chiarezza le  proprie  tesi,  il  che rende certo  più agevole e 
fruttuoso il confronto con esse. Un pregio, questo, davvero 
non comune.
Ora, non si vuole qui imbastire una discussione che 
porterebbe  fuori  strada  rispetto  al  tema,  ma  bisogna 
ammettere che una delle ragioni del prestigio internazionale 
di  Searle  e  del  successo  dei  suoi  libri  tradotti  in  diverse 
lingue, consiste proprio nella sua limpidezza argomentativa 
che, senza offendere il buon senso, riconosce il prestigio di 
una tradizione occidentale fondata, oltre che sull'eccellenza 
argomentativa,  sul  concetto  scientifico  di  vero come 
corrispondente ai fatti2. Ciò parrebbe tuttavia suonare come 
“politicamente scorretto” per quella scuola di pensiero che 
non  ama parlare  di  capolavori  né  di  opere,  preferendo  il 
generico  testi,  e  così  implicandone  il  conseguente 
livellamento3. Difatti, il tipo di attacco che tale scuola rivolge 
a Searle  è  in linea con l’approssimazione allusiva che ne 
informa i contenuti: come quando ritiene di poter irridere al 
suo realismo ingenuo col sostenere (grazie a una conoscenza 
approssimata  delle  teorie  quantistiche)  la relatività di 
qualunque sedicente verità; non ultima quella della realtà 
stessa  che,  ridotta  dalla  post  modernità a  descrizione,  e 
dunque  a  testo,  non  avrebbe  maggior  dignità  di  altre 
“realtà”,  prodotte  da qualsivoglia  individuo parlante,  anzi, 
scrivente. Le polemiche di Searle con R. Rorty e J. Derrida 
sono un eloquente esempio4 di quali contrasti siano venuti a 
2Cfr J.R. Searle, Campus wars. Multiculturalism and Politics of difference, Westview Press, 
Boulder, 1995; trad. it Occidente e multiculturalismo, Ed. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008.   
3Cfr J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo, cit.   
4Cfr Maurizio Ferraris, Ontologia sociale e documentalità, in www.labont.it/ferraris, 
II
crearsi  fra  modi  di  pensare  certamente  inconfrontabili. 
Tuttavia, quello che - a parte ciò - sembra accomunare certi 
attacchi  è  che,  spesso,  questi  paiono  riguardare  meno  il 
merito di questioni filosofiche che ragioni di  appartenenza. 
Alle quali John Searle si è però sempre mostrato refrattario, 
tanto  che  l’accusa  che  gli  viene  generalmente  rivolta  (si 
pensi  a  Daniel  Dennett5)  è  proprio  quella  della 
incollocabilità.  Ma  questo,  se  da  un  lato  ha  portato  alla 
solitudine di certe sue posizioni, dall’altro ha costituito la 
vera  forza  del  suo  pensiero,  poiché  non  dovendo  Searle 
rendere  omaggio  a luoghi  comuni   consolidati,  ha potuto 
facilmente emendarsi ove necessario. Ciò gli ha però anche 
consentito di schernire apertamente posizioni inconseguenti 
o bizzarre, come quando afferma che “per Dennet noi siamo 
veramente  degli  zombi”6,  giacché  “è  il  solo  a  pensare  che 
tutte le esperienze che riteniamo coscienti  siano in realtà 
semplici operazioni di una macchina computazionale”7.
 Quanto sopra andava, se pur brevemente, accennato, 
anche per dar conto di quali ragioni inducano a trascurare 
altri  contributi,  che  appaiono  più  spesso  pretestuosi  che 
utili. Si può quindi, a questo punto, tornare alla questione 
del libero arbitrio, che è sicuramente più interessante.
Il tema di fondo dunque è quello della scelta, come 
implica una teoria che non mette mai in dubbio l’esistenza 
di  un  Sé senza  il  quale  “libero arbitrio”  diverrebbe 
Laboratory for ontology, Dipartimento di filosofia, Università di Torino, 2006; 
5Cfr J.R. Searle, The mistery of consciousness, New York Review of Books, New York, 1997, 
tr. it. Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 1998, p. 96.
6J.R. Searle, Il mistero della coscienza, cit, p. 85. Il testo cui si riferisce Searle è D.C. Dennet, 
Coscienza. Che cos'è, Rizzoli, Milano, 1992.
