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delle campagne, abbagliati da facili guadagni e da un tenore di vita 
migliore. Le industrie investono sui mezzi di comunicazione per 
pubblicizzare i loro prodotti, ed il cinematografo viene assimilato 
nella logica industriale diventandone uno degli strumenti più 
potenti.  
Se il miglioramento delle condizioni della vita comporta, da 
un lato, un maggiore guadagno economico e, dall'altro, maggiore 
tempo libero, l'industria cinematografica di Hollywood si pone sul 
mercato producendo una tale quantità di film capaci di occupare 
gran parte del tempo libero e di accaparrarsi una buona fetta del 
surplus economico.  
E' per questo che inizialmente i prodotti hollywoodiani si 
caratterizzano principalmente come puro svago e divertimento. E' 
per lo stesso motivo che le scene dei film non possono che essere 
sfarzose, piene di luci e «colori» il più possibile ammiccanti verso 
un pubblico ancora stordito dalla novità.  
Nonostante gli eventi subiscano una sensibile variazione, 
intorno alla metà degli anni Cinquanta, con l'avvento della 
diffusione capillare della TV ed il lievitare delle spese di 
produzione, la sostanza della macchina cinematografica 
hollywoodiana rimane prevalentemente invariata.  
Si può dire che, adoperando le parole di Snow, ancora, in 
questo periodo storico "il cinema continua ad essere una passerella 
di ideali americani e di divertimento popolare"  [Snow, 1987, 75]. 
Nel  periodo illustrato Benjamin intende il cinema - ed ogni 
altra invenzione tecnologica che consenta la riproduzione delle 
immagini o della parola, sia essa scritta che orale - come una tappa 
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di una logica evoluzione di un processo lineare, identificabile con la 
modernità.  
Il pensatore tedesco affronta vivacemente la tematica sulla 
trasfigurazione del senso dell'opera d'arte nel periodo della sua 
riproducibilità tecnica.   
Benjamin focalizza la sua attenzione sul venir meno di ciò 
che egli definisce "l'aura" dell'opera, con particolare riferimento al 
ruolo svolto dal cinema, cui egli assegna un'importanza pressoché 
fondamentale.  
Benjamin parte dal presupposto che "una cosa fatta dagli 
uomini ha sempre potuto esser rifatta da uomini" [Benjamin, 1991, 
20]. 
Ciò che accade, tuttavia, in seguito alle innovazioni delle 
tecniche di riproduzione, è un fenomeno senza precedenti che 
stravolge, secondo Benjamin, il modo di intendere l'opera stessa. 
Con l'avvento della stampa, prima, della litografia e 
fotografia dopo,  ed infine con il cinematografo, si realizza, infatti, 
la sublimazione e la cristallizzazione di quel processo riproduttivo 
che contestualizza ed attualizza ogni opera, presentandola al suo 
fruitore scevra di un valore sia esso storico che culturale. Viene 
così sottratta all'opera d'arte la sua caratteristica saliente: il suo 
essere, cioè, autentica ed unica.  
Secondo il pensatore tedesco sono proprio tali 
caratteristiche, l'autenticità e l'unicità, ad impregnare l'opera stessa, 
evidenziandone palesemente i due fattori essenziali che la 
distinguono da ogni altra opera, e cioè: la "durata materiale" e la 
"testimonianza storica" [ibidem, 23]. Fattori, questi, inter-connessi 
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ed altrettanto smarriti nell'attimo stesso in cui l'opera viene 
riprodotta.   
In sintesi, tutto ciò sottrae all'opera ciò che Benjamin 
definisce, appunto, "l'aura": la sua autenticità, "l’hic et nunc 
dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in 
cui si trova" [ibidem, 22]. 
Il tutto non accade né casualmente, né involontariamente; il 
nesso causale tra società di massa e riproduzione tecnologica 
avanzata è molto forte. In essa, la  volontà di sradicare i valori 
contrastanti col nuovo e pervasivo sistema nascente, è assoluta.  
Il legame tra  la cultura di massa e l'avvento dei primi media 
tradizionali, stampa popolare e cinema, costituisce un elemento 
chiave della modernità.  
