5
sia con tecniche inferenziali che utilizzano cross-section e serie storiche di prezzi, sia con 
approcci “diretti” a partire dall’informazione contenuta nei tassi swap (con brevi cenni ai 
problemi di “calibratura” del modello). Nel contesto di un mercato guidato dai tassi di 
interesse, sono state date alcune definizioni di VaR per contratti interest rate sensitive; oltre 
a definizioni standard ma metodologicamente opinabili (come quella proposta dal 
cosiddetto schema RiskMetrics™, sinteticamente esposto in appendice) viene proposta e 
discussa una definizione alternativa basata sulla logica del “percentile sottostante”, in linea 
con la struttura formale di riferimento. 
 
    La terza parte della tesi è dedicata ad una applicazione dei metodi, alla verifica empirica 
delle definizioni e al commento critico dei risultati. Si è fatto riferimento alla situazione del 
mercato italiano del debito pubblico e sono state identificate giornate particolarmente 
significative per l’andamento dei tassi di interesse. In quelle giornate sono state calcolate 
grandezze caratteristiche (valore di modello, duration, “lettere greche”, VaR) di un 
portafoglio titoli (composto da BTP e CCT) tenuto “a composizione costante”. In questo 
senso l’applicazione è stata utilizzata per commentare i risultati in una logica di stress 
testing, come suggerito dall’impostazione normativa della Banca d’Italia, coerentemente 
con i referenti metodologici forniti in sede di vigilanza internazionale.  
 
    Le numerosissime (e dettagliate) note a margine sono un vero è proprio “testo parallelo” 
alla trattazione; contengono molteplici spunti di approfondimento, brevi rassegne su 
argomenti collaterali, commenti critici, richiami e chiose su nozioni teoriche, rinvii a 
riferimenti bibliografici e a disposizioni normative . Si è inteso così dare un duplice 
percorso di lettura: la trattazione può essere affrontata, in modo spedito e scorrevole, 
saltando le note, da intendersi come puntualizzazioni sui temi svolti; si può invece 
procedere ad una lettura più organica e completa, considerandole come una parte 
essenziale dell’esposizione; in questa duplice prospettiva, si è cercato di rendere quanto più 
indipendenti i vari capitoli agevolando tuttavia gli agganci con rinvii, di mantenere un 
costante collegamento tra questioni teoriche ed espressive esemplificazioni. 
  
  L’ampia selezione bibliografica (interamente citata) segnala, insieme a qualche 
riferimento storico occasionale, l’ascendenza culturale più diretta dell’impostazione 
seguita: i nuovi riferimenti teorici per il governo dell’impresa alla luce del riesame critico 
delle principali categorie gestionali (banche e assicurazioni), i Documenti ufficiali più 
 6
significativi delle Autorità di Vigilanza (indispensabili per l’inquadramento della materia 
in chiave normativa-regolamentare), il recupero di alcuni discorsi di metodo (dai richiami 
sulla probabilità agli strumenti di calcolo stocastico), i fondamenti e gli sviluppi della new 
theory term structure, l’approccio pionieristico della J.P. Morgan con gli aggiornamenti 
man mano resisi disponibili, le verifiche empiriche sulla misurazione del rischio nella 
logica del VaR svolte in ambito accademico ed operativo.       
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 7
1. Value at Risk: genesi e sviluppi dell’idea 
    Il linguaggio comune intende per rischio la possibilità che si verifichino fatti 
economicamente sfavorevoli, o dannosi, in relazione al manifestarsi di eventi usualmente 
definiti “casuali”. Nell’accezione probabilistica, invece, il rischio descrive una situazione 
di più generale scostamento tra previsione ed osservazione nell’ambito di un piano di 
esperimenti. Più precisamente, il rischio è inteso come possibilità di non raggiungere un 
prefissato obiettivo, e pertanto sia il verificarsi di risultati economicamente migliori che 
peggiori rispetto all’obiettivo stabilito sono interpretati come manifestazioni di eventi 
rischiosi (il termine sintetizza, quindi, una situazione economica aleatoria). Partendo da 
questo presupposto, il rischio è sempre misurato in termini di incertezza sull’obiettivo, cioè 
esprimendo una valutazione di probabilità per i diversi “stati del mondo”
1
; di conseguenza, 
il controllo del rischio fa riferimento a tutte quelle tecniche che permettono di ridurre (al 
limite annullare) le possibili deviazioni dai “valori attesi”, nella consapevolezza che non vi 
è nessuna garanzia che il risultato di una strategia di controllo sia economicamente 
migliore di quello che si avrebbe in sua assenza. 
    In ambito finanziario, coerentemente con la definizione probabilistica, vi è accordo nel 
considerare il rischio
2
 alla stregua delle oscillazioni di valore che un portafoglio può 
subire, su un assegnato intervallo temporale, a causa delle variazioni aleatorie dei fattori 
che determinano lo stato del mercato, e conseguentemente le nozioni di misurazione e 
                                                           
