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CAPITOLO I
Il diritto ad essere padri e il diritto del minore ad avere un padre
1. Dei diritti e delle pene: un excursus tra Legislazione internazionale e
Costituzione italiana
Tutelare le persone private della libertà e successivamente anche i loro familiari, in
particolari i figli, è da tempo interesse della Comunità Internazionale.
Nel tempo si sono prodotti importanti riferimenti normativi per gli Stati aderenti, che
hanno velocizzato il processo di affermazione di determinati diritti anche all'interno della
normativa italiana.
La prima affermazione dell'esistenza di una serie di diritti propri dell'uomo, inviolabili ,
universali e tutelati dallo Stato, avviene con l'emanazione, da parte dell'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, della “Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo” del
1948. Nella Dichiarazione viene previsto che nessun uomo possa essere sottoposto a
tortura, maltrattamenti, punizioni crudeli, inumane o degradanti (art. 5), e che la maternità
e l'infanzia debbano godere di speciali cure e assistenza sociale (art. 25); si stabilisce
altresì che la famiglia è un nucleo naturale e fondamentale della comunità umana e va
pertanto protetta dalla società e dallo Stato (art. 16).
Pochi anni dopo, precisamente il 4 novembre del 1950, viene sottoscritta a Roma la
“Convenzione Europea sui diritti dell'uomo”, resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955,
n. 848. Gli articoli 2 e 3 ribadiscono il diritto alla vita e il divieto di ricorrere a torture,
pene e trattamenti inumani. L'art. 8 richiede il rispetto per la vita familiare di un individuo,
per la sua vita privata, il suo domicilio e la sua corrispondenza. ¨ l'articolo piø importante
per genitori e figli: non solo obbliga gli Stati a proteggere gli individui dalle interferenze,
ma crea per loro l'obbligo in positivo di intraprendere azioni per assicurare il rispetto di
tali diritti.
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Sancisce l'obbligo della Corte Europea di vigilare in merito al rispetto di tale
articolo, prevedendo sanzioni
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.
1 Si rimanda all'interpretazione data dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo nella sentenza emessa dalla sez. V il 26 ottobre
2006 sul ricorso n.23848/04 Wallovà e Walla/Repubblica Ceca. Nella sentenza si afferma, con riferimento al caso di minori allontanati
dai genitori per motivi di indigenza e povertà, che per l'art 8 della Convenzione Europea va interpretato come dovere dello Stato
assicurare il rispetto della vita familiare, e in particolare pone in capo allo Stato il dovere di agire in modo tale da conservare, rinsaldare
e incentivare i legami tra genitori-figli.
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Non di rado si verificano situazioni in cui la Corte Europea chiede allo Stato di rimediare all'infrazione, pena nuove sanzioni: sanzione
in cui è incorsa anche l'Italia, come da sentenza in data 8 gennaio 2013, per la violazione dell'art. 3, causata dell'odierna situazione
di sovraffollamento carcerario, che contravviene al diritto ad un trattamento umano e dignitoso.
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Venti anni dopo queste affermazioni di principio, precisamente nel 1973, vengono
emanate dal Consiglio d'Europa le “Regole minime per il trattamento dei detenuti”,
ricalcando le “Regole Minime” già approvate nel primo congresso delle Nazioni Unite del
1955.
Nel 1987 queste regole vengono aggiornate e integrate, acquisendo il titolo di “Regole
penitenziarie europee”. Si rilevano in tale testo importanti disposizioni, tra cui il rispetto
della dignità e del trattamento umano (art 1), e la necessità che le persone detenute
mantengano rapporti con le famiglie e il mondo esterno (art 43), cui si collega
l'importanza sancita dall'art 65 che il trattamento penitenziario sia regolato e gestito in
modo da garantire dignità umana e rafforzare i legami delle persone detenute con i
familiari e la comunità esterna. Il programma trattamentale, proprio per rispettare queste
previsioni, deve rispondere al criterio della vicinanza della persona detenuta alla famiglia
(art 68). Si unisce a questo la previsione per cui al detenuto è attribuito il diritto di
contattare immediatamente la famiglia in caso di trasferimento ad altro istituto, così come
in caso di malattia del detenuto il Direttore del carcere si deve mobilitare per informare al
piø presto la famiglia (art 49). Di estrema importanza la previsione dell'art 28, che
stabilisce il diritto della madre detenuta di partorire all'esterno del carcere, e gli artt. 89 e
97 in merito al diritto di assistenza e sostegno idoneo al reinserimento sociale e familiare
del detenuto nel momento delle dimissioni.
