6
Vorrei qui ripercorrere quello che è stato il mio criterio di scelta, 
che a riguardarlo oggi mi pare il giuoco delle scatole cinesi. 
Già al tempo dei romani il diritto veniva ripartito in due grandi 
branche, lo jus pubblicum e lo jus privatum, partizione che ha ancor oggi 
la sua validità. In linea di massima possiamo dire che il diritto pubblico si 
occupa, come sosteneva nel suo manuale di diritto costituzionale Carlo 
Cereti
1
, di tutto ciò che riguarda la posizione, la condizione, nonché la 
conduzione, dello Stato, mentre il diritto privato rifacendosi al criterio 
romanistico dell’utilità (jus privatum est quod ad singulorum utilitatem 
pertinet), riguarda interessi privati individuali. Qui ho trovato il primo 
bivio, e avrei dovuto scegliere da quale parte proseguire il cammino, per 
non arrivare ancora al punto “finale”, che poi è quello di partenza. 
Ebbene, ritengo di avere compiuto una scelta particolare, dato che il 
“mio” settore si lega strettamente con le due tradizionali partizioni; mi è 
stata concessa la possibilità di misurarmi con il diritto del Lavoro, che 
come Giuseppe Pera scriveva nel suo manuale del 1974
2
 è “materia 
relativamente nuova, tipica dell’esperienza giuridica contemporanea”. 
Ebbene, credo che queste parole suonino, oggi come allora, estremamente 
chiare sopra il gran parlare che si fa di diritti sociali. 
Ho scelto il settore giuslavorista perché al centro delle sue regole 
c’è l’uomo, la persona. Non è una particolarità di esclusivo appannaggio 
del diritto del Lavoro: abbiamo infatti studiato che il diritto ha una 
funzione regolatrice dei comportamenti umani, e pertanto le azioni 
dell’uomo sono rilevanti per tutto il diritto; però, a mio avviso, rispetto a 
tutti gli altri rami giuridici, il diritto del Lavoro ha la capacità di porsi 
come crocevia, quasi fosse un catalizzatore di alcuni degli elementi 
propri degli altri settori del diritto. 
                                                           
1
 Cfr. C. CERETI, Diritto costituzionale italiano, UTET, Torino, 1974. 
2
 Cfr. P. PERA, Lezioni di diritto del lavoro, Edizioni de Il Foro Italiano, Roma, 1974. 
 7
A titolo di esempio, ricordiamo che il diritto privato regola i 
conflitti tra gli interessi dei singoli per mezzo di comportamenti, 
concretizzati il più delle volte in negozi giuridici, di cui il contratto è 
espressione paradigmatica; ebbene nel diritto del Lavoro tutta la 
disciplina del contratto assume una grande importanza, dato che una 
delle due parti contraenti, il lavoratore, è considerata la meno 
giuridicamente informata e quindi più bisognosa di tutela, ed altresì che 
l’oggetto del contrarre è una parte di sé, ovvero le sue capacità, il suo 
tempo, le modalità con cui porre in essere i suoi obblighi; inoltre vengono 
anche considerati quelli che sono i suoi bisogni, i suoi diritti che 
dall’obbligazione contrattuale sorgono, e via di questo passo. 
Nel diritto commerciale, l’uomo crea, gestisce, movimenta beni 
attraverso particolari strumenti, i quali sono, ognuno, dotati di proprie 
regole di funzionamento, beni che vengono impiegati al fine di produrre 
una ricchezza che sia economicamente valutabile. Orbene, questa attività 
può essere svolta da un singolo soggetto giuridico, oppure da una 
pluralità di soggetti, i quali si occupano il più delle volte di concretizzare 
porzioni di quella attività che ha come scopo finale la creazione di 
un’entità. L’eventualità che la predetta attività non sia eseguibile da un 
singolo, è circostanza estremamente rilevante per il diritto del Lavoro, 
dato che il più delle volte l’ausilio alla produzione è fornito da esseri 
umani, persone che le dedicano il proprio tempo, le proprie capacità, le 
proprie conoscenze, tanto in via mediata quanto in via diretta. 
Il diritto Costituzionale, si occupa di regolare il funzionamento 
della società, intesa come forma di associazione delle persone, le quali 
scelgono di far parte di una comunità e di spogliarsi di una parte delle 
proprie libertà assolute in favore di un soggetto che garantisca le libertà 
assolute di tutti (ubi societas ibi ius). Questo è lo Stato, il quale ha poteri e 
doveri verso i soggetti che lo compongono, i c.d. consociati. Il nostro 
 8
Stato per svolgere la sua funzione ha scelto di rifarsi a principi che 
giudica fondamentali, sancendone il più possibile i confini; lo ha fatto 
inserendoli in un documento scritto che si chiama Costituzione. Testo 
dotato di grande importanza per la vita di tutti, perché in esso si 
ritrovano quelli che sono appunto i diritti-doveri di tutti noi, Stato 
compreso. Come non ricordare il primo articolo? “L’Italia è una 
Repubblica democratica fondata sul lavoro”, e subito non possiamo che 
proseguire nella lettura dell’articolo quattro: ”La Repubblica riconosce a 
tutti i cittadini (rectius consociati) il diritto al lavoro e promuove le 
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il 
dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, 
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o 
spirituale della società”; il testo deve essere coordinato con il precedente 
articolo uno, ma esprime comunque una forte attenzione per l’opera delle 
persone, di questo appunto si occupa in concreto il diritto del Lavoro, 
ovvero dello studio di quelle che sono le regole attraverso le quali è 
possibile realizzare una parte del dettato della nostra Costituzione. 
Un altro settore del diritto si occupa di regolare l’esistenza della 
società, o meglio di garantirne l’esistenza, così ci ha insegnato l’Antolisei 
nel suo manuale di diritto penale
3
, ricordandoci che la funzione dello 
Stato è quella di realizzare in concreto quella delimitazione della libertà 
di ciascuno che Kant diceva trovarsi nel rispetto della libertà altrui
4
 
