5 
monografica e per testi normativi, nella convinzione che una finestra, 
per quanto angusta, sul “diritto vivente”, dovesse imperativamente 
essere aperta, per impreziosire l’esperienza e l’approccio personale 
nell’esecuzione della ricerca, ancor prima di offrire un piccolo “valore 
aggiunto” alla trattazione.  
Prima di concedere la lettura, sia permesso un ringraziamento a chi, con 
professionalità, stimoli e presenza, ha accompagnato e supervisionato il 
lavoro di ricerca, studio e redazione di queste pagine.  
 
Mattia Cornazzani 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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1. CENNI STORICI 
 
1.1 Breve cronistoria delle fonti del diritto marittimo e della navigazione 
 
La storia del commercio marittimo e della navigazione può essere 
ricostruita sulla base di quelle che sono generalmente le fonti della 
relativa disciplina.  
I primi popoli commercianti e navigatori (fenici, egiziani, babilonesi, 
cartaginesi) non hanno tramandato alcuna legge scritta, affidando in via 
quasi esclusiva le loro gesta alla consuetudine ed alla pratica.  
Così gli istituti di diritto medievali, ed i primi codici di mare moderni 
derivano dai principi fondamentali del diritto marittimo, sanciti nelle 
leggi rodiane e romane. In particolare, la prima raccolta di leggi e usi 
marittimi è la Lex Rhodia de Jactu1, i cui mirabili principi sono stati 
essenzialmente mantenuti e riprodotti dai legislatori posteriori, i quali ne 
hanno variato le modalità e la forma, ma non la sostanza. Secondo un 
rescritto contenuto nel Digesto2, la legge rodia “de rebus nautis” funge 
da ago della bilancia nelle controversie di diritto marittimo, già dai 
tempi dell’imperatore Antonino Pio (131 – 186 d.C.).  
Dopo la morte di Carlo Magno, l’asprezza del sistema feudale e le 
Crociate hanno contribuito ad una feconda espansione marittima, i cui 
frutti normativi – Ruoli di Oléron e Regolamenti di Wisby su tutti – sono 
tutt’ora al centro di numerose contese circa la rispettiva paternità.  
Degno di una menzione più estesa è il Consolato del mare, un 
“codice” di 294 capitoli che ha il merito di aver posto regole fisse, 
univoche e condivise, in un antico sistema intrinsecamente caratterizzato 
dalle incertezze e dagli abusi. Per quanto divergano le opinioni sulla sua 
                                                 
1
 È il nome tradizionale che in diritto romano aveva la norma consuetudinaria che 
regolava il concorso tra tutti i proprietari delle merci e della nave, per ristorare il danno 
del proprietario delle merci buttate dalla nave, allo scopo di alleggerirla durante 
qualche circostanza perigliosa, per la salvezza comune. Di tale concorso era partecipe 
anche il proprietario della nave, che contribuiva al “getto in mare” per la sua porzione, 
non facendosi riferimento alcuno al valore della nave o del nolo. Il principio qui 
esposto venne abbandonato dalle istituzioni medioevali e dai Codici marittimi moderni, 
per essere poi ripreso e consacrato dalle contemporanee Regole di New York ed 
Anversa del 1890, uno dei primi tentativi di legislazione marittima uniforme.   
2
 Titolo II, Libro IV 
 7 
origine – c’è chi lo attribuisce ai Pisani, chi alla città di Marsiglia o di 
Barcellona – gli storici riconoscono senza ombra di dubbio un peculiare 
e determinante contributo italiano, atteso che alcuni capitoli dell’opera si 
ispirano con certezza alle leggi di Amalfi3, la più antica ed esperta città 
per il commercio e la navigazione.  
Anche la Francia vanta una rimarchevole legislazione marittima, in 
particolare deve essere menzionata l’Ordinanza francese del 1681, la 
quale, oltre ad essere il documento legislativo più prestigioso e rilevante 
prodottosi nel secolo di Luigi XIV, ha avuto una straordinaria diffusione 
in tutta Europa. Ciò si deve principalmente all’intento vincente del suo 
autore4, quello di sintetizzare le radicate consuetudini commerciali e 
marittime francesi, in un corpo normativo chiaro, ordinato ed 
intelligente, il quale ha ispirato tutte le successive legislazioni in materia 
di commercio e navigazione marittimi.  
Oltremanica l’Inghilterra, pur essendo sin dalle sue origini una potenza 
commerciale, ed anche marittima, non si è mai dedicata all’elaborazione 
di una propria codificazione, ma ha sempre fatto uso delle consuetudini 
e delle leggi di altri popoli, a seconda dei propri bisogni ed esigenze. 
L’esperienza giuridico-marittima inglese porta frutti interessanti sul 
versante giurisprudenziale, in particolare con l’operato della Corte 
dell’Ammiragliato5, un organo competente per alcune tipologie di fatti 
marittimi.  
Fatta eccezione del Merchant Shipping Act, la maggiore produzione di 
codici si ha nel XIX secolo; dal 1808 al 1893 Francia, Belgio, Spagna, 
Olanda, Portogallo, Italia, Germania, Svezia, Norvegia, Danimarca e 
                                                 