Per quanto riguarda la posizione del bambino, numerosi diritti vengono riconosciuti dalla
“Convenzione sui diritti del fanciullo”, sottoscritta a New York nel 1989 e ratificata
dall'Italia con L.176/1991. Si stabilisce in questa occasione che il bambino non deve mai
essere separato dai genitori contro la sua volontà, tranne che la separazione si renda
necessaria nell'interesse del fanciullo stesso; si riconosce inoltre, in caso di separazione da
uno o entrambi i genitori, il diritto del bambino di intrattenere regolarmente rapporti
personali e contatti diretti, a meno che non sia contrario all'interesse preminente del
bambino (art 9). L'interesse superiore del bambino è filo conduttore di tutta la
Convenzione, e si esplicita anche nell'obbligo di rispettare la libertà di espressione dei
bambini e nel dovere di ascoltare il loro parere in tutte le procedure amministrative o
giudiziarie che li riguardano (art 8).
Va detto che poche leggi si riferivano direttamente ai figli separati da genitori detenuti:
troviamo disposizioni in merito nella “Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
Europea”, approvata a Nizza nel 2000. Essa prevede che nessuno possa essere sottoposto
a trattamenti inumani, a tortura o a pene degradanti (art 4).
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Nel capo III-uguaglianza all'art 24 si dice che: “Ogni bambino ha diritto di intrattenere
regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò
sia contrario al suo interesse”.
Per il passaggio di attenzione dai diritti dei detenuti a quelli dei figli, questo è un
momento importante.
Nella Costituzione Europea del 2004, progetto di cui a lungo si è discusso ma che alla
fine non ha avuto seguito, all'art 84 si inseriva l'obbligo di protezione dei minori e
l'obbligo di adempiere al loro benessere, sancendo l'importanza di porli sempre al centro
di ogni attività svolta dalle istituzioni pubbliche e private. Si prevedeva, inoltre, all'art 93
che la famiglia dovesse essere protetta sul piano giuridico, economico e sociale.
Infine, per concludere questo excursus legislativo, si ricorda che nel 2006 il Comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa è intervenuto, tramite la Raccomandazione R (2006),
sollecitando gli Stati membri a conformare la normativa interna alle “Regole Penitenziarie
Europee”, adeguandosi all'affermazione dell'art 24 che stabilisce il diritto della persona
detenuta a comunicare frequentemente con i familiari e disciplina che ogni limitazione a
riguardo non deve intaccare un livello minimo accettabile di contatti, che consentano di
mantenere e curare i rapporti familiari nel modo piø normale possibile.
Per meglio contestualizzare il tema trattato, prima dell'analisi dell'Ordinamento
penitenziario nello specifico, è d'obbligo soffermarsi sul documento che ha fondato la
nostra Repubblica: la Costituzione.
Nel sistema giuridico italiano, caposaldo di tutto l'impianto normativo è la Costituzione,
vertice delle fonti e parametro di legittimità di ogni altro atto. Essa nasce nel 1948, dopo
un intenso sforzo di mediazione, e con lo scopo di fissare una serie di diritti e principi
inderogabili e universali. Una fonte rigida ma allo stesso tempo dinamica, che si
modifica con il tempo, ma con la garanzia di non poter “tornare indietro”: quei diritti,
ritenuti al tempo irrinunciabili in uno Stato Democratico e Repubblicano, saranno, da quel
1 gennaio di piø di 60 anni fa, garantiti per sempre.
La normativa riguardante i detenuti e le pene detentive, prevedendo per sua natura una
limitazione di alcuni diritti della persona, non può che confrontarsi ed essere arginata da
alcuni principi inviolabili della Costituzione.
La persona, come sancito dall'art 2, assume un ruolo primario in ogni ordine sociale, e
ogni entità organizzata deve porre al centro delle proprie attenzioni e attività il soggetto
nella sua dimensione morale, sociale e materiale: ciò comporta l'obbligo per gli enti, siano
essi pubblici o privati, di assicurare e promuovere la crescita integrale dell'uomo.