La massa emerge già nella prima riflessione di Herbert 
Blumer come "un nuovo tipo di formazione sociale della società 
moderna"  [McQuail, 1996, 54] contrapposta  ad altri aggregati 
come il gruppo, la folla e il pubblico
2
. 
Il nuovo concetto di massa, affermatosi intorno agli anni 
Trenta ma già in embrione alla fine dell'Ottocento
3
, "… coglieva 
alcuni tratti del nuovo pubblico cinematografico e radiofonico che 
non rientravano in nessuno dei tre concetti precedenti. Questa 
nuova entità era più grande di ogni gruppo, folla o pubblico. Era 
assai disaggregata […] priva di autocoscienza e identità […] 
                                                          
2
 Secondo Blumer il gruppo si caratterizza per il senso di comune appartenenza e la condivisione degli 
stessi valori, la folla per la temporaneità, emotività, assenza di strutturazione e irrazionalità, il 
pubblico, in fine, è una collettività che si forma a sostegno di un interesse o di una opinione, 
diventando elemento essenziale dei sistemi democratici fondati sull'ideale di razionalità, identificabili 
con le democrazie liberali della società borghese. Cfr. con McQuail, Sociologia dei media,  Il Mulino, 
Bologna, 1996, 54.  
3
 Cfr. con McQuail, Sociologia dei media,  Il Mulino, Bologna, 1996, 52-53. 
 7
caratterizzata da una composizione fluttuante entro confini 
instabili…" [ibidem]. 
Con la modernità e l'affermarsi dei primi mass media il 
processo comunicativo risponde alle nuove esigenze del sistema 
economico-produttivo: i contenuti simbolici divengono merce da 
consumare, di cui si esalta il valore di scambio piuttosto che il suo 
valore d'uso, così come teorizzato dai pensatori della Scuola di 
Francoforte.  
La comunicazione di massa si caratterizza per alcuni 
elementi che la distinguono da altri tipi di comunicazione; in essa 
"[…] gli emittenti sono quasi sempre comunicatori di professione 
[…] il contenuto simbolico o messaggio veicolato […] è spesso 
'fabbricato' in modi standardizzati (produzione di massa), anziché 
essere unico, mutevole o imprevedibile"[ibidem, 53]. 
I processi di contestualizzazione ed attualizzazione, prima 
indagati in riferimento al ri-configurarsi dell'opera d'arte sotto l'urto 
del loro impatto, " […] portano a un violento rivolgimento che 
investe ciò che viene tramandato - a un rivolgimento della 
tradizione, che è l'altra faccia della crisi attuale e dell'attuale 
rinnovamento dell'umanità. Essi sono strettamente legati ai 
movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il 
cinema. Il suo significato sociale, anche nella sua forma più 
positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile senza quella 
distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale 
dell'eredità culturale" [ibidem, 23]. 
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Se in quest'ottica il cinema poteva essere inteso come una 
sorta di dittatura ideologica, per converso va rilevato come non 
mancarono le iniziative sperimentali. 
Svariati furono i tentativi da parte di alcuni "pionieri" 
dell'immagine che sfruttarono il nuovo sistema comunicativo per 
trasportare sul grande schermo gli stilemi ed i codici espressivi 
propri delle arti figurative tradizionali.  
Si ebbero così pellicole impregnate dei linguaggi propri delle 
avanguardie caratterizzanti l'arte moderna: surrealismo, 
espressionismo, neorealismo, dadaismo. E' soprattutto, attraverso la 
"concezione dadà" che si manifesta lo stravolgimento socio-
culturale che il crescente sistema capitalistico e tecnocratico 
impone al mercato ed alle città stesse. Stravolgimento che si 
ripercuote anche sul rapporto tra l'uomo e le merci, nonché nella 
sfera delle relazioni tra gli individui.  
In tale contesto l’uomo è condotto ad una rielaborazione, 
ineluttabile, dei codici percettivi della realtà. La società di massa 
elabora un differente modo d'accostarsi, di percepire l'opera d'arte: 
è un modo che ne ridefinisce i contenuti ed il senso stesso, 
approdando ad inediti canoni estetico-valutativi del bello e dunque 
dell'opera stessa.  