1
 Reinterpretando un’immagine di de Finetti [1970, 36, 87-88], si può dire che il rischio fornisce l’ambito 
delle possibilità differenti dall’obiettivo fissato (e il “possibile” non ha gradazioni), mentre la misura del 
rischio è una nozione aggiuntiva che si applica nell’ambito delle possibilità, facendovi apparire quelle 
gradazioni (“più o meno rischioso”).  
2
 Sebbene in una materia come quella trattata la classificazione di un’alea in una o in un’altra tipologia ha il 
valore di una convenzione piuttosto che una valenza definitoria assoluta, negli ambienti operativi è invalso 
l’uso di classificare il rischio per fattori causali: rischio di credito e rischio di mercato (a sua volta 
distinguibile in rischio azionario, rischio di cambio, rischio di tasso, cfr. ad es. [J.P. Morgan 1996, 17]). Il 
distinguo nasce dalla diversa natura dell’informazione considerata rilevante per la misurazione, dal diverso 
trattamento a cui questa viene sottoposta, dalle differenti prassi di gestione [Matten 1996, 77-78]. Rischio di 
credito e rischio di mercato, pur delineando compiutamente il profilo di rischiosità complessivo di un 
intermediario finanziario, non esauriscono certamente il quadro generale: sono rilevati anche i cosiddetti 
rischi operativi ed i rischi non-standard, cfr. [Beder 1999, 3-5], [Marsella 1997, 244], a cui peraltro iniziano 
a fare cenno i Documenti degli Organi di Controllo [IOSCO 1998, 10], [Comitato di Basilea 1999b, 15, 50-
51]. È opportuno rimarcare comunque che rischio creditizio, rischio di mercato, rischi operativi e a rischi 
non-standard, ancorché astraibili in categorie logiche separate, sono, nei fatti, aspetti diversi di un unicum: il 
riconoscimento dell’importanza del controllo del rischio è il riconoscimento del ruolo primario 
dell’incertezza complessiva nell’azione sui mercati. Operativamente, il controllo strategico dei rischi appare 
sempre più un problema di “governo dell’impresa”, piuttosto che di tecniche di misurazione e di gestione 
(che in questo senso vanno viste e proposte “solidali” al controllo “globale”). Occorre, pertanto, soprattutto 
nell’ambito dei processi aziendali finalizzati ai cosiddetti controlli interni (cfr., infra, nota 27), far sempre 
riferimento ad una definizione onnicomprensiva che prescinda da qualsivoglia rigida tassonomia, poiché 
questa potrebbe risultare pericolosamente riduttiva in un ambiente dinamico che modifica rapidamente le 
variabili di contesto. Interessanti considerazioni, anche di carattere storico, sull’uso del calcolo delle 
probabilità nella prospettiva della misurazione e gestione dei rischi – e in particolare dell’interest rate risk 
nelle istituzioni finanziarie –  si trovano in [De Felice, Moriconi 1991a, 9-24].     
 8
controllo si traducono in quantificazione e gestione delle variazioni di valore. Espresso 
alternativamente, il rischio è riconducibile alle conseguenze, favorevoli o sfavorevoli, 
derivanti dalla stipula di contratti finanziari, la sua misurazione richiede la specificazione 
di tali conseguenze, il controllo si sostanzia nella messa a punto di strategie di riduzione 
dell’incertezza sul valore futuro dei contratti.  
    In questa prospettiva la prepotente entrata in scena del paradigma del Value at Risk, pur 
nella necessaria semplicità dell’idea (pur con semplificazioni che se non controllate 
possono diventare pericolose
3
) costituisce un prezioso arricchimento logico ed informativo, 
che viene a soddisfare esigenze di natura strettamente tecnica, di tipo manageriale e di 
carattere istituzionale [Wiener 1997, 3-5].  Per inquadrare l’idea nel suo aspetto formale, si 
consideri un portafoglio finanziario con valore al tempo t espresso da 
t
W  ed un holding 
period di ampiezza .t∆  La variazione assoluta del valore sull’intervallo ],[ ttt ∆+  sarà 
indicata con 
tt
L
∆+
 e, uniformandosi alla terminologia d’uso, tale numero (aleatorio in t) 
sarà chiamato “perdita”, con la convenzione che una “perdita” positiva è una perdita vera e 
propria, mentre una “perdita” negativa rappresenta un guadagno (essendo la “perdita” 
misurata rispetto al valore corrente). È chiaro che, pur considerando l’intera gamma delle 
possibili variazioni di prezzo, se l’obiettivo è quello di misurare le perdite potenziali, per 
ogni posizione è di fatto rilevante una sola coda della distribuzione di probabilità. Quindi, 
affinché una “perdita” positiva mantenga il significato di perdita in senso stretto, il numero 
aleatorio 
tt
L
∆+
 dovrà essere così definito
4
:  
 
[1.1a] 
−
−
=
∆+
∆+
∆+
)(
)(
shortrialzoalesposizonidicasonelWW
longribassoaliesposiziondicasonelWW
L
ttt
ttt
tt
 
 
    In analogia con le modalità di derivazione delle misure di rischio “tradizionali”
5
, anche 
in questo caso la variazione di valore del portafoglio può essere attribuita ad una 
                                                           
3
 Cfr., ad es., [Brown 1997], [Hoppe 1998], [Beder 1995, in particolare 23], [De Felice et  al. 1997, f.28]. 
4
 Le posizioni esposte al rischio di rialzi di prezzo sono gli  “scoperti tecnici”, i titoli da consegnare per 
operazioni da regolare (a pronti o a termine), operazioni “fuori bilancio” che comportano l’obbligo o il diritto 
di acquistare titoli, indici o tassi di interesse prefissati. Le posizioni esposte ai ribassi sono i titoli detenuti in 
portafoglio, i titoli da ricevere per le operazioni da regolare (a pronti o a temine) ed operazioni fuori bilancio 
che comportano  l’obbligo o il diritto di vendere titoli, indici e tassi prefissati. Le poste monetarie saranno 
caratterizzate dal “valore di mercato” vigente alla data di valutazione, gli importi saranno quindi considerati 
positivi (evidentemente, nella pratica dello scambio, si usa la convenzione di contabilizzare positive le 
entrate, negative le uscite). 
5
 Cfr. [De Felice, Moriconi 1991a, 215-216]. 
 9
componente “anticipata”, cioè prevedibile nell’istante di valutazione t, ed una componente 
“non-anticipata”, indotta dalla dinamica aleatoria del mercato. Se si definisce 
[]
ttt
WEW
∆+
=  come l’aspettativa in t del valore del portafoglio nell’istante ,tt ∆+  è chiaro 
che questa quantità, proprio perché “attesa”, non apporta nessun contributo alla 
quantificazione dell’incertezza; quindi, il termine WWL
t
−=  può essere correttamente 
visto come la variazione di valore imputabile al semplice trascorre del tempo, il cosiddetto 
time decay del portafoglio; la [1.1a] può pertanto riformularsi tenendo separate le due 
componenti:   
 
