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film, fa un’analisi in tempo reale, “istintiva”; in più interpreta, ovvero 
mette in atto un’operazione costruttiva
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. 
Operiamo insomma delle divisioni per poi negarle, e questo perché 
il film indica di per sé un approccio preferenziale: in quanto opera che si 
dà a vedere, sua prima prerogativa è l’apparenza
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 (esteriorità), ed è in 
questa stessa apparenza che si inscrive la sua struttura. 
Ciò che cercheremo di dimostrare è che è la percezione di questa 
apparenza a guidare gli approcci che abbiamo elencato: punto d’arrivo 
(creazione) o punto di partenza (analisi, percezione), è nella sua forma 
cristallizzata, invariabile e fissa, che il film vive. Il regista sarà allora il 
primo spettatore implicito del film
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. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                 
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 Casetti parla in proposito di “processo di aspettualizzazione: un occhio ideale, funzionante da 
punto di ricezione, modula sulle proprie attitudini o sulle proprie finalità quanto è chiamato a 
ripercorrere; a partir da sé, dispone ciò che ha di fronte secondo una determinata prospettiva.” 
[F.Casetti, Dentro lo sguardo – Milano, Studi Bompiani, 2001, pag.78]. 
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 Inscriviamo imprescindibilmente il fattore temporale in ciò che chiamiamo apparenza del film. 
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 “Con i termini di Autore implicito e Spettatore implicito (o secondo altre dizioni, autore o 
spettatore modello, enunciatore o enunciatario) vengono definite figure astratte che rappresentano i 
principi generali che reggono il testo: vale a dire, rispettivamente, la “logica” che lo informa 
(l’Autore implicito) e la “chiave” secondo cui esso va preso (lo Spettatore implicito).” [F.Casetti – 
F.di Chio, Analisi del film – Milano, Strumenti Bompiani, 2004, pag.221]. La nostra tesi vorrà 
quindi sostenere che il regista, nel suo stesso determinarsi istanza creatrice del film, deve porsi, nei 
suoi confronti, innanzi tutto come chiave di lettura, o meglio “chiave di visione”. Ovvero che la 
creazione stessa deve nascere dalla percezione (di ciò che ancora non è stato fissato sullo 
schermo). 
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1. PERCEZIONE 
 
 
 
1a. PERCEZIONE DELLA REALTÀ 
 
Cominciamo il nostro piccolo viaggio nell’analisi della percezione 
visiva guardando alla situazione quotidiana: nella vita di tutti i giorni 
abbiamo a disposizione cinque sensi per percepire la realtà che ci 
circonda. Di questi cinque sensi, potremmo definirne due “pubblici”, e 
sono la vista e l’udito, e chiamare invece “privati” gli altri tre. I sensi 
privati ci permettono di ricevere stimoli esclusivamente attraverso il 
contatto: assaporare, toccare, odorare (anche l’olfatto ha bisogno di 
essere stimolato materialmente, seppure questa materia sia aeriforme). I 
sensi pubblici ci permettono invece di ricevere stimoli anche a distanza, 
senza venire a contatto con alcunché: la luce e il suono si propagano, 
attraverso onde elettromagnetiche, a grandissime distanze. In più, il 
contatto che viene stabilito con l’esterno attraverso i sensi privati è 
particolarmente intimo, essendo la pelle, il naso, la bocca, oltre che 
apparati ricettivi, anche dei canali di contatto tra l’interno e l’esterno del 
corpo. Un contatto che è bidirezionale (dal naso esce l’aria, dalla bocca il 
fiato e la voce, la pelle trasuda e odora). Cosa che non accade invece per 
l’occhio e l’orecchio, organi dedicati esclusivamente alla ricezione. 
Ma possiamo operare un’ulteriore distinzione tra i sensi: gli occhi 
hanno bisogno di mirare ciò che guardano, hanno bisogno di essere 
direzionati, e inquadrano una porzione delimitata (se pur molto poco 
definita ai margini) dello spazio; le orecchie invece percepiscono il suono 
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a 360° sferici, sempre e contemporaneamente. Inoltre l’udito non può 
essere “disattivato” (possiamo “tapparci le orecchie” ma non tanto da 
eliminare ogni suono), così come anche il tatto (che sia solido, liquido o 
gassoso, siamo sempre circondati da qualcosa e quindi ne percepiamo il 
contatto), l’olfatto (il solo respirare ci forza a sentire gli odori), il gusto 
(possiamo sputare via ciò che stiamo mangiando o bevendo, eliminando 
così la fonte dello stimolo, ma non possiamo disattivarne i recettori). La 
vista invece sì che può essere disattivata: basta chiudere gli occhi! Per 
vedere dobbiamo voler vedere; se vogliamo, possiamo non vedere, e 
possiamo decidere cosa inquadrare e cosa non inquadrare, 
selettivamente
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. 
Si pone inoltre la questione della frequenza: di norma il gusto viene 
attivato solo nei momenti in cui mangiamo o beviamo; l’olfatto quando 
sentiamo un odore particolare; il tatto e l’udito, pur essendo 
costantemente in funzione, lo sono in maniera spesso passiva: l’ascolto, 
come la percezione tattile, può essere modulato solo relativamente. E’ 
vero, possiamo “tendere l’orecchio”, concentrandoci su un fruscio, 
cercando di isolarlo dal resto dei rumori che percepiamo, magari per 
capire da dove proviene o quale ne è la causa; possiamo palpeggiare un 
panno steso, cercando di capire se è completamente asciutto o ancora 
umidiccio, passando il tessuto più volte tra le dita, e in maniera più o 
meno forte. Come possiamo anche aguzzare la vista per scorgere una 
rondine alta nel cielo, cercando di far filtrare meno luce possibile per non 
farci abbagliare dal chiarore. Tutto questo accade però solo in date 
                                                 