Gli effetti che la crescente radicalizzazione tecnologica ha 
avuto sulla cultura di massa, furono colti da Paul Valéry il quale, 
già nel 1934, affermava: "Le nostre Arti Belle sono state istituite, e 
il loro tipo e il loro uso sono stati fissati in un'epoca ben distinta 
dalla nostra e da uomini il cui potere d'azione sulle cose era 
insignificante rispetto a quello di cui noi disponiamo. Ma lo 
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stupefacente aumento dei nostri mezzi, la loro duttilità e la loro 
precisione, le idee e le abitudini che essi introducono garantiscono 
cambiamenti imminenti e molto profondi nell'antica industria del 
Bello. In tutte le arti si dà una parte fisica che non può più venir 
considerata e trattata come un tempo, e che non può più venir 
sottratta agli interventi della conoscenza e della potenza moderne. 
Né la materia né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent'anni in 
qua, ciò che erano da sempre. C'è da aspettarsi che novità di una 
simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così 
agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificarne 
meravigliosamente la nozione stessa di arte" [Valéry, in Benjamin 
op. cit., 18]. 
La tecnologia e le sue invenzioni ci allontanano, dunque, dal 
nostro passato, dalla tradizione, dal senso della storia..  
Se un tempo, infatti, il rapporto dell'uomo con l'opera d'arte 
era diretto e solitario, invitante, cioè, alla contemplazione, agli inizi 
del Novecento questo stato di cose non solo muta ma, addirittura, 
finisce per ribaltarsi. 
 "Delle costruzioni si fruisce in un duplice modo: attraverso 
l'uso e attraverso la percezione. O, in termini più precisi: in modo 
tattico e in modo ottico. [...] Non c'è nulla, dal lato tattico, che 
faccia da contropartita di ciò che, dal lato ottico, è costituito dalla 
contemplazione. La fruizione tattica non avviene tanto sul piano 
dell'attenzione quanto su quello dell'abitudine. [...] Poiché i compiti 
che in epoche di trapasso storico vengono posti all'apparato 
percettivo umano, non possono essere assolti per vie meramente 
ottiche, cioè contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie 
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all'intervento della ricezione tattica, all'abitudine" [Benjamin, op. 
cit, 45]. 
In tal senso il cinema si fa specchio della società, dei suoi 
disagi e delle sue necessità costituendo, col suo fluire ininterrotto, 
uno shock percettivo assimilabile allo shock fisico a cui sono 
abituate le brulicanti masse anonime. 
Quest’ultime sono per Benjamin: " […] una matrice dalla 
quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei 
confronti delle opere d'arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le 
masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un 
modo diverso di partecipazione" [ibidem, 44].  
Charles Baudelaire in una sua lirica, A una passante, esprime 
come la folla - "Dattorno a me urlava la strada assordante" 
[Baudelaire, 1975, 168-169] - sia divenuta l’ambito privilegiato 
della visione poetica, in cui l’incontro fugace rappresenta 
quell’esperienza dello shock a cui le brulicanti masse anonime 
assoggettano il poeta che va in cerca delle sue prede.  
Per il poeta francese la massa "non è questione di nessuna 
classe, di nessun collettivo articolato e strutturato. Si tratta solo 
della folla amorfa dei passanti, del pubblico delle vie" [Benjamin, 
1995, 99].  
Baudelaire sperimenta la modernità sulla sua pelle, e nelle 
sue opere ad un prezzo molto alto: "la dissoluzione dell’aura 
nell’esperienza dello shock" [ibidem, 126]. 
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Se in Baudelaire il concetto di folla vive di una sua 
autonomia  e centralità, in Scipio Sighele lo stesso viene definito e 
delimitato in relazione alla nozione di pubblico: "Il pubblico […] 
non è che una trasformazione della folla, compiuta lentamente dalla 
civiltà, la quale - man mano che progrediva - scopriva mezzi 
sempre migliori per poter tenere legati idealmente gli uomini senza 
che fossero fisicamente vicini" [Sighele, 1931, 30].