7J.R. Searle, Il mistero della coscienza, cit, p. 102. 
III
un’espressione priva di senso. 
Ma Searle non si limita all’analisi formale minuziosa, 
da  perfetto  esponente  della  scuola  analitica  quale 
certamente è. Egli infatti estende l’indagine alle implicazioni 
sociali  e  dunque  politiche  del  libero  arbitrio8,  il  che 
contribuisce a rendere ancora più interessante la sua tesi. 
La  quale  potrebbe  trovare  conferma  anche  in  forza  di 
discipline  oggi  ritenute  più  “scientifiche”  rispetto  alla 
filosofia,  come  la  biologia.  Il  saggio  del  biologo  Pasquino 
Paoli sull'origine simbiontica della coscienza (come vedremo) 
ne è un eccellente esempio9. 
Si terranno presenti in questa disamina diversi scritti 
di  Searle,  in  quanto  il  problema del  libero  arbitrio  –  pur 
affrontato esplicitamente ne  La razionalità dell’azione10 che 
verrà  da  noi  esaurientemente  esaminato  -  costituisce  in 
realtà il tema di fondo di quasi tutta la sua opera (tranne 
forse  gli  Atti  linguistici11).  A  tale  tema  si  riferisce  anche, 
infatti, una delle ipotesi più interessanti nel panorama della 
filosofia  contemporanea,  quale  quella  dello  Sfondo 
contenuta già ne La riscoperta della mente12, che esemplifica 
i presupposti concreti imprescindibili sui quali basiamo la 
nostra  razionalità.  Ma l'idea cruciale  -  sulla  quale  Searle 
8Cfr John R. Searle, Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il  
potere politico, cit.
9Pasquino Paoli, Come l’evoluzione ha realizzato il ‘fantasma nella macchina’. L’origine 
simbiontica della coscienza. In Systema Naturae, 2001, vol. 3, pag. 43-202.
10J.R. Searle, Rationality in action, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2001. Trad. it. 
La razionalità dell’azione, Raffaello Cortina, Milano, 2003.
11J.R. Searle, Speech acts: An essay in the philosophy of language, Cambridge University 
Press, Cambridge, 1969. Trad. it. Atti linguistici: un saggio di filosofia del linguaggio, 
Boringhieri, Torino, 1976.
12John R. Searle, The rediscovery of the mind, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 
1992. Trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino, prima ed.1994; rist. 2003. 
IV
scrive infatti La razionalità dell'azione – è quella dello Scarto, 
o Lacuna, ossia il divario (gap) fra l'intenzione e l'azione, che 
poi  è  ciò  che  caratterizza  l'agire  umano  e  che  nella 
tradizione filosofica viene chiamato libero arbitrio. 
Cioè l'idea della libertà umana. Alla quale Searle non 
vuole affatto rinunciare, come invece fanno invariabilmente 
e con eccessiva disinvoltura i deterministi. 
Ma,  se possiamo discutere  di  filosofia morale -  dice 
Searle - è perché  presupponiamo la libertà individuale.  E, 
pertanto,  che  vi  siano  ragioni per  agire,  e  non  cause  di 
eventi impersonali che muovano gli agenti. 
Dunque si deve chiarire cosa sia una ragione e cosa 
una azione; e per far questo Searle esamina e demolisce il 
cosiddetto  Modello  Classico,  cioè  quello  aristotelico  e 
successivi similari derivati. Che tale modello, indiscusso per 
secoli, mostri oggi tutta la sua fallacia è una cosa detta con 
chiarezza inequivocabile da Searle. Ciò per diversi motivi. 
In primo luogo l’inaccettabile confusione fra il campo 
logico  e  quello  soggettivo.  Solo  quest'ultimo,  infatti,  è  il 
proprium del libero arbitrio. In secondo luogo, la necessità 
del  corredo  emozionale  al  fine  della  scelta  (Damasio13), 
confermata  dalla  ricerca  neurologica,  ma  negata  dal 
Modello. In terzo e ultimo luogo, l'infondatezza della dottrina 
che  vorrebbe il  desiderio  unica  causa dell'agire  razionale, 
secondo lo stesso Modello. 