(“l’insieme delle condizioni mercé le quali l’arbitrio di ciascuno può 
essere accordato con l’arbitrio degli altri nel massimo di libertà 
comune”). Il diritto penale è un mezzo per guidare i comportamenti 
dell’uomo, stabilendo cosa è vietato e cosa è consentito, cosa è pericoloso 
                                                           
3
 Cfr.  F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975. 
4
 Cfr. D. PASINI, Diritto, società e Stato in Kant, Milano, 1957. 
 9
per la sicurezza, tanto individuale quanto collettiva, e cosa 
indirettamente lo sia per la salute dell’intiera società.  
Il diritto del Lavoro collabora proprio con quel diritto che ha come 
principale questa funzione. Concordando tutti sul principio che la 
sicurezza collettiva è fondamentale, al punto che metterla a rischio è 
comportamento riprovevole, non possiamo però scordare che ogni 
attività umana ha una sua pericolosità intrinseca e che può anche 
verificarsi una conseguenza spiacevole quale sua indiretta conseguenza. 
Il punto è stabilire quanto deve essere grande l’aleatorietà che tale evento 
negativo si realizzi. Sul luogo di lavoro, per esempio, possono essere 
infinite le situazioni pericolose per l’incolumità dei soggetti, prima di 
tutto per chi svolge un’attività; in proposito il diritto del Lavoro 
stabilisce, tra l’altro, quali siano gli strumenti e quali i comportamenti per 
limitare i rischi intrinseci all’attività lavorativa tout court, il disattendere i 
quali comporta il porre in essere un azione che appunto è riprovevole e 
pericolosa, e che lo Stato ha stabilito essere degna di sanzione. 
Dopo avere scelto il settore del diritto su cui indirizzare il mio 
studio “finale”, come ho prima ricordato, mi sono sentito in colpa per 
aver fatto una scelta che apparentemente era esclusiva; ma cercando 
come un modo per farmi perdonare da quei settori che mi attiravano e 
che ho poi escluso, ho scoperto come essi non fossero stati estromessi 
dalla mia futura vita di giurista: infatti gli esempi che ho appena fatto 
potrebbero andare avanti ancora per molto. Questo è il bello del diritto, 
ovvero la sua composizione, fatta di settori che si richiamano 
continuamente l’uno con l’altro, arricchendosi reciprocamente e 
arricchendo anche chi, come me, ha imparato a partire da un punto per 
poi trovarsi a percorrere strade che via via si facevano più chiare, 
interessanti, faticose, attuali, vive. 
 10
In quest’ottica mi è stato affidato l’esame di un particolare istituto 
del diritto del Lavoro, che per le problematiche sottese ha un po’ di tutti 
quei settori che avevo scartato. Il trasferimento di azienda è un 
argomento attualissimo e particolarmente delicato, ho cercato il più 
possibile di analizzarlo e di riassumerlo schematicamente; ricordo che mi 
è stato insegnato che non esiste in assoluto un metro di bontà per 
valutare la validità delle cose, esistono tanti criteri presuntivi, tra i quali 
uno dei più importanti è rappresentato da quelle che sono le capacità e le 
possibilità personali, insomma oltre al grado di impegno, quelle che sono 
le doti personali che madre natura e la genetica ci hanno fornito. 
 
