II 
 
netta minoranza. Una delle tante contraddizioni di quello che 
scopriremo essere il “rompicapo” balcanico, una definizione che uso 
senza voler indulgere certo alla retorica o ai facili stereotipi che si 
sono prodotti durante il conflitto. 
Io, come tanti, non conoscevo quasi nulla della questione kosovara: è 
stato grazie alla testimonianza della Fossà che mi sono avvicinata a 
“Kosova”, questo il nome in albanese del paese, in un primo tempo 
con una breve analisi e poi con questa ricerca.  
Mi aveva colpito dell’articolo dell’inviata la possibilità di offrire una 
testimonianza che potesse cambiare la prospettiva sulle cose, offrendo 
almeno una parte della verità che scorrendo i giornali, guardando i 
telegiornali, tutti noi ci aspettiamo di sapere. I reportages, la cronaca 
dalle zone “calde” di guerra hanno questa grande occasione ma, 
voglio aggiungere, pericolo, perché per i giornali la “guerra è sia il 
migliore sia il peggiore dei momenti”: da una parte il racconto sincero 
di un dramma autentico, dall’altra il rischio di cadere nelle reti della 
manipolazione e della propaganda, se non della menzogna vera e 
propria. L’aveva scritto già Clausewitz nell’’800 che “le informazioni 
che si ottengono in guerra sono in gran parte contraddittorie, la 
maggior parte menzognere, e quasi tutte incerte…Generalmente 
ciascuno è disposto a credere più il male che il bene, ciascuno è 
  III 
 
tentato di esagerare un poco il male”. E poco sembra essere cambiato 
dopo oltre un secolo di storia, anzi oggi documentare i conflitti 
diventa più difficile visto che le nuove guerre sono “invisibili” ed i 
vertici politico-militari tentano in ogni modo di attenuare morti e 
distruzioni, parlando di “danni ed errori collaterali” e dei 
bombardamenti come di “operazioni”.  
Dalla guerra del Golfo in poi tutto è cambiato: quella fu una “guerra 
che non ci lasciarono vedere” –ha scritto il maggior reporter italiano, 
Ettore Mo in “Sporche guerre” –“furono mesi di frustrazione, in cui 
contribuiva anche la Cnn che aveva assunto il monopolio 
dell’informazione”.  
La “battaglia nei cieli” si è ripetuta in Kosovo, dal 24 marzo al 9 
giugno, e nel momento in cui stiamo scrivendo in Afganistan, dove la 
definizione di “guerra umanitaria” è stata soppiantata da quella di 
“guerra al terrorismo”. Se è ancora difficile esprimere una valutazione 
sul conflitto in corso, si possono invece proporre spunti e riflessioni su 
quello scoppiato così vicino al nostro paese. Proprio questa vicinanza, 
insieme alla lezione del Golfo ed al desiderio di sapere dell’opinione 
pubblica, hanno reso la copertura informativa diversa rispetto al ’91.  
Alla luce delle responsabilità dei media delle quali ho scritto sopra ho 
voluto che il “problema” Kosovo ( e non a caso ho scelto di titolare la 
  IV 
 
mia tesi proprio in questo modo) fosse considerato in una prospettiva 
il più ampia possibile, non sottovalutando mai il ruolo, le mancanze ed 
e il linguaggio informativi. E’ per tale ragione che il “problema” 
Kosovo si intreccia spesso a quello dell’informazione, della notizia 
che diventa propaganda dell’una o dell’altra parte. 
Tutto ciò si riflette anche nella struttura della tesi nella quale ho 
analizzato il conflitto in Kosovo avvalendomi di cinque quotidiani 
italiani, Avvenire, il Corriere della Sera, il Giornale, il Manifesto e 
la Repubblica che sono diventate la fonte principale per il mio lavoro, 
affiancati da una bibliografia che spazia dalla storia agli interrogativi 
sul ruolo dei media. 
Ho ritenuto necessario ai fini della comprensione offrire un quadro 
storico della Regione, partendo da fatti che a tutta prima possono 
sembrare troppo lontani, come ad esempio la mitica battaglia di 
Kosovo Polje del 1389, ma che più volte sono emersi dall’ultimo 
decennio come risorsa della propaganda e motivo di nuovi odi. Nel 
primo capitolo ho cercato di dare spiegazione a quella che ho voluto 
definire “una difficile convivenza”, avvalendomi non solo della 
cronaca storica, ma anche di un approfondimento di quelli che sono i 
nazionalismi serbo ed albanese, i rapporti fra le due etnie ed i giochi 
forza del potere economico. Questi ultimi, infatti, sono spesso 
  V 
 