Searle  insomma  ha  ritenuto  indispensabile,  ove  si 
13Antonio Damasio, The feeling of what happens. Body and emotions in the making of  
consciousness, Copyright Antonio R. Damasio 1999; trad. it. Emozione e coscienza, Adelphi 
edizioni, Milano, 2000.
V
volesse addivenire a qualche risultato, liberarsi innanzitutto 
dei falsi dilemmi indotti da false quanto celebrate dottrine 
(valga  per  tutte  quella  famigerata  del  dualismo  mente-
corpo), che inducono subliminalmente a incamminarsi per 
vicoli  ciechi,  dacché  si  danno  per  scontati  e  indiscutibili 
presupposti invece infondati e discutibilissimi. Ed è proprio 
questo  problema  di  generale  mistificazione  ad  essere 
ritenuto  da  Searle  di  fondamentale  importanza.  Senza 
risolverlo, difficilmente si potranno fare progressi effettivi in 
filosofia.  Per  fare  un  solo  esempio  sopra  tutti,  basti 
menzionare  quello  del  vero come  nesso  con  una  realtà 
indipendente,  avversato  dal  “vero  come  costruzione” della 
scuola  post  modernista.  Egli  vi  torna  sopra  più  volte  in 
diverse opere, come ne La costruzione della realtà sociale14, 
nel già citato  Occidente e multiculturalismo  e, ancor più, in 
Mente, linguaggio, società15, ove viene condotta fino in fondo 
una  disamina  delle  problematiche  connesse  alla  reiterata 
quanto dissimulata confusione che,   dal  '900 in avanti  e 
dunque  nella  post  modernità,  viene  fatta  ad  arte  fra 
fenomeni  reali  aventi  un  concreta  realtà  ontologica,  e 
fenomeni  che  invece  non  la  posseggono  affatto  ma  che 
ciononostante pretenderebbero di essere trattati alla stessa 
stregua,  pur  avendo  solo  una  realtà  linguistica,  cioè 
convenzionale. 
Questa questione, illuminata con limpida essenzialità 
da  Searle,  è  di  importanza  capitale  poiché  permette  a 
chiunque sia scevro da condizionamenti, di osservare nella 
14J.R. Searle,  The construction of social reality, Free Press, New York, 1995. Trad. it. La 
costruzione della realtà sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.
15J.R. Searle, Mind, language and society, Weidenfeld & Nicholson, 1999. Trad. it. Mente,  
linguaggio e società, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
VI
giusta luce tutta una serie di teorie che per lungo tempo 
hanno suggerito alla cultura occidentale che, in definitiva, i 
limiti  delle  nostre  capacità sensoriali  fossero una prova - 
non  già  solo della  loro inaffidabilità,  bensì  –  addirittura, 
della inaffidabilità della realtà e della probabile  inesistenza 
del  mondo16.  Il  prezzo  da  pagare  è  stato,  nella  comunità 
intellettuale,  la  confusione  da  basso  impero  ove  tutte  le 
teorie  hanno  pari  dignità,  non  dovendo  soffrire  alcuna 
verifica rispetto alla realtà: in fondo sono tutti testi. 
E  così,  anche la  teoria  di  Searle,  che propone  una 
critica  allo  status  quo,  ha  potuto  tranquillamente  essere 
collocata  insieme  alle  altre  nell’esser  definita  realismo 
ingenuo, al fine di  neutralizzarla con un'etichetta e dunque 
ammansire in tal modo contemporaneamente le due famiglie 
di avversari che essa ha osato sfidare: i dualisti-idealisti, e i 
materialisti-computazionalisti17.  Ora, al  di là delle diatribe 
scatenatesi nell'ambito della filosofia della mente,  le quali 
interessano forse marginalmente la nostra questione (e di 
cui  comunque  Searle  dà  conto  ne  Il  mistero  della 
coscienza18),  la sua riflessione suggerisce l'ipotesi che uno 
dei prodotti di una realtà convenzionale così adulterata, sia 
quella  sorta  di  recinto nel  quale  tanti  intellettuali  amano 
entrare  per  girarvi  in  tondo  a  discutere  amabilmente  di 
“forme di  postmodernismo o  decostruzionismo e  così  via, 
dato  che  queste  sono  state  completamente  slegate  da 
fastidiosi  ormeggi  e  dal  vincolo  di  doversi  confrontare  col 
mondo reale”19.  Così  che,  insomma,  la  realtà  possa venir 
16Cfr J.R. Searle, Mente, linguaggio e società, cit; in particolare pp. 30-37.