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 Si sono portati questi esempi riferendosi a situazioni di vita quotidiana. In assoluto può accadere 
che ci sia un tale silenzio intorno da riuscire, tappandosi le orecchie, a non percepire alcun rumore 
o suono; o, respirando con la bocca, a non sentire alcun odore; come è anche vero che le palpebre 
non sono opache al 100% e lasciano quindi trasparire un piccolo quantitativo di luce, che diventa 
sensibile se si è abbagliati ad esempio da una fonte luminosa intensa. Ma questi sono appunto casi 
limite, lontani da un’esperienza ordinaria e quindi non esemplari per uno studio. 
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situazioni, quando ci si deve sforzare per ascoltare, sentire, vedere; 
quando la situazione lo richiede, quando si verifica un fatto non ordinario. 
E in tutti gli altri casi? 
La registrazione degli stimoli acustici e di quelli tattili avviene in 
maniera sincronica: l’orecchio percepisce tutti i suoni dell’ambiente che 
ha attorno contemporaneamente, il corpo percepisce la presenza (o l’assenza) 
di contatto attraverso l’intero sistema epidermico contemporaneamente. 
L’occhio ha invece bisogno di puntare in sequenza, e quindi 
diacronicamente, i vari scorci del campo visivo per ricostruirne 
un’immagine: muovendosi velocemente, schizzando da destra a sinistra, 
in alto, in basso, mettendo a fuoco ora più lontano ora più vicino. E ciò 
avviene in ogni situazione, in ogni momento: non importa cosa stiamo 
facendo, l’occhio è sempre attivo, mobile, alla ricerca del mondo che ci 
circonda; l’occhio viaggia, salta, si serra e si riattiva, fissa un particolare, 
segue uno sguardo, va alla ricerca di un dettaglio; e in maniera sempre 
selettiva. 
Abbiamo fatto l’esempio di situazioni non ordinarie, in cui i nostri 
sensi vengono, per così dire, messi alla prova, e quindi sfruttati 
attivamente e al massimo delle loro potenzialità: individuare la fonte di 
un fruscio, sentire se un panno è umido o solo freddo ma asciutto, 
seguire una rondine alta nel cielo. Pensiamo ora a delle situazioni 
ordinarie, come parlare con una persona o camminare per strada. Se 
parliamo faccia a faccia con qualcuno ci troviamo in una situazione più o 
meno di stasi: abbiamo la terra sotto i piedi, i vestiti addosso, magari le 
scarpe che stringono appena, un po’ di freddo se è inverno,...sentiamo le 
nostre e le sue parole, i suoi sospiri, il vociare di qualche persona che 
parla più in là, i rumori lontani del traffico; se invece camminiamo per 
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strada, sentiamo il cemento duro del marciapiede ad ogni passo, le scarpe 
che stringono quando poggiamo il piede, un po’ di brezza sul volto, i 
pantaloni che strusciano, la camicia che ondeggia; il rumore del motore 
delle auto che ci passano accanto, un uomo chiamare ad alta voce da 
lontano, il clacson di un motorino...ma cosa vediamo? Teoricamente, 
stando più o meno fermi di fronte al nostro interlocutore o camminando 
in una certa direzione, avremmo un campo visivo ben delineato, 
potenzialmente predeterminato, così come il campo sonoro. Ed è qui che 
occorre la differenza: l’occhio si muove in una potenzialità visiva 
soddisfacendola sempre solo parzialmente; il campo visivo potenziale 
non coincide mai con quello reale, effettivamente esperibile. L’occhio 
quindi si trova attimo dopo attimo a dover operare delle scelte, a dover 
decidere, selezionare. Insomma, il lavoro di focalizzazione e concentrazione 
percettiva che l’orecchio, ad esempio, si trova a compiere solo in 
determinate occasioni, è invece sempre operato dall’occhio: è il suo – 
esclusivo – modo di lavorare. Ma non si tratta solo di focalizzare o di 
concentrarsi su qualche particolare all’interno di un campo percettivo 
dato: questo accadrebbe anche nell’ascolto del nostro interlocutore 
(situazione in cui dobbiamo “mettere a fuoco” le sue parole e “fuori 
fuoco” gli altri rumori attorno): si tratta proprio di scegliere, di 
determinare il proprio campo di visione, se non addirittura di crearlo. E’ 
quasi come se l’occhio tracciasse un percorso visivo, eseguendo un 
montaggio in tempo reale, costruendo la propria visione: in una 
situazione ordinaria, dove l’udito e il tatto sono mera registrazione di 
stimoli, la vista è al tempo stesso registrazione e creazione
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. Mentre gli 
                                                 
