalmente; essa esclude anche le 
attività di routine eseguite in famiglia e l’istruzione. Un bambino rientra nella categoria 
degli “economicamente attivi” se lavora almeno un’ora a settimana. Questa definizione è 
essenzialmente di natura statistica.  
b) Child Labour, concetto basato sulla Convenzione sull’Età Minima di Accesso 
all’Impiego (Conventione No.138 - 1973) dell’ILO. Tale Convenzione definisce “child 
labourers” tutti i bambini sotto i 15 anni che sono “economicamente attivi”, eccetto quelli 
che: 
- hanno un’età inferiore ai 5 anni; 
- hanno un’età compresa tra 12-14 anni e passano meno di 14 ore a settimana a 
lavorare e che non eseguono attività pericolose, ovvero che sono occupati in “light 
work” (lavoro leggero). 
                                                 
2
 IPEC – SIMPOC - “Every child count”- International Labour Office – Geneva - April 2002 
 7
A questi si aggiungono i bambini dai 15 ai 17 anni occupati nelle peggiori forme di lavoro 
minorile. 
c) Hazardous work, ovvero ogni attività o occupazione che, per sua natura o tipologia, ha 
effetti avversi sulla sicurezza, salute (fisica e mentale) o morale del bambino. I pericoli 
possono derivare anche da un eccessivo carico lavorativo, da condizioni fisiche di lavoro 
estreme e/o eccessiva intensità di lavoro in termini di durata o ore di lavoro, anche dove 
l’attività o l’occupazione è ritenuta essere non pericolosa e sicura. Questa categoria di 
lavori è stata ben definita e chiarita dall’ILO con la Convenzione n.182 sulle Peggiori 
Forme di Lavoro Minorile (1999). Sebbene essa attribuisca ai paesi che l’hanno ratificata 
di chiarire specificatamente quali tipi di attività ricadano sotto la definizione di “forme 
peggiori di lavoro minorile” (Art. 4), essa fornisce delle linee guida per operare tale 
chiarificazione, per cui risultano rientrare in questa definizione: 
a) tutte le forme di schiavitù e “pratiche simili alla schiavitù” come vendita e traffico 
di bambini, lavoro forzato o obbligante, incluso quello con finalità di conflitto 
armato; 
b) prostituzione e pornografia; 
c) attività illecite come produzione e lavorazione di droga; 
d) “lavoro che, per sua natura o per le circostanze in cui viene praticato, provoca 
pericolo per la salute, la sicurezza e la morale del bambino” (Art.3). 
Dato che quest’ultima definizione è apparsa poco chiara, la Convenzione 182 è stata 
affiancata dalla Raccomandazione n.190 nel quale si afferma che sono forme di lavoro 
pericolose: 
a) “i lavori che espongono bambini ad abuso fisico, psicologico o sessuale; 
b) i lavori sottoterra, sott’acqua, ad altezze pericolose, o in spazi ristetti; 
c) lavori con macchinari, attrezzatura e strumenti pericolosi o che richiedono la 
manipolazione o il trasporto di carichi pesanti; 
d) i lavori in un ambiente non sano che può, per esempio, esporre bambini a sostanze, 
agenti o processi pericolosi o a temperature, livelli sonori o vibrazioni dannose per 
la salute; 
e) lavori in condizioni difficili come il lavoro per lunghe ore o durante la notte o il 
lavoro in cui il bambino è  legato in modo forzato al luogo o al datore di lavoro.” 
(R190, Sezione II.3). 
 
 
 
 8
1.2 Il lavoro minorile nel mondo: osservazioni e trends 
Dopo aver illustrato e chiarito le varie definizioni di “lavoro minorile”, vediamo ora quali 
sono gli attuali trend del fenomeno. Per elaborare questa sezione mi sono basata 
essenzialmente su due fonti principali. La prima è data dai National Child Labour Surveys 
del SIMPOC, l’unità statistica e di monitoraggio dell’IPEC (Programma Internazionale per 
l’eliminazione del Lavoro Minorile) elaborato dall’ILO. Essi consistono in sondaggi-
campione, condotti a livello nazionale, su base familiare e aventi come target i genitori o i 
tutori dei bambini nonché i bambini stessi che vivono nell’ unità familiare. Tali sondaggi, 
basati sulla tripla definizione di “lavoro minorile” fornita dall’ILO. sono molto specifici in 
quanto, nella loro analisi, si concentrano quasi esclusivamente sul lavoro minorile, 
fornendo informazioni e statistiche sulle attività economiche e non economiche (es. lavori 
domestici) svolte dai bambini, sulle caratteristiche demografiche e sociali dei membri della 
famiglia, sul numero di ore lavorate dai bambini e genitori, sulla natura delle occupazioni, 
ecc.. L’altra fonte è data dai Multiple Indicator Cluster Surveys (MICS) dell’UNICEF 
riferiti agli anni 2000 e 2001. Si tratta di sondaggi di più ampio respiro, elaborati ogni 5 
anni per monitorare i progressi fatti dai vari paesi nel perseguimento degli Obiettivi del 
Millennio, per quanto riguarda i target relativi all’infanzia. Tali sondaggi sono condotti a 
livello nazionale su base familiare attraverso questionari strutturati in varie sezioni: sezione 
sull’unità familiare, sezione sulle donne e loro salute, sezione sui bambini. In quest’ultima 
è presente un modulo sul lavoro minorile in cui ai bambini dai 5 ai 14 anni viene chiesto 
che tipo di lavoro svolgono (fuori o dentro casa, in attività domestiche o no, lavoro pagato 
o non pagato) e per quante ore. Nessuna informazione viene però fornita riguardo al settore 
di occupazione, al tipo di occupazione e alla remunerazione. Tali sondaggi si basano sulla 
definizione di lavoro minorile inteso come il lavoro che supera un minimo numero di ore, a 
seconda dell’età del bambino e del tipo di lavoro. 
 
1.2.1 Bambini lavoratori nel mondo e trends per regione. 
La Tabella 1 (ILO 2006) mostra le più recenti stime sul lavoro minorile nel mondo. I dati 
sono disaggregati per gruppo di età e categoria di lavoro (economic activity, child labour, 
hazardous work) e si riferiscono a due anni specifici, 2000 e 2004.