[1.1b] 
−−
+−−
=
∆+
∆+
∆+
)(
)()(
shortrialzoaliesposiziondicasonelLWW
longribassoaliesposiziondicasonelLWW
L
tt
tt
tt
 
 
ed ovviamente solo la parte non prevedibile misurerà propriamente il rischio. 
    Ciò premesso, si definisce Value at Risk (VaR) la massima perdita 
*
L  che il portafoglio 
può subire in un periodo di ampiezza t∆  (holding period)
6
 con una probabilità 
*
p  fissata 
(usualmente denominata “livello di confidenza”
7
). In termini formali, si afferma che 
*
L  (il 
                                                           
6
 In linea di principio, una volta fissata l’ampiezza t∆  dell’holding period, ci si dovrebbe disinteressare delle 
oscillazioni di prezzo che avvengono al suo interno, poiché ciò che rileva è – per definizione – il valore del 
portafoglio nell’istante  .tt ∆+  Nel corso del periodo ],,[ ttt ∆+  a seguito di particolari movimenti avversi 
di mercato, il portafoglio potrebbe sperimentare perdite superiori al VaR, che dovrebbero però essere recepite 
come momentanee ed ininfluenti, perché potenzialmente riassorbibili sull’orizzonte temporale residuo. In 
questo senso, “the portfolio can be viewed as representing a stock of risk at a given point in the time” 
[Cassidy, Gizycki 1997, 16]. È chiaro, tuttavia, che per holding period estesi sorge la necessità di realizzare 
sistemi di monitoraggio delle posizioni in grado di tenere sotto controllo eventuali trend negativi, perché 
nella pratica “l’oggetto del controllo non è un portafoglio statico, ma un’organizzazione in grado di 
modificare la propria esposizione al rischio nel corso del tempo” [Saita 1997a, 450, 483]. Un sistema di 
controllo coerente con l’impostazione probabilistica è quello che prevede di suddividere l’ampiezza 
dell’holding period in periodi unitari (generalmente giornalieri) e di tenere sotto osservazione l’esposizione 
al rischio monitorando il VaR su tali intervalli. Peraltro, il problema del monitoraggio “continuo” resta 
significativo anche per holding period minimi, poiché per particolari portafogli potrebbe rilevare il c.d. 
rischio infragiornaliero.  
7
 Dal punto di vista “frequentista” il livello di confidenza 
*
p  discrimina il numero di “perdite” superiori ad 
*
L  da quelle inferiori, in un ipotetico processo di campionamento da :
tt
L
∆+
 se si effettua un numero 
indefinito di ripetizioni dell’esperimento (osservazioni delle realizzazioni di ),
tt
L
∆+
 ci si aspetta una 
“perdita” minore del VaR nel 
*
p  dei casi e superiore nel .1
*
p− Nella visione “soggettivista”, invece, il 
livello di confidenza è il grado di plausibilità attribuito al verificarsi dell’evento { }
*
LL
tt
≤
∆+
 e che non 
potendo essere valutato ad intuito o con semplice riflessione richiede il ricorso ad opportuni formalismi 
matematici. Usualmente per 
*
p  viene fissato un valore sensibilmente elevato (variabile tra 0.95 e 0.99), 
proprio per dare all’informazione fornita dal VaR un’interpretazione di “sistematicità” e attribuire al risultato 
complementare una caratteristica di “accidentalità” o di fatto poco probabile (adverse market move). Sui 
criteri di scelta dell’intervallo di confidenza si veda [Sironi 1996, 67-74].   
 10
VaR) è soluzione dell’equazione {},Pr
**
pILL
ttt
=≤
∆+
 dove {}⋅⋅Pr  è la misura di 
probabilità sul valore futuro del portafoglio – condizionata al set informativo corrente 
t
I   – 
ed 
tt
L
∆+
 il numero aleatorio definito dalla [1.1b], eventualmente depurato della 
componente “anticipata”
8
.     
    É chiaro che la definizione formale di Value at Risk non è, né può essere 
ragionevolmente considerata, come un concreto algoritmo di calcolo, sia perché l’inferenza 
diretta sul numero aleatorio 
tt
L
∆+
 si presenta spesso artificiosa [Fallon 1996, 2], sia perché 
si giungerebbe alla situazione (estremamente innaturale) di ritenere che la nozione 
elementare di VaR presupponga la conoscenza di una cosa ben più complessa e delicata 
quale è la precisa distribuzione di probabilità del valore futuro del portafoglio, quando in 
realtà ciò che rileva è solo un “aspetto” della distribuzione, e precisamente quello 
posizionale. È manifesto, comunque, che l’adozione di misure VaR richiede la scelta di una 
struttura probabilistica per l’operazione finanziaria che si intende valutare: servirà fissare 
probabilità di eventi, distribuzioni di probabilità di variabili aleatorie, accogliere 
convenienti ipotesi di correlazione o indipendenza (lineare o stocastica).  
    Per dare effettivamente un senso alla nozione di Value at Risk occorre una definizione 
operativa, cioè basata su criteri che permettano di misurarla e di ricondurla ad effettive 
esperienze almeno concettualmente possibili. Il primo passo in questa direzione è stato 
compiuto dalla banca d’affari J.P. Morgan, la quale, attraverso la pubblicazione di un 
manuale più volte aggiornato nel corso del tempo, ha diffuso una metodologia 
(RiskMetrics™), corredata di software e data base, che a tutt’oggi rappresenta 
                                                           