3
 In virtù dei suoi evoluti traffici marittimi, strinse proficui rapporti commerciali con 
Costantinopoli e Venezia, tanto da indurre alcuni storici a pensare che il Consolato del 
mare fosse, in realtà, sorto a Venezia.  
4
 Jean-Baptiste Colbert (1619 - 1683) ispiratore del mercantilismo francese 
(colbertismo), ottenne dal Re nel 1669 l’istituzione del Ministero della Marina 
Francese, di cui fu il primo titolare.  
5
 È costituita da due Camere: quella principale, diretta da un giudice assistito da due 
periti nautici, avente il compito di esaminare le questioni di principio, ed una seconda, 
subordinata alla prima, presieduta da un registrar assistito da due tecnici, incaricata di 
discutere sulle cifre.  
La Corte dell’Ammiragliato era competente in materia di: proprietà dei navigli, 
ipoteche marittime, danni occasionati per l’abbordaggio, avarie al carico, salvataggi e 
rimorchi, riparazioni e forniture effettuate ai navigli, paghe dell’equipaggio, porto 
illegale di bandiera, tratta degli schiavi e trasporto di merci pericolose.  
 8 
Russia si dotano di un codice, che comprende anche elementi peculiari 
di diritto marittimo. È coeva di questa epoca, soggetta a grandi 
mutamenti, storici, politici, sociali ed anche giuridici, l’esigenza sempre 
più viva di una legislazione marittima comune, che sia il risultato 
dell’opera collettiva delle nazioni, e che trovi applicazione uniforme. La 
National Association for the promotion social science di Londra si fa 
carico della soddisfazione di tale esigenza nel 1860, anno in cui indice la 
Conferenza di Glasgow; evento rivelatosi infruttuoso perché disertato da 
molte istituzioni marittime nazionali. 
Trent’anni più tardi, nel 1890, prende forma il primo tentativo di 
codificazione uniforme nelle Regole di New York e di Anversa6, le quali 
trovano sostegno tra gli armatori inglesi e americani, ma non altrove. Le 
ragioni del fallimento delle Regole di New york e di Anversa sono 
intrinsecamente individuate: invece di enumerare principi generali, 
contengono le soluzioni di una serie limitata di casi speciali, ragion per 
cui non possono assurgere al ruolo di Codice Internazionale per le 
Avarie (Tullio). 
All’alba del XX° secolo, dopo una stagione caratterizzata da molti 
Congressi, vengono alla luce le prime organizzazioni stabili di settore, a 
carattere sovranazionale. Ne sono esempi il Comitato Marittimo 
Internazionale, sorto in Belgio nel 1897 e la Società Austriaca per il 
diritto marittimo, istituita a Vienna e Trieste nel 1901.  
Dalla Lex Rhodia al primo Novecento, in questo paragrafo si è offerto 
un rapido e sintetico panorama storico dal quale emerge con evidenza lo 
sforzo dei popoli delle varie epoche di risolvere le sempre più complesse 
problematiche legate ai traffici marittimi. Risulta così incontestabile 
l’autonomia della disciplina e delle sue fonti, nonché il progressivo e 
faticoso tentativo delle nazioni di risolvere sia i problemi di carattere 
materiale ed economico, sia le molteplici questioni giuridiche, mediante 
normative comuni.  
                                                 