17Cfr J.R. Searle, Il mistero della coscienza, cit., in particolare capp. 5 e 6.
18Cfr J.R. Searle, Il mistero della coscienza, cit.
19J.R. Searle,  Mente, linguaggio e società, cit, pag. 22.
VII
tranquillamente  rifiutata,  per  lasciar  invece  spazio  ai 
costrutti linguistici. “Jacques Derrida – celia Searle - scrive 
(...) che non esiste niente al di fuori dei testi. Richard Rorty 
profferisce:  Penso che la stessa idea di un 'fatto  reale'  sia 
qualcosa di cui faremmo volentieri a meno.”20.  Il che lascia 
intuire le ragioni dell'ironia di Searle.
Rorty, come è noto, si volge verso una prospettiva da 
lui  definita  pragmatista,  secondo  la  quale  la  tradizione 
platonica  avrebbe esaurito la propria funzione, per cui la 
più grande aspirazione della filosofia dovrebbe essere quella 
di  non praticare la filosofia.  Pertanto, l'unico obiettivo della 
filosofia  diventerebbe  quello  di  continuare  una 
conversazione, e non più quello di scoprire qualche verità. 
Insomma,  volendo  illustrare  “à  la  Rorty”  il  '900  appena 
trascorso,  si  potrebbe  “pensare  che mantenere  aperta la 
discussione  costituisca  un  compito  sufficiente  per  la 
filosofia”21.  Difatti,  a  dire  di  come essa venga considerata 
una sorta di letteratura, Rorty afferma che “la filosofia più 
interessante non è quasi mai quella che esamina i pro e i 
contro  di  una tesi,  ma quella,  di  solito,  che rappresenta, 
implicitamente  o  esplicitamente,  la  competizione  tra  un 
vocabolario  accettato  che è diventato  una seccatura e un 
vocabolario  nuovo,  non  ancora  completamente  articolato, 
che  promette  vagamente  grandi  cose”22.  In  definitiva,  per 
Rorty “la stessa idea di raggiungere 'la totalità della verità' è 
20J.R. Searle, ibidem, p. 21; i brani riportati da Searle sono tratti da J. Derrida, Della 
grammatologia, Jaca Book, Milano, 1989; e R. Rorty, “La priorità della democrazia sulla 
filosofia”, tr. it. in G. Vattimo (a cura di), Filosofia '86, Laterza, Roma-Bari, 1988.
21R. Rorty, Philosophy and The Mirror of Nature, Princeton,1979, tr.it.  La filosofia e lo  
specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 291. 
22R. Rorty, Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge, 1989, tr. it. La filosofia dopo la 
filosofia. Contingenza , ironia e solidarietà, Laterza, roma-Bari, 1990, p. 16.
VIII
assurda, perché la nozione platonica della verità in quanto 
tale è assurda”23.  Un proclama fin troppo chiaro nelle sue 
conseguenze.  Ciò  comporterebbe  infatti  l'abbandono 
dell'idea  di  conoscenza come indagine della  realtà,  fino a 
negare  la  filosofia  stessa  come  disciplina  fondante,  come 
epistéme, come scienza. 
E  non  è  questo  infatti  il  risultato  contemporaneo? 
Non decreta forse Rorty che  “solo abbandonando del tutto 
l'idea  di  corrispondenza  della  realtà  possiamo  evitare 
pseudo-problemi”24?
Per  John Searle,  al  contrario,  l'idea  di  verità  come 
corrispondenza con la realtà non può esser messa sul piano 
di un qualunque enunciato, perché (così almeno funziona la 
scienza) è essa  a dare agli enunciati valore di verità, e non 
il contrario come pretenderebbero i post moderni. 
“Nelle  università,  e  in  modo  particolare  in  molti 
dipartimenti di discipline umanistiche, si è assunto che, se 
non esiste un mondo reale, allora la scienza è sullo stesso 
piano di quelle discipline. L'una e le altre hanno a che fare 
solo  con  dei  costrutti  sociali,  e  non  con  delle  realtà 
indipendenti”25.  Parrebbe  insomma  che  anche  l’evidenza 
della realtà debba essere giustificata al pari di qualunque 
asserto, il che ricorda gli arzigogoli impiegati nelle diatribe 
medievali sugli universali. E il fatto stupefacente è che tale 
canovaccio si è  ripetuto non solo in campo letterario, ma 
anche in ambiti  presumibilmente  più scientifici,  compresi 
23R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit, p. 290.