sottaciuti, così come il pericoloso intreccio fra il commercio di armi, 
mafia e droga, a favore dei tradizionali “odi ancestrali” della regione 
balcanica.  
Anche per tale ragione, oltre a quelle accennate all’inizio, abbiamo 
voluto vedere cosa succede quando “i media indossano l’elmetto”: 
negli ultimi anni gli strateghi dell’informazione hanno imparato che è 
meglio inondare i media di tante notizie in modo da saziare il “golem 
informativo”, l’importante è fornire solo un certo tipo di notizie e 
seguendo certe regole. L’obiettivo finale è quello di catturare il 
consenso dell’opinione pubblica, condizione senza la quale risulta 
difficile vincere la guerra. E’ una considerazione che il lettore del 
nuovo millennio non deve sottovalutare, abbandonando quello che 
può essere un approccio troppo ingenuo a favore di uno più critico che 
metta a confronto i media fra di loro. 
Nel secondo capitolo, dopo un veloce excursus, ho analizzato il 
discorso dei media su se stessi e ho preso in considerazione il 
bombardamento della televisione jugoslava, considerata un obiettivo 
militare, a mio parere paradigmatico del nuovo ruolo dei media nei 
prossimi decenni. 
Prima di addentrarmi nell’analisi vera e propria del conflitto, 
scoppiato il 24 marzo 1999, ho voluto ricostruire i fatti dell’anno 
  VI 
 
precedente. Se non si può parlare di una guerra classica nei tre mesi 
del ‘99, visto che ci si è limitati a bombardare i serbi, posso invece 
affermare che un conflitto fra l’Esercito di liberazione albanese, 
l’Uck, e le milizie serbe era già in corso dal ’98. 
Ho scelto quattro episodi, a mio parere più significativi nello sviluppo 
della vicenda, per la presentazione dell’anno precedente che occupato 
il terzo capitolo: d’altra parte, visto che anche in questo caso mi sono 
servita dei quotidiani, sono stati quelli che hanno catturato l’attenzione 
dei media ed internazionalizzato la questione kosovara. 
Dopo la conferenza di Rambouillet del febbraio ’99 il ricorso alla 
guerra è stato presentato come assolutamente necessario: nel quarto 
capitolo ho seguito il racconto dei giornali proponendo un andamento 
insieme cronologico e tematico. Mi è parso il metodo migliore per 
poter realmente tentare di descrivere una guerra che oltre ad essere 
“invisibile” è stata “etica ed umanitaria”: una prima visione assoluta 
per i nostri media. 
Da notare che si è trattato di una guerra che non è potuta essere 
documentata in tutti suoi fronti, visto che il Kosovo era stato 
dichiarato dal regime serbo off-limits per la stampa occidentale. Solo 
in casi eccezionali, ed “organizzati” dal governo di Belgrado, i 
giornalisti hanno potuto entrare nel paese. 
  VII 
 
Il livello più prettamente cronologico è stato costituito dall’inizio dei 
bombardamenti e dal dibattito che ha condotto agli accordi di pace, 
quello più tematico dai paragrafi sui profughi, la gente di Belgrado ed 
i cosiddetti “errori della Nato”. 
Ho terminato il quarto capitolo con una sorta di appendice dove ho 
affiancato, giustamente, al discorso sulle immagini della guerra quello 
che potremmo in maniera azzardata definire “reportage fotografico”. 
Penso, infatti, che in un’epoca in cui le parole dei media possono 
determinare il fallimento di una guerra, le fotografie abbiano un ruolo 
fondamentale, non fosse altro che per l’immediatezza della fruizione 
ed un maggiore impatto emotivo. 
Le immagini si sono rivelate uno strumento importante per mostrare 
stralci di verità, perché se i media non sono stati lo specchio diretto di 
questo conflitto certo hanno avuto, a mio parere, una parte vitale nel 
dimostrare i limiti della guerra “umanitaria”. Gli ossimori 
probabilmente non valgono quando di mezzo ci sono vite umane, 
quando le morti dei civili contano meno di quelle dei militari. 
 