 11
Capitolo I  
Evoluzione legislativa dell’istituto del trasferimento di 
azienda. 
 
 
1.1 I confini della nozione di azienda ai fini del suo 
trasferimento ex art. 2112 c.c. . 
 
 Il trasferimento di azienda è istituto del diritto civile che apre 
scenari interpretativi i cui risultati spiegano notevoli effetti sulla vita 
economica e sociale del nostro Paese; consapevoli dunque della 
delicatezza della fattispecie e partendo da questa considerazione iniziale, 
è bene cercare di tracciare quelli che sono i confini definitori della 
nozione di azienda, così come nominati dal codice civile. 
 Il primo articolo del nostro codice che può costituire il punto di 
partenza per la nostra indagine, è l’art. 2555 ove si definisce l’azienda 
come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio 
dell’impresa”. Per poter proseguire la nostra operazione di ricostruzione 
è altresì necessario esaminare quelle che sono le nozioni di impresa e di 
imprenditore, contenute nell’articolo 2082, il testo del quale definisce 
imprenditore colui che “esercita professionalmente un’attività economica 
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”: 
l’analisi dell’enunciato normativo permette di ricostruire quella nozione 
di impresa che il 2555 menziona solamente; essa è quella attività che 
l’imprenditore, in prima persona o in modo che a lui sia giuridicamente 
riconducibile, svolge in modo professionale, economico ed organizzato, 
con il fine di produrre o scambiare beni o servizi.  
 12
Appare pertanto evidente quanto le nozioni di azienda, impresa e 
imprenditore siano, nel nostro ordinamento giuridico, intimamente 
connesse. 
 Orbene, l’azienda è il complesso dei beni che l’imprenditore 
impiega e gestisce al fine di svolgere la sua attività economica; ovverosia 
l’azienda è lo strumento operativo dell’imprenditore
5
, come lo è 
l’orchestra per il suo direttore. 
 Per poter svolgere la sua attività (rectius impresa) l’imprenditore 
utilizza una serie eterogenea di beni tra loro legati per la comune 
destinazione servente, nel senso cioè che ciò che li accomuna è il carattere 
strumentale
6
, ovvero la loro organizzazione volta al comune obiettivo 
tecnico-economico perseguito dall’impresa
7
. 
 Tra i beni vanno ricondotti non solo i c.d. beni materiali ovvero i 
locali, i macchinari, i semilavorati e i prodotti finiti, disegni e 
documentazione tecnica, gli arredi, le strutture “fisiche”, ma anche i 
servizi; essi infatti rientrano in una visione armonica dell’azienda, in 
quanto l’insieme dei beni deve essere organizzato attraverso attività di 
coordinamento, di raccolta, di trasformazione ed elaborazione che 
vengono poste in essere dai collaboratori dell’imprenditore; orbene, 
anche le energie lavorative dei prestatori d’opera, che sono coordinate e 
organizzate, e i risultati di tale operato, costituiscono l’oggetto 
dell’attività imprenditoriale. 
 Quanto sino qui affermato porta senza alcun dubbio a vedere 
l’azienda come qualcosa di estremamente poliedrico e vivo, un’entità 
giuridicamente rilevante, nel senso che di essa si occupano numerose 
                                                           
