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INTRODUZIONE 
 
I modelli di equilibrio economico generale sono basati sull’ipotesi di concorrenza perfetta 
del mercato in esame, nel quale domanda aggregata e offerta aggregata si eguagliano, 
garantendo un’efficiente allocazione delle risorse. Tutti gli agenti sono perfettamente 
informati ed il mercato è libero da frizioni. In un contesto di questo tipo, gli intermediari 
finanziari non hanno ragion d’esistere, dal momento che, raggiunta la Pareto-efficienza in 
equilibrio di mercato, non potrebbero, in alcun modo, accrescere il benessere collettivo. 
Tuttavia, la realtà è ben più complessa e l’ipotesi sopra riportata estremamente irrealistica. 
Istituzioni finanziarie, come banche e assicurazioni, esistono da molti secoli e svolgono 
importanti funzioni all’interno del sistema economico, quali funzione monetaria, di 
trasmissione della politica monetaria e, soprattutto, di intermediazione.  
In Italia, le banche assumono rilevanza fondamentate rispetto agli altri intermediari, dal 
momento che il panorama aziendale è costituito al 95 per cento da piccole e medie imprese 
(PMI), le quali ricorrendo molto poco al mercato dei capitali, individuano gli istituti di 
credito come principale fonte di finanziamento esterno. È dunque essenziale che il rapporto 
banca-impresa funzioni correttamente: la funzione di intermediazione creditizia dovrebbe 
essere svolta fluentemente, senza frizioni, con la collaborazione di entrambe le parti, ai fini 
della prosperità economica del paese. 
L’avvento della crisi finanziaria del 2007 ha fortemente turbato il mercato del credito, creato 
tensioni nel mercato interbancario e peggiorato i bilanci aziendali, anche a causa del contagio 
all’economia reale. I rapporti tra banche e imprese ne hanno subito le conseguenze perché 
queste ultime, bisognose di liquidità, hanno richiesto fondi che, in un numero sempre 
crescente di casi, non sono stati concessi dagli istituti di credito. Ciò ha comportato 
l’intensificarsi del fenomeno noto come razionamento del credito, in virtù del quale, nel 
mercato del credito, si giunge ad un equilibrio caratterizzato da sottofinanziamento, da un 
eccesso di domanda insoddisfatta e da un tasso d’interesse inferiore a quello ottimale. 
Oggetto della tesi è l’analisi di questo fenomeno e della sua manifestazione in Italia durante 
la crisi finanziaria. 
La tesi è suddivisa in due capitoli, in cui il tema del razionamento del credito è affrontato 
dal punto di vista teorico ed empirico grazie all’analisi di modelli e studi empirici. Nel primo 
capitolo sarà fornita una definizione di razionamento del credito e si discuteranno le varie 
teorie, che dagli anni Sessanta sino a tempi recenti, sono state elaborate per spiegarlo. Un
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netto “spartiacque” tra le teorie è individuato nel lavoro di Akerlof (1970), utilizzato da 
Stiglitz e Weiss (1981) per spiegare il razionamento del credito come frutto dei meccanismi 
di adverse selection e moral hazard. Nel secondo capitolo, invece, si procederà con un 
approccio empirico al fenomeno del razionamento del credito, utilizzando analisi e studi 
condotti negli scorsi anni su grandi campioni di imprese italiane, per capire come esso si sia 
manifestato durante la crisi finanziaria del 2007. In particolare, nei primi due paragrafi si 
traccerà un quadro di riferimento, illustrando brevemente lo scoppio della crisi finanziaria e 
l’arrivo in Italia nel 2008 e la conformazione del rapporto banca-impresa esistente nel nostro 
paese. In seguito, si metteranno in luce quali siano state le caratteristiche aziendali 
maggiormente influenti sulla probabilità di razionamento e quali altre variabili 
macroeconomiche abbiano determinato il comportato delle banche.