24R Rorty, Objectivity, Relativism and Truth, in Philosophical papers, vol. I, Cambridge, 1991; 
tr. it. M. Marraffa, Scritti Filosofici I, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 176.
25J.R. Searle, Mente, linguaggio e società, cit. pag. 21. 
IX
quello  della  filosofia,  delle  neuroscienze,  del  cognitivismo. 
Un  esempio  noto  è  quello  delle  reazioni  seguite  alla 
disarticolazione  della  teoria  computazionalistica 
dell’intelligenza,  operata  da  Searle  con  il  celeberrimo 
esperimento mentale della stanza cinese. Secondo esso, chi 
operasse  in  una  stanza  chiusa  seguendo  un  dettagliato 
manuale  di  istruzioni  potrebbe  benissimo  rispondere  agli 
imputs in  cinese  producendo  outputs corretti  nella  stessa 
lingua,  anche senza comprenderne una parola,  e  dunque 
senza intelligerla. Bene: la qualità e la vastità delle reazioni 
scatenatesi da parte di molti intellettuali pur noti, non sono 
riuscite a scalfire la semplice obiezione di Searle, ma hanno 
però evidenziato in esse un tratto comune di  riduzionismo 
irriducibile difficile da spiegare senza la condivisione di una 
idea di realtà relativistica, conformabile, computabile.
Tutto ciò sembrerebbe convalidare indirettamente la 
giustezza di un’altra intuizione di Searle, secondo la  quale il 
rifiuto  della  verità  come  riferimento ai  fatti,  nasconde  in 
sostanza la pretesa di poter manipolare l’esistente attraverso 
la mente. “Cinquant'anni fa sembrava che l'idealismo fosse 
morto”26, ma oggi si presenta in nuove versioni, ovviamente 
ancor  più  oscure,  “sotto  etichette  come  decostruzione, 
etnometodologia,  pragmatismo,  e  costruzionismo  sociale”27. 
E c'è una ragione di fondo per la forte attrazione esercitata 
da tutte le forme di antirealismo, divenuta palese (guarda 
caso)  proprio  nel  Novecento:  “l'antirealismo  soddisfa  un 
basilare bisogno di potere”28. 
26J.R. Searle, ibidem, pag. 19. 
27J.R. Searle, ibidem, pag. 20, corsivo nostro.
28J.R. Searle, ibidem, pag. 19. 
X
 Per  quanto  sopra,  se  anche  dovesse  apparire  non 
particolarmente  fertile  la  via  proposta  da  Searle  nella 
soluzione  del  problema del  libero  arbitrio,  sarebbe 
comunque  una  buona  idea  approfondire  le  sue 
argomentazioni,  almeno  per  non  trovarsi  a  percorrere 
labirinti tortuosi ma senza vie d'uscita, forti di un distacco 
ironico sufficiente a mantenere viva la propria capacità di 
giudizio. “Se il mondo reale è soltanto un'invenzione – un 
costrutto  sociale  progettato  per  opprimere  le  componenti 
emarginate della società – allora sbarazziamoci del mondo 
reale e costruiamo il mondo che vogliamo”29. Il che, se fosse 
un  programma  di  riforma  della  pòlis,  sarebbe  nobile  e 
ammirevole,  perché  implicherebbe  il  ritorno  della  filosofia 
alle sue vere origini. Per i postmodernisti però, si tratterebbe 
invece  solo  di  un  gioco  di  parole  su  un  testo.  Un 
divertissement di  intellettuali  che  da  tempo  hanno 
rinunciato  a  qualunque  vero  tentativo  di  influenza  sulla 
realtà, e si illudono che negarla possa abbassarla al livello 
di  un  qualunque  costrutto  linguistico,  sì  da  renderla 
altrettanto  accomodabile  (come  un  testo,  appunto)  dal 
proprio salotto.
Dunque, cercheremo di seguire Searle laddove le sue 
proposte sembrano più stimolanti. A tal fine – considerando 
che  la  sua  teoria  si  basa  su  principi  che  negano 
radicalmente  i  paradigmi  tradizionali  della  razionalità  -  il 
primo capitolo sarà dedicato ad illustrare sommariamente le 
29J.R. Searle, Mente, linguaggio e società, cit. pag. 22.