5
 Cfr. F. GALGANO, Commento all’art. 2555 c.c., in Commentario al codice civile, diretto da 
Cendon, Torino, 1991, pag. 1415. 
6
 Cfr. CASANOVA, Azienda, in Novissimo Digesto Italiano, discipline privatistiche, 
sezione diritto commerciale, Torino, 1980, pag. 77. 
7
 Cfr. FERRARA-CORSI, Gli imprenditori e le società, Giuffrè, Milano, 1992, pag. 159. 
 13
disposizioni legislative, tra le quali ricordiamo tutte le norme che sono 
contenute nel Capo I, Titolo VIII, Libro V del nostro codice civile, 
dedicato appunto all’azienda e non si può non ricordare che l’art. 2112 
regolamenta la gestione dei contratti di lavoro in caso di trasferimento 
dell’entità sopra delineata. Che per certi aspetti è la situazione forse in 
assoluto più delicata dell’intera gamma dei possibili scenari in cui viene a 
trovarsi un’azienda durante la sua esistenza. 
 Proprio perché l’azienda è un complesso di beni, essa può 
soggiacere, a sua volta, agli effetti della disciplina dettata per tutte le cose 
che singolarmente la costituiscono, ovvero può ben “formare oggetto di 
diritti” così come recita l’art. 810 c.c., e a riprova di ciò basti ricordare 
anche l’art. 670 c.p.c., il quale dispone il sequestro giudiziario di aziende 
di cui sia dubbia la proprietà o il possesso. 
Tuttavia secondo un orientamento dottrinale
8
, il trasferimento 
comprenderebbe esclusivamente il complesso di beni, intesi nel senso di 
cui al citato art. 810 c.c., mentre secondo un altro orientamento
9
, esso 
sarebbe riferibile al complesso dei beni mobili e immobili, materiali e 
immateriali e ai rapporti giuridici
10
. Quest’ultimo orientamento parrebbe 
il più attendibile confermato inoltre dalla disciplina che regola il 
trasferimento dell’azienda
11
. Si tratta di una normativa che pone in 
evidenza la necessaria coesione dei beni e dei rapporti giuridici e la 
destinazione degli uni e degli altri all’esercizio dell’impresa. Nonostante 
questo principio sia generalmente condiviso, esso deve misurare la 
                                                           
8
 Cfr. GRANDI, Le modificazioni del rapporto di lavoro, I. Le modificazioni soggettive, Giuffrè, 
Milano, 1972. 
9
 Cfr. CASANOVA, Azienda, in Novissimo Digesto Italiano, UTET, Torino, 1957, n. 8. 
10
 Per una compiuta analisi delle due diverse interpretazioni cfr. R. ROMEI, Cessione di 
ramo d’azienda e appalto, in Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, 
1999. 
11
 Artt. 2556 e ss. c.c. 
 14
propria forza di resistenza rispetto ad una serie di fattispecie concrete 
non agevolmente riconducibili alla fattispecie astratta. 
Non è detto che i beni dell’universo aziendale siano in proprietà 
del soggetto titolare dell’azienda, sovente essi possono essere noleggiati o 
locati, e ancor più spesso essi non costituiscono oggetto di diritti reali, ma 
semmai di diritti di obbligazione, come nel caso delle prestazioni di 
lavoro, che abbiamo visto essere i servizi. Altresì non è automatico che 
l’imprenditore, sia anche il proprietario dei beni impiegati nell’esercizio 
dell’attività economica, ma anche in tal caso essi gravitano nella sfera 
aziendale in quanto ciò che rileva è che siano coordinati e utilizzati con lo 
scopo di perseguire l’attività produttiva
12
. In quanto entità oggetto di 
proprietà, anche l’azienda può essere trasferita, ovvero venduta, ceduta; 
questa eventualità comporterà, allora, il passaggio al nuovo titolare non 
solo dell’azienda, come sopra descritta, ma anche il passaggio 
dell’impresa, ovvero dell’attività che ha come fine la destinazione al 
mercato. 
 Questo è il problema più grande di tutto l’istituto del 
trasferimento di azienda, perché dalla sua apparente “innocenza” 
discendono conseguenze che sono di un’estrema attualità sociale di cui il 
giuslavorista non può non tener conto. 
 Purtroppo nonostante la delicatezza delle problematiche sottese, 
non esisteva, sino al D.lgs 18/2001, una disposizione legislativa che 
chiarisse cosa dovesse intendersi per trasferimento di azienda, ci si 
doveva riferire alle sentenze della giurisprudenza che volta volta 
interveniva a colmare il vuoto normativo. La Corte di Cassazione, che 
come noto ha ruolo di nomofilachia, riteneva realizzarsi un trasferimento 
di azienda ogni qualvolta, ferma l’organizzazione degli strumenti 
                                                           