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CAPITOLO I 
MODELLI TEORICI SUL RAZIONAMENTO DEL CREDITO 
1. Razionamento del credito: definizione, tipologie  
Il concetto di razionamento del credito ha ricevuto notevole attenzione sin dalla seconda 
guerra mondiale. Fu chiaro da subito il collegamento tra il razionamento e la crescita 
economica, del sistema e delle singole imprese, soprattutto quelle di piccole e medie 
dimensioni, che non hanno accesso al mercato dei capitali e considerano la disponibilità di 
credito una variabile determinante per il loro sviluppo. Si parla di razionamento del credito 
quando, nel relativo mercato, la domanda è superiore all’offerta, con conseguente 
formazione di un eccesso di clienti insoddisfatti. Pertanto, come in qualsiasi schema 
domanda-offerta, in tale situazione il prezzo del credito, che è il tasso d’interesse, è inferiore 
al prezzo d’equilibrio che si otterrebbe dall’intersezione delle due curve. In letteratura, 
inoltre, si è distinto il razionamento dinamico, di natura transitoria e temporanea, da quello 
d’equilibrio, di natura permanente. 
Un primo accenno al fenomeno del razionamento lo si deve a Keynes che, nel 1930, si 
riferiva a “una fascia insoddisfatta di individui richiedenti credito”
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. Tali potenziali 
prenditori di fondi, infatti, sebbene disposti a pagare il tasso vigente sul mercato, non 
avevano ottenuto il prestito. Tale riferimento fu poi ripreso da Rosa (1951) nella availability 
doctrine, che guardava al razionamento in ottica macroeconomica, offrendo una supply-side 
theory in virtù della quale la banca raziona dei clienti a causa della limitatezza dei fondi di 
cui dispone, non sufficienti per soddisfare interamente la domanda. In quest’ottica la politica 
monetaria diviene un mezzo importante per contrastare il razionamento, dal momento che 
l’aumento dell’offerta di moneta si tradurrebbe nell’aumento della quantità di credito offerta.  
Tuttavia, nessuna importanza fu riservata da Rosa alla domanda di prestiti e alle sue 
caratteristiche, così come non fu spiegata la ragione per la quale la banca, in situazione di 
razionamento, non aumenti il tasso d’interesse per eguagliare domanda e offerta, 
conseguendo così profitti maggiori. Le teorie successive (Hodgman, Jaffee-Modigliani, 
Jaffee-Russel), cui si accennerà in seguito, sopperirono a queste mancanze, utilizzando una 
prospettiva non più macroeconomica, bensì microeconomica.  
                                                           
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 Keynes nella sua opera “A treatise on money” del 1930 parla di “An unsatisfied fringe of borrowers”.
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Cominciò così ad emergere una nuova idea di curva d’offerta, non più monotona rispetto al 
tasso d’interesse, ma crescente in un intervallo e decrescente in un altro, dal momento che 
per valori crescenti del tasso, cresce la probabilità d’insolvenza associata al prestito, con la 
conseguente possibile diminuzione del rendimento atteso della banca. Parallelamente, 
studiosi come Keeton e Baltensperger fornirono definizioni del fenomeno e ne 
indentificarono differenti tipologie. Nel 1978, Baltensperger scrisse che il razionamento del 
credito si verifica quando il tasso si trova permanentemente sotto il suo livello d’equilibrio, 
decretando la presenza di un eccesso di domanda, nonostante sia soddisfatto il requisito di 
razionalità del lender, o, altresì, quando il prenditore di fondi si mostra disposto a pagare il 
prezzo stabilito e ad accettare tutte le altre condizioni del contratto di prestito, ma non lo 
ottiene. Keeton, nel 1979, distingue due tipi di razionamento: del I tipo, quando una parte o 
tutti coloro che hanno richiesto il prestito lo ricevono ma in ammontare inferiore a quello 
desiderato (nonostante disposti a pagare il prezzo di mercato); del II tipo, quando alcuni 
clienti, del tutto indistinguibili da altri, non ricevono il prestito, sebbene disposti a pagare un 
tasso superiore a quello vigente e ad accettare tutte le altre condizioni del contratto (non-
price elements).  