8
 Il Value at Risk è una misura dichiaratamente probabilistica del downside risk, poiché dà una limitazione 
inferiore (downside) al livello di perdita (risk) rinvenibile su un certo orizzonte temporale. Il VaR però non 
informa né sul comportamento del valore del portafoglio in situazioni di mercato estreme (essendo sempre 
riferito a ciò che le Autorità di Vigilanza chiamano “normale corso degli affari” [Banca d’Italia 1996]), né su 
ciò che potrebbe accadere qualora, durante il “normale corso degli affari”, si sforasse la massima perdita 
potenziale stimata. Il concetto è ben illustrato da Jorion [1997, 1]: “the purpose of VaR is not describe the 
worst possible outcames. It is simply to provide estimate of the range of possible gains and losses”; ribadito 
da Brown [1997, 2], “VaR does not measure the worst-case loss, but the loss you have some specified 
probability of exceeding”; ironicamente sottolineato da Wiener [1997, 4], “the only genuine answer to the 
question ‘What is maximal loss we can suffer over some time horizon?’ is unfortunately, ‘We can lose 
everything!’ ”. A voler esprimere l’idea ricorrendo al suggestivo frasario di de Finetti [1970, 150], si può dire 
che “se lo schema cambia, se avviene un cataclisma, è certo che cadono le conclusioni stabilite nell’ipotesi 
che lo schema non cambi, senza prevedere alcuna possibilità di cataclismi”. Il crollo dei mercati azionari nel 
1987, dei mercati valutari nel 1992, degli obbligazionari nel 1994 – solo per citare alcuni esempi – 
rappresentano situazioni che sfuggono a qualsiasi logica di misurazione del tipo Value at Risk. L’analisi di 
portafogli finanziari in condizioni di “forti tensioni” sui mercati è di spettanza di un’altra metodologia, nota 
come stress analysis [cfr., ad es., Berkowitz 1999], da più parti segnalata come integrazione necessaria alla 
modellistica VaR, cfr. [Comitato di Basilea 1996a, 46-47], [Mezrich 1998], [Institute of International Finance 
1999, 22]. L’analisi delle perdite che oltrepassano il VaR in condizioni di “normalità” dei mercati si basa 
invece sul concetto di Conditional Value at Risk (C-VaR), che al momento però ha ricevuto impulsi soltanto 
in ambiente accademico. 
 11
un’importante punto riferimento per il calcolo del Value at Risk di contratti – e portafogli – 
finanziari. L’impostazione della J.P. Morgan ha avuto infatti l’indiscusso merito di 
prospettare in modo unitario un complesso di argomenti considerati in genere 
separatamente, stimolando così il dibattito sugli approcci probabilistici alla misurazione 
del rischio. A livello interpretativo e concettuale ne sono derivate due posizioni, non 
necessariamente contrapposte
9
, per la realizzazione di una metodologia VaR
10
: 
 
• modelli di tipo parametrico (Analitic Methods); 
• modelli di simulazione storica, deterministica (Quasi Monte Carlo) e stocastica (Monte 
Carlo).  
 
    Attualmente, quindi, lo spettro di tecniche di misurazione del rischio genericamente 
chiamato con il termine Value at Risk comprende una varietà molto ampia di metodologie, 
alcune delle quali radicalmente diverse dal metodo RiskMetrics™. É significativo però 
come i modelli di tipo parametrico, pur essendo notevolmente variegati e spesso basati su 
specificazioni formali molto differenti, sono quasi sempre ispirati al concetto di volatilità 
come misura di rischio. Questa immediata associazione, frutto proprio dell’originaria 
impostazione della J.P. Morgan, porta con sé tutti i vantaggi – ed i pericoli – derivanti da 
una macchinale trasposizione dei significati del classico indice delle teorie di portafoglio e 
                                                           