12
 Cfr. P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Giuffrè, Milano, 1973, pag. 661 II cpv. 
 15
operativi dell’impresa, ci si trovava di fronte ad un mutamento della 
figura del titolare, prescindendo dalla soluzione giuridica utilizzata a tal 
scopo
13
. Sulla questione la Corte altresì rilevò come non fosse necessario 
che oggetto del trasferimento fosse l’azienda nella sua interezza, o un suo 
ramo o una sua dipendenza, così come organizzata presso l’alienante, 
ritenendo invero sufficiente, per la configurabilità dell’istituto, che con il 
passaggio al nuovo soggetto passasse anche la possibilità per il 
subentrante di utilizzare la medesima posizione del vecchio titolare nelle 
relazioni con i terzi e, nella specie, con la clientela
14
. 
 In caso di trasferimento di una porzione di azienda la 
giurisprudenza della Suprema Corte evidenziò l’esigenza che l’oggetto 
del trasferimento avesse i medesimi caratteri di unitarietà e di autonomia 
di organizzazione che si potevano agevolmente ritrovare nell’azienda 
considerata nel suo insieme
15
. In seguito tanto le analisi dei giudici di 
merito quanto le pronunce della Corte rilevavano come elemento idoneo 
e sufficiente alla configurabilità del passaggio dell’azienda, fosse la 
circostanza che il nuovo titolare subentrasse effettivamente nella 
medesima attività di impresa del dante causa
16
. 
 Le conclusioni della nostra giurisprudenza non erano dissimili da 
quelle a cui giungeva la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 
secondo la quale si realizzava un trasferimento di azienda ogniqualvolta 
ci si trovava di fronte al subingresso di un nuovo imprenditore nella 
                                                           
13
 Cass. n. 1317 del 22.02.1983, in Giustizia Civile, 1984, I, 271; Cass. n. 6790 del 
13.12.1988, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1989, Massime scelte, 15, mass. 
n. 59; Cass. n. 123 del 15.01.1990, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1990, 39; 
Cass. n. 10688 del 26.11.1996, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 1997, II, 572. 
14
 Cfr. Cass. n. 1829 del 17.03.1986, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1986, 
Massime scelte, 69, mass. n. 258. 
15
 Cfr. Cass. n. 8996 del 01.12.1987, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1988, 
Massime scelte, 14, mass. n. 47. 
16
 Cfr. Cass. n. 9025 del 16.10.1996 in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1996, 
760; nello stesso senso: Pretura di Milano 16.09.1998, in Rivista Italiana di Diritto del 
Lavoro, 1999, II, 416; Pretura di Milano 27.07.1998, in Il Diritto del Lavoro, 1998, 1007. 
 16
gestione delle risorse dell’impresa, purché questo avvenisse in costanza 
del fatto che l’entità ceduta conservasse la propria identità, nel senso che 
il nuovo titolare effettivamente e concretamente proseguisse, o 
riprendesse, la gestione dell’impresa, e non azienda, trasferita
17
. 
In caso di trasferimento di azienda oltre agli interessi delle parti 
attive dell’operazione economica, l’alienante e l’acquirente i cui rapporti 
trovano fondamento nell’art. 41 della Costituzione, vengono toccate le 
posizioni e le aspettative dei lavoratori; già la specifica norma del 2112 
c.c. assumeva l’insufficienza dell’art. 2558 c.c., rubricato “successione nei 
contratti”, il quale sancisce la generale successione dell’acquirente nelle 
posizioni contrattuali del vecchio imprenditore, a meno che le parti non 
stabiliscano espressamente il contrario o diversamente
18
, ponendosi 
rispetto a quest’ultimo appunto come norma speciale. Già abbiamo detto 
che la disciplina dell’istituto del trasferimento di azienda, prima delle 
varie riforme che hanno interessato il settore, andava ricercata nel solo 
art. 2112 c.c., infatti nella sua prima formulazione il testo codicistico 
sanciva che : “In caso di trasferimento dell’azienda, se l’alienante non ha dato 
disdetta in tempo utile, il contratto di lavoro continua con l’acquirente, e il 
prestatore di lavoro conserva i diritti derivanti dall’anzianità raggiunta 
anteriormente al trasferimento. 
L’acquirente è obbligato in solido con l’alienante per tutti i crediti che il 
prestatore aveva al tempo del trasferimento in dipendenza del lavoro prestato, 
                                                           