XI
radici storiche di tale tradizione, la quale ha dato luogo a 
quello che Searle  definisce appunto il  Modello  Classico.  Il 
secondo capitolo sarà dedicato all’esame delle ragioni  che 
sconfessano  tale  modello,  e  ai  vantaggi  che  se  ne 
otterrebbero liberandosene, sostituendolo con altri principi. 
Conclusa  così  la  pars  destruens,  il  terzo  capitolo 
approfondirà  i  fondamenti  più  importanti  della  teoria 
elaborata  da Searle,  in  particolare  quello  del  Sé e  quello 
dello  Scarto  (o  Lacuna). Nel  quarto si  esaminerà la teoria 
dell'origine  simbiontica  della  coscienza  proposta  da 
Pasquino  Paoli,  biologo  del  CNR, in  quanto  essa  sembra 
rispondere  in   maniera  non  approssimativa  all'istanza 
lasciata  aperta  da  Searle  nell'affermare  che  -  ove  si 
riconosca l'idea del sé - non vi sarebbero problemi metafisici 
relativi al libero arbitrio30. Resterebbe cioè da sciogliere solo 
una  questione  squisitamente  biologico-evolutiva  riguardo 
alla sua origine.  Infatti,  “se è  possibile  dimostrare in che 
modo il cervello (…) giunge a creare un campo unificato per 
una coscienza capace di agire razionalmente e liberamente 
(…) si avrà allora la soluzione del problema neurobiologico 
del sé”31.  Il  che è proprio il  tipo di approccio proposto da 
Paoli.  Il  quinto  capitolo,  infine,  sarà  dedicato  a  una 
valutazione dei risultati conseguiti.
In conclusione,  e per riassumere il  senso di  questo 
scritto: un'indagine al seguito di Searle potrebbe aiutarci a 
meglio discernere dentro al recesso del libero arbitrio, nel 
luogo pressoché sconosciuto della scelta. Ad analizzare con 
30Cfr John R. Searle, Libertà e neurobiologia, cit, p. 52.
31John R. Searle, ibidem, cit, p. 52.
XII
strumenti non obsoleti le implicazioni di una scelta libera. 
Ossia:  quanta  influenza  abbia  nelle  scelte  dell'agente  la 
realtà nella quale egli è immerso; in quale misura essa sia 
percepita come epistemica e in quale invece come ontologica; 
quale influenza abbiano su di essa gli atti linguistici, e le 
capacità di sfondo sulle quali questi atti si reggono, e dalle 
quali  vengono  legittimati.  Ci  troveremmo  insomma  ad 
aggirarci  nell'ambito  di  quella  teoria  generale  della  realtà 
capace  di  includere  la  coscienza,  che  Searle  insegue  da 
anni. Tale oggetto di indagine è così affascinante – se non 
dimentichiamo i presupposti realistici da cui parte – che da 
solo meriterebbe qualunque sforzo intellettuale, fosse anche 
soltanto  per  valutarne  la  plausibilità  teorica.  Per  questi 
motivi, anche il semplice esaminarlo potrebbe far scaturire 
idee non banali,  e dunque contribuire in misura sia pure 
modesta  a  chiarire  qualche  questione.  Ma  anche  se  tale 
sforzo non approdasse a nulla, pure potrebbe forse almeno 
produrre una disamina utile ad illustrare meglio il pensiero 
di  John  Roger  Searle  riguardo  alla  antica  e  irrisolta 
questione del libero arbitrio. A sostenere un tale tentativo ci 
sarebbe,  in  ogni  caso,   la  tesi  (condivisa  da  chi  scrive) 
secondo la quale “per impegnarci in una decisione razionale 
dobbiamo  presupporre l'esistenza del libero arbitrio poiché 
esso è presente in qualsiasi attività razionale. Non possiamo 
evitare  tale  presupposizione,  poiché  persino  il  rifiuto  a 
impegnarsi in una decisione razionale ci risulta intellegibile 
come rifiuto soltanto se lo consideriamo come un esercizio 
della libertà”32.  
32John R. Searle, La razionalità dell'azione, cit, p. 12.
XIII