9
 Cfr. [Engel, Gizycki 1999, 11-12], [Mina, Ulmer 1999, 1], [J.P. Morgan 1996, 156-159]. 
10
 I risultati forniti da un modello VaR dipendono fortemente non solo dal tipo di approccio utilizzato ma 
anche dalle ipotesi adottate, dalle tecniche di stima dei parametri, dall’orizzonte temporale di riferimento, dal 
livello di confidenza e dalle modalità di realizzazione del mapping, cfr. [Beder 1995, diffusamente], 
[Cassidy, Gizycki 1997, 13]. La costruzione del modello richiede pertanto numerose precauzioni ed una 
necessaria cautela per la definizione degli aspetti algoritmici, in rapporto alla corretta interpretazione dei 
risultati ottenuti. Peraltro, l’approccio del VaR non può essere considerato in assoluto migliore o peggiore 
degli altri, anche se c’è una forte tendenza a radicalizzare questo punto di vista da parte degli operatori. Come 
osservato da Wiener [1997, 6], “VaR itself is not the true way to measure risk … there are many other risk 
measurement … the major advantage of VaR is that it has became a widely accepted standard!”. D’altra 
parte, nel tentativo di definire un metodo che risulti migliore tanto a rapidità di calcoli quanto a precisione 
delle stime e a facilità di interpretazione dei risultati, ci si scontra con non pochi problemi di ordine 
metodologico nella realizzazione di una esauriente ed esaustiva verifica empirica. La difficoltà ad accertare 
quanto sia implicito nei dati di partenza, ovvero a valutare quanto il modello possa essere considerato ben 
calibrato sul mercato, dà origine al cosiddetto model risk, la cui essenza può cogliersi nelle parole di Drudi, 
Generale e Majnoni [1997, 9]: “the measurement methods based on the notion of VaR do not eliminate the 
uncertainties about the precision of different VaR models”. Una misura VaR quindi non implica oggettività, o 
autorità, benché in molti abbiano preso la tendenza a vedervi qualcosa di “magico”: essa non è altro che una 
diversa forma di linguaggio che permette a giudizi soggettivi di essere tradotti in una forma più precisa e 
quindi suscettibile di utilizzazione; né appare giustificato il desiderio di spingere la precisione della misura 
oltre un limite ragionevole, anche perché “ogni definizione operativa, a volerla prendere sul serio come 
effettivo metodo di misura, comporta il guaio di mescolare alla discussione dei principî tutti i dubbi derivanti 
dalle inevitabili imperfezioni pratiche” [de Finetti 1970, 111].    L’immagine di Jorion [1997, 2] in proposito 
è illuminate: “VaR is like wobbly speedometer … it gives a rough indication of speed … derivatives disaster 
have occurred because drivers or passengers did not worry at all about their speed”. 
 12
dell’option pricing tradizionali ai problemi di misurazione del Value at Risk
11
. Che questi 
approcci, a volte, possano risultare estremamente efficaci, è palesemente vero. Ma al 
tempo stesso bisogna prestare attenzione a non restare prigionieri di questa artificiale 
associazione quando, anziché giovare, irretisce in una visione insufficiente e distorta, come 
spesso avviene per il mercato dei tassi di interesse, dove la modellistica comunemente 
utilizzata appare troppo svincolata dalla logica e dalla complessità degli strumenti 
negoziati. Tali questioni saranno riprese e sviluppate nella seconda parte sia con 
riferimento ai tradizionali modelli varianze/covarianze, sia in riferimento ai più innovativi 
modelli stocastici. Gli approcci descritti non esauriranno certamente tutti i metodi possibili, 
né ciò sarebbe peraltro interessante, data l’abbondanza della letteratura in tale campo; essi 
comunque permetteranno di avere una visione generale del tipo di algoritmi a cui si ricorre 
nelle applicazioni.  
    Per il momento, però, sembra opportuno concentrarsi sui risvolti gestionali e normativi 
della modellistica, istituendo fin da subito il collegamento tra il significato teorico del VaR 
e le sue implicazioni pratiche: ciò consentirà di evidenziare i motivi profondi ed essenziali 
che hanno costituito lo scopo per cui questo concetto è stato introdotto, e che spiegano la 
ragione intima della sua utilità. Dal punto di vista critico, la finalità del capitolo è quello di 
penetrare il senso e misurare i confini della modellistica: non sempre, infatti, allo sviluppo 
dei contributi sul piano teorico ha fatto riscontro la chiara comprensione da parte degli 
operatori dei presupposti di tali modelli e del perimetro entro cui limitare la loro 
applicazione. Si riterrà pertanto di aver realizzato gli intenti qualora da questa prima parte 
dell’esposizione emergano le logiche e le potenzialità di utilizzo del VaR, i possibili ambiti 
di sviluppo, le precauzioni da usarsi nelle modalità di impiego, i pericoli derivanti da un 
uso acritico.     
 
 
 
 
                                                           
11
 “The principal reason for preferring to work with standard deviation (volatility) is the strong evidence that 
the volatility of financial returns is predictable. Therefore, if volatility is predictable, it makes sense to make 
forecasts of it to predict future values return distribution” [J.P. Morgan 1996, 7]. Ora, se è vero che 
“volatility is a natural measure of market risk” [Duffie, Pan 1997, 36], per cui sembrerebbe ovvio utilizzarla 
per l’implementazione di un modello VaR, è altrettanto vero che “VaR calculation can be performed without 
using standard deviation or correlation forecasts. These are simply one set of inputs that can be used to 
calculate VaR, and RiskMetrics provide for that purpose” [J.P. Morgan 1996, 7]. Ma è chiaro che “the use of 
measures such as standard deviation depends upon assumptions about the nature of the data being 
measured. If the assumptions are met, use of the measures may be unproblematic. If they are not met, there 
may be problems interpreting and using the numbers” [Hoppe 1998, 46]. 
 13
2. La modellistica VaR come strumento di supporto ai processi decisionali 
“One as to be careful in interpreting this sort of analysis. A 
purely statistical approach does not say anything, for example, 
about changes in the business enviroment or in the bank’s 
strategy, which could may statistically unlikely outcames more 
possibile, or expected outcomes riskier than they might seem at 
first sight. This is why it is emphasised that this is a decision 
support tool, with the emphasis on the word ‘support’: it is only 
one piece of information, albeit a very useful one, in making the 
planning decision, and is certainly superior to comparing next 
year’s budget with the actual performance of the last year or 
two”   
     Matten [1996, 105-
106] 
 
“The dependece on technology and skilled professional is greater 
than ever before. Although this dependence has produced 
invaluable advances in financial engineering and risk 
management, some firm have been lulled into false sense of 
security. Often, firms forget the degree to which the output of the 
model depends upon the modeler’s perspective and assumption. 
A firm’s senior management and directors or trustees are 
shocked to learn that their firm’s rish report can change 
dramatically under alternate assumption” 
   
                                                                                                                        Beder [1995, 23] 
“Risk measurement and management continues to be as much a 
craft as it is a science ... no amount of sophisticated analitycs 
will replace experience and professional judgment in a 
managing risk” 
     
  J.P. Morgan [1996, 
1] 
 
 
    L’introduzione dei modelli di misurazione dei rischi di mercato basati sulla logica del 
Value at Risk
12
 ha rappresentato una delle più rilevanti svolte nella gestione delle banche e 
nella definizione degli schemi di vigilanza sul sistema finanziario. Nel tentativo di 
implementare praticamente tali modelli, come strumenti a supporto ai processi decisionali, 
ci si è scontrati con non poche questioni di ordine sia teorico che pratico. 
    Una prima classe di problemi ha fatto riferimento alla determinazione dei modelli da 
adottarsi ai fini della quantificazione dei rischi gravanti su un portafoglio finanziario. 
Risolvere la questione del VaR nei suoi aspetti analitici costituisce indubbiamente una delle 
                                                           