17
 C.fr. Corte di Giustizia del 14.04.1994, causa n. 392/1992, in Rivista Italiana di Diritto 
del Lavoro, 1995, II, 608; Corte di Giustizia del 19.09.1995, causa n. C-48/1994, in 
Notiziario Giuridico del Lavoro, 1996, 459; Corte di Giustizia del 07.03.1996, cause 
riunite nn.C-171/1994 e C-172/1994, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1996, 
459. 
18
 L’art 2558 c.c. stabilisce che “se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda 
subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano 
carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi 
dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la 
responsabilità dell’alienante. Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti 
dell’usufruttuario e dell’affittuario per la durata dell’usufrutto e dell’affitto”. 
 17
compresi quelli che trovano causa nella disdetta data dall’alienante, sempreché 
l’acquirente ne abbia avuto conoscenza all’atto del trasferimento, o i crediti 
risultino dai libri dell’azienda trasferita o dal libretto di lavoro. 
Con l’intervento delle associazioni professionali alle quali appartengono 
l’imprenditore e il prestatore di lavoro, questi può consentire la liberazione 
dell’alienante dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. 
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche in caso di usufrutto o 
di affitto di azienda”. 
Già nella sua originaria stesura il testo della norma mirava a 
rivoluzionare il settore, prendendo le distanze da previgenti disposizioni 
introdotte sulla scorta di regole consuetudinarie largamente diffuse, 
come per esempio nel caso di trasferimento della ditta
19
, dove le 
consuetudini delle Camere di Commercio disponevano, nei confronti 
dell’impiego privato, la continuità del rapporto subordinato, salva 
disdetta dell’alienante. 
Ancor più specifica era la formulazione dell’art. 11 R.D.L. n. 1825 
del 13.11.1924 riguardante l’impiego privato, in quella sede il legislatore 
affermava la continuità, nell’ipotesi di un trasferimento complessivo 
dell’azienda, dei rapporti di lavoro, a meno che non vi fosse una specifica 
disdetta dei titolari degli stessi, avendo come intenzione quella di operare 
un bilanciamento tra gli interessi dell’impresa, alla conservazione della 
                                                           
19
 Come è noto, la ditta rappresenta un elemento distintivo dell’azienda e come tale è 
una sua pertinenza, ovvero costituisce il nome sotto cui l’imprenditore esercita la sua 
impresa; pertanto è agevole comprendere come essa sia elemento fondamentale del 
complesso aziendale assumendo a volte un notevole valore economico intrinseco. 
Proprio per questo il suo titolare può essere interessato a monetizzarla trasferendola ad 
un altro imprenditore; per poter realizzare tale passaggio il titolare deve cedere però 
anche l’azienda, come stabilisce l’art. 2565 c.c.. Cfr. V. ROPPO, Istituzioni di diritto privato, 
Monduzzi, Bologna, 1996, pagg. 777 e ss.; altresì non si può dimenticare che tra i beni 
che costituiscono l’universo aziendale vengono anche inclusi i beni c.d. immateriali, tra i 
quali appunto la ditta. Cfr. C. RUSSO, Il trasferimento dell’impresa, Il Sole 24 ore, Milano, 
2001, pag. 16. Cfr. P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Giuffré, Milano, 1973, pag. 
662, il quale considera implicitamente l’avviamento come entità oggetto di scambio e 
quindi bene in senso codicistico. 
 18
sua interezza, e quello dei lavoratori, alla conservazione del posto di 
lavoro
20
. 
Questa è stata per quasi cinquant’anni l’unica disciplina normativa 
dell’istituto; si dovrà aspettare l’intervento della Comunità Europea, di 
cui l’Italia è tra i paesi fondatori, perché la fattispecie veda arricchirsi le 
regole per il suo venire in essere grazie al recepimento della direttiva 
numero 187 del 14.02.1977 ad opera della c.d. legge comunitaria annuale 
del 29.12.1990 numero 428, la quale all’art. 47, oltre a novellare la 
disposizione codicistica dell’art. 2112, introduce un nuovo sistema. 
 