6
 L’Italia non accolse immediatamente le innovate disposizioni perché il proprio ed 
apposito diritto marittimo, regolato sia nel Codice di Commercio, sia nel Codice della 
Marina Mercantile – L. 2 aprile 1865, L. 24 marzo 1877 e L. 11 aprile 1886 – 
conteneva una normativa più vantaggiosa per i caricatori e gli assicuratori. Per questo 
motivo vennero adottate solo nel 1892, durante il Congresso Internazionale di diritto 
marittimo, tenutosi a Genova in occasione delle feste colombiane.  
 9 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 10 
2. LA DISCIPLINA PRECEDENTE ALLA RIFORMA 
 
2.1 Le fonti del diritto portuale dalla fine del XIX secolo agli anni ‘80. 
La fragilità del “vecchio” sistema portuale italiano 
 
La normativa che disciplina la portualità interna è quella che, dagli anni 
’90 ad oggi, ha subito il più profondo processo di riforma. Questo ha 
portato la realtà portuale italiana a diventare una fattispecie giuridica 
completamente diversa da quella che era fino ad allora. Prima della L. n° 
84/1994, l’universo normativo inerente alla materia portuale versava in 
uno stato confusionale, cagionato principalmente dal numero e dalla 
frammentarietà delle sue fonti. Ripercorrerle tutte potrebbe rivelarsi 
arduo e fuorviante, per cui verranno ricordati alcuni passaggi 
fondamentali, che hanno marcatamente improntato la precedente 
stagione normativa: 
• il R.D. 2 aprile 1885, n° 3095 (t.u. sui porti, le spiagge ed i fari), 
recante norme sulla classificazione dei porti, sulla realizzazione 
delle opere portuali, con particolare riferimento alle competenze 
ed al finanziamento delle stesse7;  
• il R.D. 30 marzo 1923, n° 2476 (codice della navigazione), nel 
quale è contenuta la disciplina inerente l’amministrazione, l’uso 
ed il godimento del demanio marittimo portuale; la polizia nei 
porti, le operazioni portuali e le altre attività economiche svolte 
negli scali;  
• la L. 15 giugno 1984, n° 245 riguardante il Piano Generale dei 
Trasporti (PGT), del quale la l. n° 84/1994 all’art. 1 si 
autodefinisce norma di attuazione.  
Il richiamato quadro giuridico, pone le sue radici in un’epoca in cui il 
lavoro manuale era la principale risorsa per le operazioni di carico e 
scarico delle navi, e di movimentazione delle merci in genere.  
Si può anche osservare, senza procedere con approfondite analisi, che 
anche le tecniche ed i sistemi di trasporto siano stati, in passato, molto 
diversi da quelli attuali; ragion per cui i porti non conoscevano la 
                                                 