12
 La massima perdita potenziale associata ad una determinata posizione è usualmente denominata Value at 
Risk, a voler sottolineare che questa esprime la perdita di valore (valore a rischio, per l’appunto) che il 
portafoglio può subire, ad un dato livello di probabilità, in un certo intervallo di tempo. Quando la logica del 
VaR è ambientata in contesti operativi il significato economico di questa misura e le finalità con cui si presta 
ad essere utilizzata suggeriscono di rinominare il metodo come Capital at Risk (CaR). Non che esista, o sia 
opportuno istituire, una distinzione o separazione tra i due termini: si vuole solo alludere alla differente 
prospettiva con cui un medesimo campo (il rischio) può essere indagato, ponendo l’attenzione sui problemi 
di calcolo (VaR)  oppure sull’aspetto organizzativo (CaR), senza peraltro che ciò sottenda alcuna necessità di 
mutamento nelle metodologie di misurazione. 
 14
necessità primarie nel tentativo di rendere funzionante un sistema di controllo e gestione 
dei rischi di mercato, e non stupisce pertanto che tali aspetti abbiano catalizzato 
l’attenzione sia di chi ricopre ruoli operativi che degli accademici. Ma l’aspetto 
computazionale non rappresenta l’unico problema – e forse, almeno in alcuni casi, 
nemmeno il principale – che deve essere superato qualora si tenti di tradurre in pratica la 
logica dell’approccio VaR: una volta trovata la soluzione accettabile sotto il profilo 
metodologico sorge l’esigenza di coniugare i referenti teorici disponibili con le 
applicazioni, che hanno spesso evidenziato problematiche nuove, per le quali l’ausilio 
fornito dalla letteratura esistente è risultato in qualche modo parziale. Del resto, senza 
un’adeguata definizione delle modalità di svolgimento del processo decisionale anche le 
metodologie più raffinate non servono, di per sé, a rendere un metodo più utile ed efficace 
di un altro, perché in un contesto operativo non sono tanto le tipologie di misure del rischio 
prescelte ad essere rilevanti, quanto le decisioni che tali misure possono spingere ad 
adottare o a rifiutare. Pertanto, non è più rilevante l’esplicitazione (in maniera dettagliata e 
per ogni rischio individuato) dei singoli criteri di calcolo e delle sottostanti basi teoriche, 
ma piuttosto la definizione di regole che precisino “come” calare un mero dato numerico 
nel processo dinamico e continuativo caratterizzante la gestione bancaria (modello 
organizzativo), quali competenze dovrà avere “chi” verrà assegnato allo svolgimento delle 
attività (modello delle risorse umane) e, infine, con “quale supporto” saranno svolte 
(modello applicativo/tecnologico)
13
.  
    Se si tenta di individuare le dimensioni chiave che possono definire le modalità di 
applicazione della modellistica VaR, e quindi, al tempo stesso, i possibili percorsi di 
                                                           
13
 La questione è stata posta con chiarezza da De Felice e Moriconi: “L’intervento del regolamentatore sui 
temi del controllo del rischio sta spostando l’attenzione e l’impegno della teoria e della tecnologia dalla 
galassia dei micromodelli hi-tech e hi-math (con alto contenuto tecnologico e matematico, in molti casi vere 
e proprie black-box, per la valutazione di prodotti finanziari ad alta complessità) alla definizione di un 
megamodello – o meglio, di un metamodello – per il risk management ed il controllo del rischio globale. 
Nella fase di massima diffusione di modelli hi-math sono stati introdotti modelli di pricing, corredati delle 
adeguate misure di rischio, spingendo la metodologia ad un alto livello di complessità matematica. Nella fase 
attuale sembra piuttosto prevalere l’esigenza di individuare un quadro metodologico che sia sufficientemente 
semplice, per consentire la visibilità e la controllabilità dei processi di formazione del rischio e 
sufficientemente flessibile, per consentire di accogliere al suo interno in modo non contraddittorio i vari 
micromodelli che guidano le attività di trading. Questa tendenza (combinata con l’esigenza delle adeguate 
semplificazioni e della sistematizzazione) sembra garantire la possibilità di progettare linee formative che 
non abbiano necessariamente in primo piano il conseguimento di competenze matematiche altamente 
specialistiche […]. Le strutture operative cominciano a richiedere figure professionali trasversali, cioè 
‘contaminate’. Tutta la problematica del risk management è un volano di domanda di alte professionalità 
contaminate. Il processo di controllo del rischio pone problemi che richiedono alte competenze in più ambiti, 
tradizionalmente specifici di culture diverse.” Cfr. [M. De Felice, F. Moriconi, Fare e Formare in Finanza, 
in “Banche Imprese e Società, n. 3, 1997, 457, 458]. 
 15
sviluppo di un sistema di risk management, due, fra tutte, rivestono un’importanza 
decisiva
14
: 
 
• l’ambito di applicazione; 
• le finalità di utilizzo. 
 