Nel concludere la presentazione della mia ricerca non posso non 
ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato. 
  VIII
 
Per prima la Prof.ssa Anna Lisa Carlotti non solo per le indicazioni 
fornite nel corso di questo lavoro, ma anche per l’interesse verso la 
carta stampata che ha saputo comunicarmi durante il suo corso 
universitario. 
Se ho potuto portare a compimento questo lavoro devo ringraziare i 
miei genitori e soprattutto mia madre che mi ha sempre sostenuto fin 
da quando ho aperto il mio primo libro. La soddisfazione di questo 
momento è anche sua. 
Un ringraziamento speciale va a Guido che non mi ha fatto mai 
mancare sostegno e fiducia, diventando il primo lettore dei miei 
lavori: senza di lui quanto realizzato in questi anni non avrebbe il 
senso che invece ha. 
Non posso dimenticare le amiche di una vita, i compagni di studio e la 
redazione de “l’Esagono” che mi ha aiutato a crescere 
professionalmente. Grazie infine a tutti coloro, giornalisti di ieri e di 
oggi, che continuano con il loro lavoro a testimoniare passione e 
verità.
   
 
 
 
 
CAPITOLO I 
 LA STORIA DI UNA DIFFICILE 
CONVIVENZA 
  2
1.1 Premessa 
Nel dare inizio alla nostra ricerca, che ha come obiettivo un’analisi 
dell’approccio della carta stampata italiana (o almeno d’alcuni 
quotidiani) a quello che è stato il primo conflitto dopo la Seconda 
Guerra Mondiale a coinvolgere il nostro paese così da vicino, è più 
che mai necessaria una ricostruzione del panorama storico di quella 
regione. Vogliamo sottolineare la rilevanza perché a livello 
informativo la questione è stata per lo più semplificata ricorrendo a 
stereotipi che si rifacevano a giudizi di tipo morale e moralistico. La 
spettacolarizzazione ha prevalso sulla conoscenza storica, tanto che 
quando quest’ultima è stata utilizzata, lo si è fatto con categorie di 
divisione manichea tra “buoni” e “cattivi” che non incoraggiavano 
certo il dibattito, ma una visione unilaterale del problema.  
Esiste nella storia dei Balcani, o per lo meno in quella della 
convivenza fra albanesi e serbi, un punto che potremmo definire di 
non ritorno. Non si tratta di una facile spiegazione o del tentativo di 
trovare una soluzione ad oltre seicento anni di storia: pretenderlo 
sarebbe un errore ingenuo, tanto più che sminuirebbe quanto di 
importante è avvenuto nel corso dei secoli. Quello su cui invece 
vogliamo focalizzare la nostra attenzione è un punto di rottura che, 
  3
alimentato più dal mito che dai dati storici veri e propri, ha condotto 
poi ad altre vicende. Ed è interessante vedere come la storia stessa sia 
stata trasformata in un mito capace di ribaltare sconfitte ed orgogli 
offesi.  
E’ stata la memoria orale, strumento peculiare di società rurali come 
per molto tempo sono state quelle balcaniche, a rendere vivo un 
patrimonio di tradizioni che ha però contribuito a coltivare le 
differenze. Queste ultime non sono da appuntare tanto a fattori 
religiosi, sebbene a volte si sia tentato di presentarle come tali, quanto 
a motivazioni etnico-territoriali. In tutto ciò ha avuto un grande peso 
l’idea stessa di nazione propria dei popoli illirici, completamente 
diversa da quella nata nel resto d’Europa, giocata più sull’istinto che 
sulla ragione: una concezione “fondata su di una unità di lingua 
nazione dettata in parte da ragioni mistiche ed in parte da eredità 
“naturali”. …Venne così esaltata la specificità del gruppo  come un 
dato strutturalmente refrattario a contaminazioni. Qui ha trovato la sua 
radice più profonda quel rapporto fra nazione e territorio che il 
nazionalismo presenta sempre come inscindibile…la rivisitazione del 
passato ha indotto il nazionalismo a trasformare in una propria 
  4
appendice strumentale anche il mito politico”
1
. Quest’ultimo è stato 
quel punto di non ritorno di cui abbiamo detto: seicento anni di storia 
cominciati il 28 giugno 1389, in una zona divenuta famosa col nome 
di “Piana dei merli”. Una data, quest’ultima, che segnerà il destino dei 
popoli balcanici: se il principe ereditario d’Austria, Francesco 
Ferdinando, avesse conosciuto la valenza simbolica del 28 giugno, 
probabilmente avrebbe potuto evitare cinque secoli più tardi 
l’attentato dello studente serbo, Gavrilo Princip. Allo stesso modo agli 
occidentali non sarebbe passata inosservata la forte e pericolosa 
valenza nazionalistica del discorso tenuto nel 1989, nel giorno del 
vidov dan (la solenne celebrazione di San Vito del 28 giugno), da 
Slobodan Milosevic: “Suona più forte, eroe e fratello, - cantava la 
folla estasiata- è tornata serba la Piana dei merli”. La cronaca del 
conflitto che si è svolto in Kosovo inizia proprio da qui. 
                                                           