1.2 La Direttiva 187/77/CE e la L. 428/1990. 
 
1.2.1 Procedimento di infrazione al Trattato Istitutivo. 
La summenzionata Direttiva del Consiglio della Comunità aveva 
come preambolo l’adozione delle “disposizioni necessarie per proteggere 
i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per 
assicurare il mantenimento dei loro diritti”. Come è noto le direttive 
costituiscono il classico esempio di norme teleologiche, di scopo ovvero 
c.d. finali, secondo cui gli Stati membri, destinatari del precetto 
normativo, sono vincolati in quanto al risultato che le Direttive si 
prefiggono, restando liberi circa la scelta delle forme e dei mezzi che, a 
discrezione del legislatore nazionale, paiono più conformi a realizzare 
                                                           
20
 Il testo dell’art. 11 sanciva che: “Nel caso di cessione o trasformazione in qualsiasi 
modo di una ditta o quando la ditta precedente non abbia dato il preavviso nei termini 
enunciati dall’art. 10, adempiendo anche ove ne sia il caso, gli obblighi di cui all’art. 16, 
la nuova ditta, ove non intenda assumere l’impiegato con ogni diritto e onere a lui 
competenti per il servizio prestato, sarà tenuta all’osservanza degli obblighi gravanti per 
effetto del presente Decreto sulla precedente ditta, come se avvenisse il licenziamento”. 
 19
l’interesse comunitario
21
, il che avviene attraverso un procedimento di 
“nazionalizzazione” della Direttiva, detto di recepimento
22
. 
La stessa Direttiva prevedeva, all’art. 8, che gli Stati membri 
fossero tenuti a conformarsi ad essa entro due anni dalla sua notifica; il 
nostro Paese ricevette la notifica il 16 Febbraio 1977, pertanto il legislatore 
avrebbe dovuto conformarsi e provvedere entro la data del 16 Febbraio 
1979. Invece, seguendo un comportamento all’epoca costante, non 
provvide in merito e incorse pertanto in una censura formale del suo 
modus operandi, o meglio inoperandi, che vide l’instaurarsi di una 
procedura di infrazione ad opera della Commissione davanti alla Corte 
di Giustizia delle Comunità Europee
23
, la quale con sentenza del 10 
Luglio 1986 (peraltro nemmeno lei tanto celere) dichiarò l’Italia 
inadempiente circa gli obblighi di conformazione. 
Fu solamente con l’emanazione della legge del 29 Dicembre 1990 
numero 428 che il nostro legislatore sanò il debito che l’ordinamento 
italiano aveva con la Comunità sin dal 1977 e, sull’onda dell’entusiasmo 
dovuta alla catarsi normativa, il Parlamento colse l’occasione di mettere 
mano alla disciplina, sia per quanto riguardava la parte interessata dalla 
Direttiva, sia per quanto da essa non era stato regolato. 
 
                                                           
21
 Per la disciplina delle norme c.d. self executing, vedi per tutti B. CONFORTI, Diritto 
internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 1999, pagg. 298 e ss.; SERGIO MARIA 
CARBONE, Lo Spazio Giudiziario Europeo, Giappichelli, Torino, 1997. 
22
 Cfr. art. 143, III comma, del Trattato CECA; art. 189, III comma, del Trattato CEE; art. 
161, III comma, del Trattato Euratom; 
23
 Cfr. art. 169 del Trattato CEE.