    L’ambito di applicazione riguarda la scelta, all’interno della struttura di intermediazione, 
delle aree d’affari su cui rilevare l’entità della massima perdita potenziale, per stabilire il 
numero ed il tipo di centri di profitto oggetto di controllo e, conseguentemente, l’ordine di 
problemi che ci si troverà ad affrontare. In una prima fase questa scelta viene 
necessariamente a cadere all’interno del portafoglio di negoziazione, considerando quindi 
la sola esposizione ai rischi di mercato derivanti dall’attività di trading proprietario; un 
livello di sviluppo successivo è l’estensione del VaR anche al portafoglio bancario (credit 
risk management); il terzo stadio, infine, è rappresentato dall’applicazione di tale 
metodologia al complesso della combinazione attivo/passivo della banca in quanto tale 
(cioè a tutti i possibili portafogli che la compongono). É chiaro, d’altro canto, come la 
metodologia VaR tenda ad estendersi naturalmente anche al di fuori dell’area dei rischi di 
mercato, che pure ne rappresenta il primo ed il più naturale ambito di applicazione. 
Pertanto essa potrà essere via via adottata anche nell’ambito dei rischi di credito
15
, dei 
rischi legati all’attività di finanza straordinaria, di quelli derivanti da servizi offerti alla 
clientela
16
 e così via. È altrettanto evidente come la tipologia di problemi da affrontare, e le 
conseguenti soluzioni proponibili, mutino man mano che ci si muove dalla sola attività di 
negoziazione nel breve termine al complesso delle posizioni che determinano l’insorgere di 
un rischio (qualunque esso sia). 
                                                           
14
 Cfr. [Saita 1997a, 452-455]. 
15
 Negli ambienti operativi più evoluti sta maturando l’esigenza di costruire modelli che forniscano per il 
rischio di credito risultati simili a quelli desumibili dal Value at Risk per i rischi finanziari. Sotto questo 
profilo, tuttavia, la metodologia VaR sconta, sia sul piano teorico che su quello applicativo, un certo ritardo 
rispetto ai rischi finanziari che, pur nella loro elevata complessità, permettono comunque un approccio meno 
critico: così il percorso evolutivo di molti intermediari bancari è caratterizzato da una convenienza tra 
controllo dei rischi di mercato secondo la logica del VaR e controlli tradizionali per ciò che concerne gli altri 
rischi (e quello di credito in primis).  
16
 La gestione di patrimoni, l’offerta di servizi di consulenza e di pagamento, le operazioni di finanza 
straordinaria, e molte altre ancora, non comportano l’assunzione di posizioni in proprio, ma generano 
ugualmente flussi di ricavi e dunque di utili (ciò che in bilancio compare sotto la voce commissioni attive). Il 
fatto che parte dell’utile complessivo provenga da queste attività fa sì che esse siano comunque caratterizzate 
da rischio, poiché se tali flussi venissero improvvisamente a mancare la redditività e conseguentemente il 
valore economico dell’impresa bancaria ne risentirebbero negativamente. Dimostrata la validità della 
modellistica VaR per il controllo dei rischi di mercato e di credito, è logico attendersi una sua applicazione in 
tutte le aree operative ove si gestiscono posizioni finanziarie sensibili alla volatilità delle variabili di mercato. 
 16
    L’estensione dell’ambito di applicazione non rappresenta però che la prima dimensione 
rilevante; la seconda è individuata nelle finalità di utilizzo. A riguardo, è possibile 
distinguere quattro differenti e progressive finalità con le quali si può far ricorso ai modelli 
VaR, e precisamente: 
 
• misurazione del rischio gravante su un portafoglio finanziario (risk measurement o risk 
exposure); 
•  controllo del rischio associato al portafoglio mediante l’imposizione e la revisione di 
limiti operativi; 
• rilevazione della performance realizzata dal portafoglio, basata sul profilo 
rendimento/rischio (Risk Adjusted Performance Measurement); 
• gestione efficiente del “capitale proprio” come risorsa chiave dell’intermediario, 
finalizzata ad istituire un processo periodico di riallocazione interna del capitale 
complessivamente disponibile, in funzione sia delle capacità gestionali di ogni singolo 
centro di profitto, che delle opportunità di mercato che si offrono ad ognuno di essi 
(tecniche di capital allocation). 
 
    Le due dimensioni
17
 delineate individuano una vera e propria “mappa” sulla quale è 
possibile tracciare i diversi percorsi di sviluppo dei sistemi di risk management, per 
valutare il grado di consapevolezza di un intermediario in materia di assunzione dei 
rischi
18
. É chiaro che procedere contemporaneamente lungo le due dimensioni tende a 
                                                           
17
 Alle due dimensioni ambito di applicazione/finalità ne può essere aggiunta una terza, rappresentata dal 
livello di disaggregazione cui si intende giungere nella misurazione del Capital at Risk, nell’assegnazione di 
limiti operativi e nella rilevazione delle Risk Adjusted Performance Measurement, e procedendo lungo la 
quale si incontrano problemi di integrazione per alcuni profili analoghi a quelli connessi all’estensione del 
CaR. 
18
 Come rilevato da Marsella [1997b, 608-609], socio della società di consulenza finanziaria Arthur 
Andersen, ideatrice del modello Business Risk Management, “le criticità legate all’introduzione di un 
processo di allocazione del capitale, specialmente in realtà bancarie dimensionalmente significative, sono di 
solito collegate all’ampiezza del progetto, da sviluppare necessariamente con riferimento a tutte le Aree di 
business di una banca, [e] alla condivisione del modello e all’accettazione degli impatti in termini di struttura 
organizzativa, gradi di responsabilità e risorse umane” … “l’introduzione di modelli VaR spesso non 
costituisce occasione di ripensamento dell’intero modello di governance del business, ma è limitata alle 
necessità di misurazione dei rischi assunti … solo in rarissimi casi il concetto di risk management viene 
associato alle modalità con cui è impostato il processo gestionale della banca” [Marsella, Sironi 1997, 16-17]. 
È questo il caso delle banche italiane, dove la predisposizione delle informazioni necessarie e la formazione 
di qualificate figure professionali ha richiesto un impegno di risorse notevoli, con risultati che hanno 
condizionato la realizzazione completa di modelli di “governo” del rischio: le applicazioni sono state 
numerose ma hanno permeato parzialmente la gestione operativa, sicché non sono riscontrabili a tutt’oggi le 
condizioni per affermare che nel sistema bancario italiano la gestione di impresa ispirata alle logiche del risk 
management sia una realtà diffusamente consolidata [Marsella 1997b, 575, in particolare nota 5]. Sulla scia 
dei pronunciamenti degli Organi di Controllo, l’esigenza di misurare adeguatamente il profilo di rischio è 
stata particolarmente avvertita solo nell’attività dell’area finanza (in particolare della finanza innovativa), 
anche perché ritenuta portatrice di un rischio di mercato più difficile da gestire rispetto a quello derivante 
 17
creare problemi di natura in parte differenti: nell’estendere l’ambito di applicazione le 
maggiori difficoltà sono connesse all’integrazione tra modalità di assunzione e gestione dei 
rischi, orizzonti decisionali e talora “culture” differenti; nell’ampliare le finalità di utilizzo 
la maggiore difficoltà è rappresentata, invece, dalla necessità di armonizzare la rilevazione 
delle performance “corrette per il rischio” e di riallocazione del capitale con i meccanismi 
operativi già in essere all’interno di un intermediario.  
 