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L'art 2 ci ricorda inoltre che la Repubblica, impegnandosi a riconoscere e garantire i diritti
inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, pone in capo allo Stato,
qualora eserciti la potestà punitiva e faccia espiare le pene nella comunità carceraria, il
vincolo di rispettare la dignità della persona, curandone i diritti inviolabili, soddisfacendo
i progetti e gli interventi trattamentali, e agevolando i rapporti con i familiari, i congiunti
e la comunità esterna.
Sempre nell'art 2 si rileva l'importanza attribuita dal nostro ordinamento al principio della
solidarietà, legata alla finalità di favorire la crescita integrale della persona. Nel
sopraccitato articolo si parla di solidarietà economica, politica e sociale per promuovere e
tutelare i diritti inviolabili dell'uomo. Solidarietà che è anche elemento fondante della
famiglia, poichØ rappresenta la base di sostegno dell'unità familiare, la quale è un valore
costituzionale fondamentale e pertanto va garantita (art 29).
Muovendo da queste osservazioni, si ritiene che la condanna subita dal detenuto vada
predisposta in modo tale da consentire ai familiari di conservare e coltivare quei rapporti
solidali e di sostegno di cui prima si parlava. Si deve prevedere quindi un percorso
trattamentale personalizzato che permetta colloqui frequenti, appositi spazi, interventi a
beneficio delle persone affettivamente legate al reo.
L'esercizio della potestà punitiva e la detenzione di una persona generalmente vanno a
intaccare, oltre al colpevole, anche le relazioni familiari. Ciò che succede quando nella
vita di una famiglia si affaccia il problema della detenzione di un familiare verrà
esaminato in seguito: qui è importante capire che molto spesso vengono limitati anche i
diritti dei congiunti e non solo di chi subisce una misura detentiva.
I rapporti e le relazioni affettive tra reo e familiari vengono sostenute e garantite dalle
disposizioni degli artt. 2, 29, 30, 31 Cost., le quali prevedono che lo Stato debba
assicurare protezione al nucleo familiare. Fondamentale l'art 30 della Costituzione che,
secondo le odierne interpretazioni, sancisce il diritto inalienabile e soggettivo alla
genitorialità, indicando infatti che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed
educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” (Grassi, 2008).
Si afferma infatti, essendo la famiglia un valore inderogabile, che la carcerazione debba
influire il meno possibile sul tessuto familiare. Il trattamento del reo deve essere condotto
nell'ottica di sostenere le relazioni: bisogna che siano previsti spazi adeguati, opportunità
efficaci e momenti idonei per il colloquio e la visita. Tutto ciò pare molto
difficile da realizzare per la stessa natura dell'istituzione carceraria, ma sarebbe piø
fattibile se, già nel momento della costruzione delle strutture stesse, si prevedessero
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stanze apposite per soddisfare questo tipo di bisogni. A ciò dovrebbe sommarsi la
possibilità di destinare dei fondi per interventi socio-economici finalizzati al sostegno
della famiglia, al contrasto della povertà e dell'emarginazione, senza dimenticare l'attività
di coinvolgimento delle agenzie territoriali per sostenere la persona condannata nel
percorso di reinserimento affettivo, lavorativo e sociale.
Di fondamentale importanza è anche la necessità di assicurare alla persona detenuta la
possibilità di coltivare in modo adeguato e intenso le relazioni con i figli (Salvati, 2011)
I figli hanno bisogno del contatto e dell'affetto di entrambi i genitori, soprattutto nei
primi anni di vita e nel periodo adolescenziale. La mancanza di una delle due figure
genitoriali ha conseguenze drastiche sulla crescita dei figli. Ne consegue che la normativa
penitenziaria non dovrebbe ostacolare o dimenticare la comunità familiare a cui
appartiene il reo. Sarebbe fondamentale, inoltre, superare la logica attuale, in cui maggior
importanza viene data al rapporto madre-figlio, per il quale sono previsti peculiari
benefici in capo alla madre, per equiparare maternità e paternità e consentire medesime
garanzie al padre detenuto.