7
 Si ricordi il regolamento attuativo contenuto nel r.d. 26 settembre 1904, n° 713. 
 11 
concorrenza e potevano così fare affidamento su di un flusso di merci 
tendenzialmente stabile, non influenzato dal costo delle operazioni 
portuali e determinato, in via principale, se non esclusiva, dalla loro 
posizione geografica.  
La situazione era tale per cui, con la compiacenza delle amministrazioni 
locali, le maestranze di ciascun porto, organizzate in compagnie 
esclusiviste, potevano e talvolta riuscivano ad imporre alle imprese 
portuali ed all’utenza in generale prestazioni di scarse economicità ed 
efficienza, assicurandosi condizioni di lavoro e salari convenienti, se 
non privilegiati.  
Il progresso tecnologico e logistico, nonché l’incremento dei traffici, 
hanno avuto effetti dirompenti sulla tenuta del sistema. Il trasporto 
marittimo containerizzato ha completamente innovato le tecniche di 
trasbordo della merce, imponendo un totale superamento del lavoro 
manuale ed il ricorso a mezzi meccanici automatizzati, con notevole 
riduzione delle esigenze di mano d’opera.  
L’evoluzione dell’economia dei trasporti ha introdotto una variabile 
nuova, identificabile nella fungibilità dei porti (collegata allo sviluppo 
delle infrastrutture e dei sistemi di mobilità “via terra”), ossia il rischio, 
incombente in maggior misura sugli scali marittimi italiani piuttosto che 
quelli esteri, che le realtà meno competitive ed efficienti si vedessero 
spossessate di una fetta vitale di traffico. 
Per essere concorrenziale, e così attirare gli utenti, un porto deve ormai 
saper rispondere ad esigenze di qualità, speditezza ed economicità delle 
operazioni.  
L’esponenziale sviluppo dei secoli recenti, ha reso ancor più necessaria 
nel porto l’organizzazione di imprese terminalistiche, per le quali in 
passato non esisteva altro che una ridotta possibilità di cittadinanza, da 
rintracciarsi mediante la combinazione di diversi istituti, inizialmente 
non previsti, per rispondere alle esigenze di questi nuovi soggetti, quali:  
• la concessione esclusiva di aree e banchine (art. 36 cod. nav.); 
• l’accosto preferenziale (art. 62 cod. nav.); 
• l’autorizzazione a svolgere operazioni portuali per proprio conto 
(art. 201 reg. nav. mar.); 
 12 
• la concessione di costruzione e gestione.  
Al cospetto del rinnovato progresso tecnologico, nella logistica e nel 
volume dei traffici, i porti italiani si sono presentati con norme obsolete 
e male applicate, le quali hanno condotto l’intero settore vicino ad un 
autentico baratro, ossia la concreta possibilità di venire surclassati da 
alternative di mercato in precedenza non esistite, o non considerate.  
A ciò deve aggiungersi che gli enti preposti ai maggiori porti della 
penisola presentavano sistematicamente risultati di gestione gravemente 
deficitari8: le irregolarità gestionali ricavabili dalla giurisprudenza delle 
sezioni di controllo della Corte dei Conti, potrebbero comporre elenchi 
interminabili9.  
C’erano dunque seri elementi, intrinseci al sistema, che imponevano una 
riforma. 
 
2.2 Il lavoro portuale  
 
I lavoratori portuali, incaricati del movimento in genere delle merci nel 
porto, erano coordinati dal comandante del porto. Agli effetti della 
normativa codicistica allora vigente, erano considerate lavoratori 
portuali tutte le persone addette alle operazioni portuali ed alle altre 
operazioni indicate dalle singole tariffe (art. 148 reg. mar.). Per 
assumere tale qualifica, era necessario superare un concorso ed essere 
iscritto in appositi registri (art. 150, 154 reg. mar.).  
Nei maggiori scali marittimi erano istituiti uffici del lavoro presso i 
compartimenti e presso gli altri uffici - designati dal Ministero della 
Marina Mercantile – a cui dovevano anche essere presentati i ricorsi 
contro i provvedimenti dell’autorità preposta alla disciplina del lavoro 
portuale.  
Le maestranze addette alle operazioni portuali (imbarco, sbarco, 
trasbordo, deposito e movimento in genere delle merci e di ogni altro 
                                                 