1
 Cfr. STEFANO BIANCHINI, La questione jugoslava, Giunti Castermann, Roma 1999, pag.12 
  5
1.2 Kosovo, la “Piana dei merli” 
“Ogni contadino serbo da soldato sa per cosa combatte: quando era 
bambino la madre lo salutava dicendogli: Salve piccolo vendicatore di 
Kosovo”
2
. E’ stato così, avvalendosi di un’epopea tramandata 
oralmente, come può essere stato per le Chansons des gestes, che la 
battaglia storica del 1389 è diventata un ciclo che ha ispirato non solo 
canti e leggende, ma la nascita di un mito politico. Basti ad 
evidenziare tutto ciò una notazione di carattere semantico: il nome 
stesso “Kosovo” deriva dal serbo “Piana dei merli”; da aggiungere 
che, al suo fianco, esiste anche Kosova di origine invece albanese. 
Una scelta quindi, quella fra le due denominazioni, che ha maggior 
valore politico che linguistico.  
“Veljka Srbija”, la Grande Serbia, è nata sulle ceneri di una cocente 
sconfitta, trasformata nei secoli in un’esperienza di riscatto, capace di 
muovere un intero popolo alla lotta.  
La “serbitudine”, il motto “Srbi svi i svuda” ( “Tutti i serbi 
dappertutto”) hanno origine da qui, da leggende  e miti persi nella 
notte dei tempi, ma in grado di sostituire la realtà nella memoria 
storica. Da allora la volontà è stata una sola, quella di ricreare un 
                                                           
2
 Ibidem, pag.28. 
  6
grande stato slavo come era quello medioevale dello zar Stefano 
Dusan. 
Il Kosovo ha per i serbi una valenza simbolica, ancor più che 
territoriale o politica: la regione, inglobata nel regno serbo da Stevan 
Nemanja (1166-1196) che sostituì il dominio bizantino, costituiva un 
centro importante della loro civiltà (cosa per altro testimoniata ancora 
oggi dal notevole numero di monasteri e chiese ortodosse presenti sul 
territorio). Ad opera dello zar Dusan l’area “si estese sino a formare 
un vasto impero balcanico, archetipo di ogni idea di “Grande Serbia”
3
. 
L’importanza di questo condottiero non si esaurisce sui campi di 
battaglia, dove conquista anche Tessaglia, Epiro ed Albania: 
proclamato zar nel 1346 e imperatore nel 1354, riuscì col suo carisma 
a dare un’impronta politico-spirituale all’idea della Grande Serbia che 
sarebbe sopravvissuta allo stesso crollo dell’Impero. Ed il Kosovo in 
questo disegno costituiva una delle tessere più vitali: in questa 
regione, infatti, aveva sede il patriarcato di Pec, “cuore dell’identità 
del popolo serbo convertitosi al cristianesimo orientale nel XI 
secolo”
4
. 
                                                           
3
 Cfr. LUCIANO BOZZO E CARLO SIMONE-BELLI, La “questione illirica”, Franco Angeli, Milano, 
1997, pag. 81. 
4
 Cfr. ROBERTO MOROZZO DELLA ROCCA, Kosovo, La guerra in Europa. Origini e realtà di un 
conflitto etnico, Angelo Guerini e Associati, Milano, 1999, pag. 9 
  7
Dopo la sua morte, i successori non riuscirono a resistere alle spinte 
degli ottomani che, dopo aver attraversato i Dardanelli, minacciavano 
i Balcani. La famosa battaglia di Kosovo Polje costituì la resa finale: il 
re serbo Lazar Hrebljanovic schierò inutilmente un’armata di 30000 
uomini contro i nemici. Non si sa se il sultano Murat I venne ucciso 
prima o dopo la battaglia dal finto disertore serbo, Milos Obilic : i 
turchi non si persero comunque d’animo, sostituendo immediatamente 
Murat con il figlio Bayazit ed avendo la meglio sul campo. Lazar, 
caduto nelle mani del nemico, venne decapitato: il regno dei serbi era 
miseramente crollato, ma non l’idea della “Veljka Srbija”. Per 
comprenderlo è sufficiente guardare alla reazione dei serbi alla storica 
disfatta: la sconfitta non era dovuta ad altro che alla scelta da parte del 
principe Lazar del regno dei cieli ed al tradimento di un disertore, Vuk 
Brankovic, che aveva ordinato alla sua riserva di ripiegare, invece di 
affrontare i turchi. Lazar da parte sua condusse il “popolo celeste” al 
martirio: il regno dei Serbi, novella Gerusalemme, sarebbe rinato.