2. La teoria di Hodgman ed il modello Jaffee-Modigliani 
Numerose sono le teorie che, dagli anni Sessanta in poi, sono state sviluppate per 
“endogenizzare” il fenomeno del razionamento e includerlo nella funzione di 
comportamento delle banche. In particolare, il primo economista che tentò di superare la 
spiegazione esogena del razionamento fu Hodgman, nel 1960, il quale sosteneva che fosse 
erroneo considerare il razionamento come un fenomeno temporaneo e influente solo nel 
breve periodo, messo in atto dagli istituti di credito al solo fine di condurre ad un generale 
aumento del tasso d’equilibrio (e conseguentemente una mera azione finalizzata alla 
massimizzazione del profitto). 
Il punto di partenza dell’economista americano è l’esistenza del rischio d’insolvenza 
connesso ai prestiti concessi, e, in particolare, la probabilità d’insolvenza che diviene 
prossima all’unità (certezza dell’evento) per ammontari superiore ad una certa soglia. In 
questo caso, la conformazione della curva di offerta dei prestiti, per taluni clienti, diviene 
inelastica rispetto al tasso d’interesse. Infatti, per determinate somme di prestiti, il rischio 
diventa tale che un aumento del tasso applicato dalla banca non compensa l’entità della 
perdita attesa stimata e rende “inappetibile” la concessione del credito. È il caso di 
rendimenti marginali decrescenti degli investimenti.
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 Partendo da queste considerazioni, si sono susseguite nuove teorie. Tra i modelli diffusisi, 
emerge quello di Jaffee e Modigliani, illustrato nel 1969. Jaffee e Modigliani sostengono, 
criticando teorie precedenti, che al fine di dimostrare l’esistenza del fenomeno del 
razionamento, occorre mostrare la presenza di un eccesso di domanda, ovvero dei clienti 
razionati. Considerano, inoltre, che il tasso applicato dalla banca dipenda da due variabili: 
l’orizzonte temporale di riferimento ed il tipo di mercato in cui opera (i.e. il grado di 
concorrenza dello stesso). In particolare, se la banca si comportasse come un monopolista 
discriminante
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, il razionamento non avverrebbe, in quanto non profittevole. In questo caso, 
infatti, conoscendo il grado di rischio di ciascun cliente si potrebbero identificare i singoli 
tassi ottimali da imporre. Laddove, invece, vi fossero delle “limitazioni” in tema di politica 
di tassi applicabili, e, dunque, la banca non potesse discriminare i singoli clienti, il 
razionamento diverrebbe un’opzione potenzialmente conveniente. A causa dell’esistenza di 
vincoli istituzionali e regolamentari, infatti, le banche raggruppano i clienti in classi 
omogenee, alle quali viene applicato lo stesso, o simile, tasso sui prestiti. In questo caso, la 
banca in grado di individuare il grado di rischio di ciascun cliente (e quindi il tasso ottimale 
che fisserebbe se fosse un monopolista discriminante), imporrà un tasso, compreso tra il 
massimo e il mimino che sarebbero stati applicati nelle condizioni di mercato 
precedentemente delineate. Stabilito tale tasso, con l’obiettivo di massimizzare il profitto, 
razionerà i clienti per i quali il tasso da applicare è inferiore a quello applicato in contesto di 
monopolio con discriminazione perfetta.  
Sebbene tale modello comportò un passo avanti nella spiegazione del razionamento 
d’equilibrio, non fu esente da critiche. La principale è l’incapacità di “incorporare” il 
razionamento nella funzione di comportamento della banca, ossia di “endogenizzare” il 
fenomeno. La spiegazione del razionamento, infatti, è ricercata in una causa esogena: i 
vincoli istituzionali e regolamentari imposti dalle autorità. Inoltre, un’ipotesi piuttosto 
inverosimile alla base del modello è quella dei costi separabili: risulta difficile credere che 
la banca, per ciascun cliente, possa identificare, con precisione, il rischio d’insolvenza e 
l’insieme di costi associati al prestito concesso.
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 L’ipotesi di monopolio con discriminazione perfetta è un caso teorico, che difficilmente può esistere in 
natura. Il monopolista in questione, conosce esattamente il prezzo massimo al quale il consumatore è 
disposto a pagare un’unita del bene in vendita, ed è il prezzo che impone, con conseguente realizzazione di 
massimo guadagno. Egli si appropria dell’intero surplus. 
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 Pittaluga G., “Il razionamento del credito”, 1991