8
 Sul finire degli anni 80, in Parlamento, non erano infrequenti interpellanze che 
denunciavano la profonda crisi del settore, imputata dai più al regime pubblicistico dei 
porti commerciali, rivelatosi a più riprese non efficiente né economico.  
9
 A sostegno di quanto appena asserito si può rammentare che, sul finire degli anni 80 
la situazione gestionale dei maggiori porti italiani era talmente grave da incidere 
negativamente sul quadro della finanza pubblica generale.  
 13 
materiale nel porto) erano costituite in compagnie soggette al controllo 
dell’autorità preposta alla disciplina del lavoro portuale. Nei porti e 
approdi di minor traffico le maestranze portuali, ove ne fosse 
riconosciuta la necessità, erano costituite in gruppi, secondo le modalità 
determinate dal Codice della Navigazione (art. 110).  
La costituzione delle compagnie avveniva, su proposta del capo del 
compartimento, sentito il consiglio di lavoro portuale, dal direttore 
marittimo, con decreto di cui era dato annuncio nella Gazzetta Ufficiale. 
Lo stesso direttore stabiliva anche la misura del conferimento – il quale 
poteva avvenire anche mediante trattenute rateali sui salari – di ciascun 
lavoratore per l’ingresso nella compagnia portuale. Il rapporto tra 
lavoratore e compagnia era mutualistico, quindi associativo; non aveva 
carattere di subordinazione proprio per l’incompatibilità tra la stessa e la 
sistemazione paritaria propria del rapporto associativo.  
La compagnia era costituita dai seguenti organi:  
• assemblea dei componenti, titolare della funzione deliberativa e 
competente in materia di approvazione del bilancio ed elezione 
del console; 
• consiglio, titolare della funzione amministrativa, composto dal 
console e da uno o più vice-consoli, eletto mediante un 
procedimento caratterizzato dalle elevate presenza e consenso 
dei soci (quorum costitutivo del 75% dei soci, quorum 
deliberativo della maggioranza assoluta dei votanti);  
• console, a capo del consiglio, titolare della rappresentanza legale 
della compagnia e dei compiti direttivi ed organizzativi del 
lavoro portuale; 
• collegio dei revisori, incaricato del controllo contabile sulla 
compagnia.  
In casi di gravi irregolarità di funzionamento, il Ministero della Marina 
Mercantile poteva affidare, per un periodo di tempo non superiore ad un 
anno, la gestione della compagnia ad un commissario straordinario, 
titolare delle attribuzioni del console e dei vice-consoli. Se fosse stato 
necessario, la gestione commissariale poteva essere prorogata per 
ulteriori sei mesi, rimuovendo dalla carica anche i revisori, le cui 
 14 
funzioni venivano in questo caso affidate ad un altro revisore, a scelta 
del Ministero della Marina Mercantile.  
Le compagnie erano considerate persone giuridiche private esercenti un 
pubblico servizio, cui spettava l’attuazione in via esclusiva delle 
operazioni predette nell’ambito del porto10. Era preclusa alle stesse 
l’esecuzione delle operazioni di stivaggio e tiraggio a bordo delle navi 
ormeggiate ai pontili di proprietà dei magazzini generali e delle relative 
operazioni di facchinaggio, sempre che alle stesse provvedessero 
lavoratori stabili alle dirette dipendenze dei magazzini (cd. riserva di 
lavoro portuale).  
Il maneggio delle merci nei porti non concretava, secondo questa 
impostazione, il perseguimento di un interesse diretto dello Stato, dal 
quale potesse derivare la qualità di ente pubblico delle compagnie, anche 
se parte della dottrina lo ha sostenuto. Ciò è confermato dal regime 
giuridico e dalla struttura delle compagnie che erano società cooperative 
a responsabilità limitata, le quali si prefiggevano uno scopo 
mutualistico, diretto alla eliminazione degli intermediari, per consentire 
ai soci più utile in derivazione della loro attività.  
Quand’anche fosse ammesso che il compimento delle operazioni 
portuali realizzasse un pubblico servizio, ebbene tale circostanza non 
avrebbe alterato la precedente conclusione, la compagnia continuava a 
rimanere un ente privato incaricato di un pubblico servizio.  
Circa la natura del contratto tra la compagnia e i soggetti che 
richiedevano le prestazioni della stessa, è stato sostenuto in dottrina che 
si trattasse di un contratto di somministrazione di lavoro, in forma di 
appalto, dato che la squadra di lavoratori attendente alle operazioni 
portuali, difficilmente entrava in rapporto con il committente – almeno 
nella normalità dei casi – bensì agiva alle dirette dipendenze degli organi 
della compagnia, che si impegnava a fornire al committente il risultato 
richiesto.  
A ben vedere la dottrina non mancava di evocare anche altre figure 
giuridiche quali, il contratto di trasporto, di deposito, di mandato; ciò in 
                                                 
10
 È dubbio se tale riserva si estenda anche al trasporto di effetti postali, attribuito dal 
R. D, 645/1936 all’Amministrazione delle Poste.