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 “Ogni visione consiste in un duplice movimento: proiettivo (il faro che “esplora”) e introiettivo: 
la coscienza come superficie sensibile di una registrazione (come schermo). [...] Occorre 
diffondere sul mondo una specie di flusso, che si chiama sguardo, [...] perché gli oggetti possano 
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altri sensi devono come essere attivati da qualche impulso particolare – 
un fruscio (udito), una folata di vento gelido (tatto), un odore nauseante 
(olfatto), un sapore dolcissimo (gusto), limitandosi altrimenti alla 
registrazione di stimoli neutri (il paradossale silenzio formato da tutti i 
suoni non distinguibili e classificabili come rumore di fondo, la naturale 
autopercezione corporea, l’odore neutro dell’aria, il sapore neutro della 
saliva), la vista è sempre attiva. Insomma, non c’è sempre qualcosa da 
sentire, da toccare, da odorare, da assaporare, ma c’è sempre qualcosa da 
guardare!
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Abbiamo individuato quindi le caratteristiche della vista: senso 
pubblico (ovvero discreto, non intimo), sempre attivato e sempre attivo. 
E quelle dell’udito: senso pubblico, sempre attivato ma non sempre 
attivo. Evidenziando il gap presente tra queste due categorie di sensi 
(pubblici e privati), abbiamo operato distinzioni più o meno nette che 
adesso catalizzeremo seguendo lo scopo della nostra analisi: ci 
occuperemo d’ora in avanti solo dei sensi pubblici, nel loro costituirsi 
senso di ricezione a distanza. 
Ma andiamo in ordine: scomponiamo velocemente il fenomeno filmico 
seguendo la linea dell’apparenza (ciò che ci è dato percepire) e 
procedendo a ritroso nel tempo:  
                                                                                                                                     
risalire quel flusso in senso inverso [...] e giungere alla fine alla nostra percezione, che è ora cera 
molle e non più fonte emittente.” [C.Metz, Cinema e psicanalisi – Venezia, Marsilio, 2002, 
pagg.62-63]. 
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 Non abbiamo l’ambizione di tracciare in poche righe un’analisi percettivologica dell’essere 
umano: siamo consci di aver parlato prevalentemente a nome di un certo modo di vivere 
occidentale contemporaneo (per altro sempre più alieno dal contatto fisico nella vita quotidiana e 
dalla professione di mestieri artigianali). Che il cinema, sia come innovazione tecnologica che 
come arte, abbia avuto i natali proprio in questo tipo di ambiente, non può essere considerato come 
alibi. Tuttavia, avendo un certo percorso da seguire, e nell’economia generale del saggio, abbiamo 
preferito restringere l’analisi a una casistica percettiva ridotta piuttosto che saltare a piè pari 
l’intera questione, per altro fondamentale alla nostra causa.         
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- il cinema oggi, 2007: proiezione su uno schermo rettangolare di 
una sequenza di immagini fotografiche, spesso a colori, spesso 
ritoccate e integrate digitalmente, quasi sempre sincronizzate con 
una traccia audio; 
- il cinema prima del 1932
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: si prescinde dal colore; 
- il cinema prima del 1927: si prescinde dal sonoro (fatta eccezione 
per le frequenti sincronizzazioni “in diretta”); 
- il cinema delle origini, 1895: proiezione su uno schermo 
rettangolare di una sequenza di immagini fotografiche; 
- prima del cinema, 1839: la fotografia, impressione di un’immagine 
(fotografica) su un supporto (quasi sempre) rettangolare; 
- prima della fotografia, 1408: la pittura
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, così come è andata 
costituendosi in “messa in quadro”: rappresentazione di 
un’immagine su un supporto rettangolare. 
Trascendendo i processi psichici e gli atteggiamenti innati che 
hanno portato l’uomo a rappresentarsi e a mostrarsi, già nelle caverne 
con i graffiti o nelle rade con dolmen e menhir,  cominceremo ad 
analizzare la pittura ovvero, nell’accezione sopra indicata, il quadro. 
 
 
 
 
                                                 
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 Adottiamo indicativamente l’anno del primo film girato a tre colori (Silly Simphonies di Walt 
Disney – Technicolor). In realtà il primo film a colori distribuito commercialmente risale al 1908 
(aveva solo una scala di grigi e una di blu), e da quell’anno in poi le tecniche di colorazione si 
sono progressivamente affinate. 
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 Ci riferiamo, almeno all’inizio, alla pittura realista, adottando idealmente il 1408 come anno di 
origine: dal 1408 infatti, con la nascita della prospettiva, la realtà pittorica adotta le stesse regole di 
percezione della realtà effettiva, almeno per quanto riguarda l’organizzazione spaziale. La cesura, 
come sempre, non è netta né assoluta, ma ci serve per semplificare.