    Allo sviluppo dei modelli per la misurazione dei rischi di mercato hanno indubbiamente 
contribuito in misura rilevante non solo le singole istituzioni finanziarie, sovente meritevoli 
di aver reso disponibili pubblicamente i propri risultati, ma anche le Autorità di Vigilanza 
nazionali e sovranazionali. Il contributo in questione è riconducibile ad una radicale 
trasformazione della “politica del controllo”
19
: si è delineato in proposito uno specifico 
orientamento da parte dell’Istituto di Vigilanza che, su iniziativa concertata nell’ambito del 
Comitato di Basilea, ha avviato ipotesi di valutazione della stabilità e dell’efficienza delle 
imprese bancarie anche in termini del cosiddetto risk management
20
. 
                                                                                                                                                                                   
dalla cosiddetta area strutturale. Da questo punto di vista, il problema del controllo del rischio è, prima che 
tecnico, un problema culturale e richiede, per essere affrontato efficacemente, la disponibilità di tecnologie di 
calcolo “agganciate” ai mercati e di presidi organizzativi, preposti all’uso di queste tecnologie, basati su 
regole decisionali, modalità di coordinamento e realizzazione di strumenti informativi, finalizzate alla 
gestione della struttura dello stato patrimoniale e del conto economico nel breve e nel medio periodo. 
19
 Gli interessi dell’intervento pubblico nel comparto dell’attività di intermediazione creditizia e finanziaria 
sono identificati nella stabilità, efficienza e trasparenza del mercato, e costituiscono gli obiettivi finali della 
regolamentazione. Il conseguimento di tali obiettivi rende necessario ricercare le strutture di mercato, 
organizzative e istituzionali più idonee alla loro realizzazione (obiettivi intermedi) nonché l’apprestamento 
delle condizioni e l’impiego dei mezzi che favoriscano la realizzazione di tali strutture (strumenti). 
Recentemente il Comitato di Basilea [1997a] ha diffuso una serie di principî comuni “che rappresentano gli 
elementi basilari per un efficace sistema di vigilanza”, a testimonianza della necessità di omogeneizzare le 
regole di controllo sul piano internazionale. Per una descrizione delle diverse forme di vigilanza, degli 
strumenti, degli obiettivi e dei soggetti vigilati si veda Parente et al. [1996, diffusamente, in particolare 32, 
60-61], [Di Noia, Piatti 1998, 35, 39]. Per una sintesi sui diversi modelli di vigilanza, cfr. [Di Noia, Piatti 
1998, 14-23].  
20
 I riferimenti della Vigilanza in proposito sono numerosi (cfr., ad es., Banca d’Italia [1994, LXI.21], 
Comitato di Basilea [1997, 15
*
, 21
*
], IOSCO [1995], [1998, 6-7]), e d’altra parte i diversi tasselli di quali si è 
venuto formando il nuovo ordinamento bancario possono essere ordinati secondo due precise direttrici: 
interventi diretti a garantire nuove libertà alle imprese – allo scopo di assicurane una gestione più efficiente – 
ed interventi diretti a precostituire le condizioni necessarie per fronteggiare i rischi connessi con quelle nuove 
libertà e a contenere gli effetti negativi degli stessi. In un contesto che valorizza l’autonomia imprenditoriale 
del banchiere, all’interno di regole poste a presidio della stabilità e dell’efficienza, si accentua la rilevanza 
della conoscenza tempestiva della situazione tecnica complessiva delle banche, per guidare la Vigilanza ad 
intraprendere le necessarie azioni correttive. Il processo di analisi si articola in un percorso di indagine che, 
attraverso una costante attività di monitoraggio, consente l’individuazione di sintomi di anomalia ovvero la 
ricerca delle modalità di superamento delle situazioni problematiche. Il monitoraggio riguarda 
essenzialmente tre aspetti: il rispetto dei requisiti di vigilanza prudenziale (cfr. infra nota 23); l’andamento 
dei principali aggregati patrimoniali ed economici; la capacità della banca di fronteggiare, sotto il profilo 
patrimoniale ed organizzativo, i diversi rischi assunti. Il fulcro dell’intero percorso d’indagine è l’esame della 
situazione tecnica, attuale e prospettica, della banca alla luce: delle indicazioni emerse dai controlli periodici; 
dalle valutazioni ottenute dai modelli di analisi; dalle altre informazioni circa le caratteristiche operative. In 
particolare, i modelli di analisi costituiscono lo strumento per l’esame delle situazioni tecniche, essendo 
l’impianto analitico sottostante al sistema di valutazione delle banche. I modelli riguardano cinque profili