Il nucleo affettivo del reo va posto al centro dell'esecuzione penale perchØ rappresenta il
valore da tutelare in via primaria, e attenzione sempre maggiore va posta a non far subire
ai familiari le conseguenze del comportamento criminoso del reo: come ci ricorda l'art 27
al comma 1, “la responsabilità penale è personale”. Ogni limitazione della libertà e dei
diritti di chi è ritenuto colpevole deve ricadere solamente ed esclusivamente sulla persona.
Molto spesso, invece, sembra che a scontare gran parte della pena siano i congiunti o i
figli, le cosiddette “vittime dimenticate” per usare la terminologia utilizzata da Matthews
(2006).
L'art 27 enuncia altri due principi fondamentali: il divieto di ogni trattamento inumano e
la finalità rieducativa della pena.
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I principi, legati tra loro, danno attuazione all'art 2 Cost. perchØ rendono effettiva la
centralità della persona nell'ambito dell'esecuzione penale. Non si può rieducare una
persona sottoponendola a pene degradanti. La finalità rieducativa va intesa come dovere
dello Stato di predisporre e realizzare interventi misti per individuare e cercare soluzione
a situazioni come la povertà, la dipendenza, l'emarginazione, il bisogno, che vanno a
3 Corte di Cassazione, Cass.pen 27 aprile 1998 n.68, Cusani. “La funzione rieducativa della pena, proprio per la laicità alla quale è
orientato il nostro ordinamento, consiste nel riconoscimento della necessità di rispettare le leggi penali, che assicurano la soglia
minima di comportamenti leciti dovuti e di conformare in genere il proprio agire ai doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale sanciti dall'Ordinamento, con esclusione di qualsiasi ulteriore aggiuntivo elemento che non sia direttamente in
relazione con tale finalità”
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qualificarsi come fattori di esposizione ad un comportamento deviante. Lo Stato ha tra i
suoi compiti quello di offrire in concreto occasioni e interventi per il sostegno del
detenuto e della famiglia, al fine di favorirne il reinserimento e perseguire l'obiettivo del
contrasto all'esclusione sociale.
Lo Stato concretamente non può imporre al reo la rieducazione, ma deve sempre proporre
interventi e percorsi di questo tipo: sarà il condannato stesso a decidere se aderirvi o
rifiutarli. Tutto ciò si basa sull'assunto che la persona detenuta sia distinta dall'atto
criminoso da lei commesso. Se non vi fosse una distinzione tra persona e comportamento
sbagliato, non si potrebbe sostenere alcuna finalità rieducativa. Solo in quest'ottica, che
trascende dalle convinzioni passate per cui si è criminali dalla nascita (come sosteneva
Lombroso), si può pensare a un percorso riabilitativo che rispetti il diritto all'indennità,
all'integrità psico-fisica, alla pratica religiosa, al lavoro, all'istruzione, alla salute, alla
famiglia, alla socialità, eccetera. La vita in carcere perde così la connotazione di non-vita,
di immobilità e staticità, per diventare un percorso dinamicamente volto a stimolare la
rivisitazione critica del reato da parte del detenuto. Per questo scopo diventa
fondamentale mantenere le relazioni familiari al di fuori del luogo di reclusione; se
consideriamo la detenzione una parentesi della vita di quella persona, non possiamo
tralasciare quello che fuori rimane. Viste le enormi difficoltà di risocializzazione che un
detenuto incontra nella società, pare controproducente deteriorare i rapporti anche con
quei punti di riferimento che potrebbero rendere piø semplice un reinserimento. Molto
spesso la carcerazione porta però alla nascita di conflitti con i familiari e ad
allontanamenti: proprio per questo serve investire risorse su nuovi progetti di sostegno, e
su professionalità che, presenti nel settore penitenziario, potrebbero essere impiegate
come mediatori della relazione tra il reo e la sua famiglia.
2. L'istituzione carceraria: da “sorvegliare e punire” a “rieducare e reinserire”
Il termina carcere derivante dal latino coerceo, e significa letteralmente trattenere,
contenere, che è l'idea dalla quale il carcere nacque. Nel tempo la visione del carcere e lo
scopo della pena sono significativamente cambiati. Tracciare un quadro storico e sociale
dell'istituzione carceraria e della pena in modo dettagliato esula dallo scopo dell'elaborato:
ci si limita qui a dare notizia degli accadimenti e dei processi di trasformazione sociale e